L’arte ha un tabù Si chiama Dio
DI LARA CRINÒ
La Repubblica21/8
James
Elkins non si definisce religioso, piuttosto «consapevole di cosa
significa la fede». Dagli Stati Uniti — insegna alla School of the Art
Institute of Chicago — spiega che si convertì all’ebraismo da ragazzo,
al college. Poi, aggiunge, «sono diventato non osservante, ma sono
profondamente solidale con una vita religiosa impegnata perché ne ho
sentito il significato». È questa consapevolezza, unita alla volontà di
decostruire categorie e schemi della storia dell’arte, che Elkins mette
in pratica nel suo lavoro critico. InDipinti e lacrime (edito in Italia
nel 2007 da Bruno Mondadori) contestava il museo contemporaneo come
luogo in cui i visitatori «guardano senza sentire» e rievocava
l’esperienza profondamente emotiva, fino appunto al pianto, che la
visione dell’opera d’arte provocava negli spettatori dei secoli
passati. In un altro suo saggio,
ora tradotto da Johan & Levi e intitolato Lo strano posto della
religione nell’arte contemporanea , pone al lettore alcune domande che
raramente emergono nel dibattito collettivo: perchél’Occidente,
che ha prodotto nei secoli passati altissima arte religiosa, ora sembra
incapace di incorporare la fede nel discorso pubblico? E perché, se si
parla di Dio nell’arte, è attraverso lo schermo dell’ironia,
dell’irriverenza o addirittura della blasfemia? Ecco come Jenkins ci
mostra che, mentre la pratica artistica in Occidente aspira a essere
totalmente libera, sta forse censurando la ricerca delle risposte alle
domande più profonde.
Che cosa l’ha spinta a indagare il rapporto tra arte contemporanea e religione?
«Insegnando
alla scuola d’arte di Chicago mi sono accorto, nel tempo, che alcuni
dei nostri studenti vorrebbero esprimere le loro convinzioni religiose
nelle opere che realizzano. Così vi includono immagini di Gesù, di
Buddha e altre figure. Tuttavia, i professori, che sono sempre pronti a
discutere dell’uso del colore o della composizione, si tengono alla
larga dal contenuto religioso. Lo trovo affascinante, perché siamo nel
2022: si è felici di dibattere di identità, di genere, di sessualità, di
etnia, di nazionalità e di razza, ma la religione resta un continente
sconosciuto per il discorso liberale».
Lei
nota come l’arte religiosa sopravviva al di fuori dal circuito dei
musei, delle grandi gallerie e delle fiere. È semplicemente “brutta
arte” o piuttosto si evolve a modo suo?
«Potremmo
dire che è “brutta” perché agli occhi di critici, galleristi, curatori e
storici dell’arte è convenzionale e conservatrice. Ma per sociologi,
antropologi e storici delle religioni è una parte interessante della
cultura visiva. Io trovo affascinante l’arte religiosa nelle chiese, nei
templi, nelle sinagoghe. In Iran ho visto immagini di Gesù dipinte
nelle moschee: sapevo che ci sono tradizioni dell’Islam che consentono
la figurazione, e sapevo che Gesù appare nel Corano. Ma non mi aspettavo
di vedere un Gesù che balla in un modo che non fa mai nelle chiese
cattoliche».
E
tuttavia la corrispondenza tra arte e religione in Occidente ha
cominciato a scricchiolare molto tempo fa: si è incrinata nel
Rinascimento, si è rotta definitivamente con il Modernismo.
Perché?
«A
Firenze, a partire dal 1420 circa, in quel periodo che chiamiamo
Rinascimento, i committenti delle opere d’arte divennero consapevoli
delle capacità dei singoli artisti.
L’attenzione
si spostò dagli oggetti del culto, Dio e i santi, a coloro che li
raffiguravano. Non è un caso unico: gli artisti Maya erano conosciuti
per nome e gli artisti cinesi erano noti per i loro stili diversi già
nel Decimo secolo, ma ciò che accadde nel Rinascimento fu dirompente.
Una volta che quel tipo di consapevolezza sorse, non fu più
dimenticata».
Quali artisti rappresentano secondo lei le tappe di questa laicizzazione dell’arte nel corso dei secoli?
«La
maggior parte dei critici indica Masaccio e, nei secoli successivi,
Velázquez e Manet. Io invece preferisco guardare Michelangelo: verso la
fine della sua vita considerava empia la consapevolezza del proprio
valore. Si dibatteva tra la volontà di rimanere un buon cristiano e
quella di creare opere che si sarebbero fatte conoscere per la loro
bellezza. I suoi tardi disegni delle crocifissioni, e i disegni
realizzati per Vittoria Colonna, sono esempi commoventi di questo
dissidio interiore».
Quel che vediamo oggi è invecel’uso dei simboli religiosi per creare opere irriverenti, o scandalose, o latamente spirituali.
«Dal
punto di vista della definizione, “religioso” è qualcosa che rinvia ai
simboli di un culto conosciuto. Ma questo non implica un afflato di
fede. Della Crocifissione di Salvador Dalí lo stesso pittore
scrisse che non deve essere considerata un’opera religiosa. Allo stesso
modo, penso ad esempio a Mark Rothko, il corpus di un artista può
apparirci spirituale, nel senso che ci suggerirà qualcosa della fede,
senza dirci in che cosa crede il pittore, o in che cosa dovrebbe credere
colui che lo guarda. E poi ci sono le opere che fanno scandalo, penso a
La nona ora di Maurizio Cattelan o Piss Christ di Andres Serrano: si tratta di artisti coinvolti nella religione e nella fede.
Del
resto, la bestemmia è sempre stata qualcosa che inizia nella chiesa e
si rivolge alla chiesa. Ma in tutto ciò, mancano le opere che parlano
direttamente della fede interiore».
Il
circuito dell’arte contemporanea si è mosso sull’asseEuropa-Stati
Uniti. Poi sono arrivate le potenze asiatiche, in particolare la Cina. E
infine i paesi del Golfo. Questo può cambiare la visione della tematica religiosa?
«In
Cina posso discutere di questo tema, ma vengo solitamente accolto con
il silenzio. Negli Emirati Arabi e altrove nel mondo islamico, vedo
tentativi di combinare sentimenti progressisti sul genere e sull’arte
con l’ortodossia nella fede. È una possibilità che il mondo dell’arte
contemporanea non ha ancora esplorato a fondo».