giovedì 25 agosto 2022

L' ARTE HA UN TABU'......

 L’arte ha un tabù Si chiama Dio

DI LARA CRINÒ
La Repubblica21/8
James Elkins non si definisce religioso, piuttosto «consapevole di cosa significa la fede». Dagli Stati Uniti — insegna alla School of the Art Institute of Chicago — spiega che si convertì all’ebraismo da ragazzo, al college. Poi, aggiunge, «sono diventato non osservante, ma sono profondamente solidale con una vita religiosa impegnata perché ne ho sentito il significato». È questa consapevolezza, unita alla volontà di decostruire categorie e schemi della storia dell’arte, che Elkins mette in pratica nel suo lavoro critico. InDipinti e lacrime (edito in Italia nel 2007 da Bruno Mondadori) contestava il museo contemporaneo come luogo in cui i visitatori «guardano senza sentire» e rievocava l’esperienza profondamente emotiva, fino appunto al pianto, che la visione dell’opera d’arte provocava negli spettatori dei secoli passati. In un altro suo saggio, ora tradotto da Johan & Levi e intitolato Lo strano posto della religione nell’arte contemporanea , pone al lettore alcune domande che raramente emergono nel dibattito collettivo: perchél’Occidente, che ha prodotto nei secoli passati altissima arte religiosa, ora sembra incapace di incorporare la fede nel discorso pubblico? E perché, se si parla di Dio nell’arte, è attraverso lo schermo dell’ironia, dell’irriverenza o addirittura della blasfemia? Ecco come Jenkins ci mostra che, mentre la pratica artistica in Occidente aspira a essere totalmente libera, sta forse censurando la ricerca delle risposte alle domande più profonde.
Che cosa l’ha spinta a indagare il rapporto tra arte contemporanea e religione?
«Insegnando alla scuola d’arte di Chicago mi sono accorto, nel tempo, che alcuni dei nostri studenti vorrebbero esprimere le loro convinzioni religiose nelle opere che realizzano. Così vi includono immagini di Gesù, di Buddha e altre figure. Tuttavia, i professori, che sono sempre pronti a discutere dell’uso del colore o della composizione, si tengono alla larga dal contenuto religioso. Lo trovo affascinante, perché siamo nel 2022: si è felici di dibattere di identità, di genere, di sessualità, di etnia, di nazionalità e di razza, ma la religione resta un continente sconosciuto per il discorso liberale».
Lei nota come l’arte religiosa sopravviva al di fuori dal circuito dei musei, delle grandi gallerie e delle fiere. È semplicemente “brutta arte” o piuttosto si evolve a modo suo?
«Potremmo dire che è “brutta” perché agli occhi di critici, galleristi, curatori e storici dell’arte è convenzionale e conservatrice. Ma per sociologi, antropologi e storici delle religioni è una parte interessante della cultura visiva. Io trovo affascinante l’arte religiosa nelle chiese, nei templi, nelle sinagoghe. In Iran ho visto immagini di Gesù dipinte nelle moschee: sapevo che ci sono tradizioni dell’Islam che consentono la figurazione, e sapevo che Gesù appare nel Corano. Ma non mi aspettavo di vedere un Gesù che balla in un modo che non fa mai nelle chiese cattoliche».
E tuttavia la corrispondenza tra arte e religione in Occidente ha cominciato a scricchiolare molto tempo fa: si è incrinata nel Rinascimento, si è rotta definitivamente con il Modernismo.
Perché?
«A Firenze, a partire dal 1420 circa, in quel periodo che chiamiamo Rinascimento, i committenti delle opere d’arte divennero consapevoli delle capacità dei singoli artisti.
L’attenzione si spostò dagli oggetti del culto, Dio e i santi, a coloro che li raffiguravano. Non è un caso unico: gli artisti Maya erano conosciuti per nome e gli artisti cinesi erano noti per i loro stili diversi già nel Decimo secolo, ma ciò che accadde nel Rinascimento fu dirompente. Una volta che quel tipo di consapevolezza sorse, non fu più dimenticata».
Quali artisti rappresentano secondo lei le tappe di questa laicizzazione dell’arte nel corso dei secoli?
«La maggior parte dei critici indica Masaccio e, nei secoli successivi, Velázquez e Manet. Io invece preferisco guardare Michelangelo: verso la fine della sua vita considerava empia la consapevolezza del proprio valore. Si dibatteva tra la volontà di rimanere un buon cristiano e quella di creare opere che si sarebbero fatte conoscere per la loro bellezza. I suoi tardi disegni delle crocifissioni, e i disegni realizzati per Vittoria Colonna, sono esempi commoventi di questo dissidio interiore».
Quel che vediamo oggi è invecel’uso dei simboli religiosi per creare opere irriverenti, o scandalose, o latamente spirituali.
«Dal punto di vista della definizione, “religioso” è qualcosa che rinvia ai simboli di un culto conosciuto. Ma questo non implica un afflato di fede. Della Crocifissione di Salvador Dalí lo stesso pittore scrisse che non deve essere considerata un’opera religiosa. Allo stesso modo, penso ad esempio a Mark Rothko, il corpus di un artista può apparirci spirituale, nel senso che ci suggerirà qualcosa della fede, senza dirci in che cosa crede il pittore, o in che cosa dovrebbe credere colui che lo guarda. E poi ci sono le opere che fanno scandalo, penso a La nona ora di Maurizio Cattelan o Piss Christ di Andres Serrano: si tratta di artisti coinvolti nella religione e nella fede.
Del resto, la bestemmia è sempre stata qualcosa che inizia nella chiesa e si rivolge alla chiesa. Ma in tutto ciò, mancano le opere che parlano direttamente della fede interiore».
Il circuito dell’arte contemporanea si è mosso sull’asseEuropa-Stati Uniti. Poi sono arrivate le potenze asiatiche, in particolare la Cina. E infine i paesi del Golfo. Questo può cambiare la visione della tematica religiosa?
«In Cina posso discutere di questo tema, ma vengo solitamente accolto con il silenzio. Negli Emirati Arabi e altrove nel mondo islamico, vedo tentativi di combinare sentimenti progressisti sul genere e sull’arte con l’ortodossia nella fede. È una possibilità che il mondo dell’arte contemporanea non ha ancora esplorato a fondo».