giovedì 11 agosto 2022

TENSIONI TRA SERBIA E KOSOVO

 Evitare una nuova Sarajevo

di MARCO MINNITI

La decisione del Kosovo di rimandare al 1° settembre, anche sulla base di forti pressioni internazionali, e l’entrata in vigore della nuova normativa sulle targhe automobilistiche e i documenti di identità della minoranza serba, consente a tutti gli attori interessati di costruire un piano d’azione che punti a raffreddare le tensioni e apra la strada ad una soluzione concordata. Non sfugge, tuttavia, a nessuno che per un giorno intero si è temuto il peggio. Il riesplodere di un conflitto armato tra Serbia e Kosovo. Minacce esplicite, blocchi stradali, tensioni e scontri armati ci hanno riportato, drammaticamente, con la mente al 1999 quando il combinato disposto della dissoluzione della ex Jugoslavia di Tito e il peso secolare della non risolta questione balcanica determinarono una massiccia campagna aerea della Nato contro la Serbia di Milosevic. Srebrenica, la violenza sistematica contro la minoranza kosovara, gli stupri etnici avevano fatto da drammatico scenario e, contemporaneamente, forte motivazione a un inedito intervento militare diretto dell’Allenza Atlantica nel cuore dell’Europa. Era un’altra epoca. Molta acqua è passata sotto i ponti e, tuttavia, alcuni nodi storico-politici rimangono sostanzialmente irrisolti. Circa cento stati nel mondo hanno ufficialmente riconosciuto l’indipendenza del Kosovo. Ma nel suo preambolo la costituzione serba del 2006, attualmente in vigore, recita: “La provincia di Kosovo e Metohija è parte integrante del territorio della Serbia; ha lo status di una sostanziale autonomia all’interno della Serbia; da tale status derivano obbligazioni costituzionali di tutti gli organi dello Stato a sostenere e proteggere lì gli interessi statali della Serbia”. Con l’aggiunta, non banale, che quattro Stati membri della Nato e dell’Ue: Spagna, Grecia, Slovacchia e Romania non hanno ancora riconosciuto l’indipendenza del Kosovo. Un groviglio complicato, quasi inestricabile, su cui è piombata la guerra in Ucraina che anche in questa vicenda rischia di diventare uno spartiacque. La così detta “crisi delle targhe” era già esplosa nel settembre del 2021. Qualche incidente alla frontiera ma la tensione era rientrata in pochissimi giorni. In queste ore, invece, la crisi è diventata, improvvisamente, quasi globale.

Domenica scorsa, non casualmente, la portavoce del ministero degli Esteri russo ha intimato «a Pristina, agli Usa e all’Ue che la sostengano di smettere le provocazioni e di rispettare i diritti dei serbi». 

Sembra di sentire l’eco di parole pronunciate più autorevolmente nell’imminenza del 24 febbraio. In controluce si intravede la filigrana della diversa collocazione che i due paesi, Serbia e Kosovo, hanno assunto sulla guerra e sui conseguenti rapporti con la Russia. 

La Serbia, pur avendo votato, in sede Onu, le risoluzioni di condanna dell’invasione dell’Ucraina, ha categoricamente escluso di partecipare a qualsiasi regime sanzionatorio verso la Russia. Avendo storicamente non solo una forte vicinanza politica ma anche intense relazioni commerciali. Il suo fabbisogno di gas dipende all’85% da quello russo. Nel 2008 il 51% della sua principale compagnia petrolifera Nis è stato acquisito da Gazprom. L’anno scorso la Serbia e la Rosatom russa hanno sottoscritto un accordo quadro per la costruzione di un centro per la scienza e la tecnologia nucleare. Il piccolo Kosovo, invece, si è schierato immediatamente a fianco all’Ucraina e ha aderito alle sanzioni europee verso la Russia. Ha offerto ospitalità a 20 giornalisti ucraini e si è impegnato ad accogliere 5 mila rifugiati. Pristina ospita una missione dell’Onu (Unmik), una della Nato (Kfor) di cui fa parte una Multinational Specialized Unit a guida italiana, con l’apprezzatissimo e decisivo ruolo dei nostri carabinieri.

C’è, infine, una missione europea sullo stato di diritto in Kosovo (Eulex) a cui collaborano anche Canada, Norvegia, Stati Uniti, Svizzera e Turchia con l’obiettivo esplicito di sostenerlo nel suo percorso verso una maggiore multietnicità secondo gli standard internazionali e nel pieno rispetto dei diritti umani. Spetta, quindi, all’Europa mettere immediatamente in campo un’iniziativa di dialogo tra due paesi che hanno, insieme, l’Europa nel loro destino. Più o meno distante ma inevitabile.

Non si consenta a nessuno di pensare neanche per un attimo che l’incendio appiccato in Ucraina possa estendersi, domani, nei Balcani. Sarebbe incontrollabile. Una nuova Sarajevo.

L’Europa ha la consapevolezza e la forza diplomatica per agire rapidamente. Sapendo che il 1° settembre è vicino. Praticamente domani.

La Repubblica 2 agosto