di Michele Serra
Se ancora valesse, in tempo di guerra, lo sguardo che ci siamo formati in tempo di pace, diremmo che i negoziati Russia-Ucraina, a giudicare dalle poche immagini disponibili, sono il più spudorato dei manel, un convegno di soli maschi, decine e decine, abbastanza poderosi di aspetto, dai quaranta ai sessanta.
E non siamo in Afghanistan, siamo alla resa dei conti tra due popoli che hanno almeno un piede, da secoli, in Europa, con buona pace di Dugin (lo Steve Bannon dell'Est) e dei pope bellicosi. Una sparuta interprete fa capolino in qualche inquadratura fuggevole, e l'effetto è sorprendente, prima ottico che "politico", è come vedere una zebra in mezzo a cento cavalli, o una rosa in un campo di mais.
Lo si è detto per le militari curde, lo si è ridetto per quelle ucraine, il coraggio e la risolutezza non hanno genere. Ma il potere evidentemente sì, un genere ce l'ha, e se la guerra si è aperta anche al sacrificio fisico delle femmine, invece al tavolo delle trattative non c’è l'ombra di una donna, né tra i russi né tra gli ucraini (ecco un “"né né" che forse mi sarà condonato dai tutori della correttezza bellico-politica).
Piace dunque ricordare, mentre il club privé del maschilismo slavo celebra se stesso, almeno due femmine esemplari, entrambe ribelli: Anna Politkovskaja, assassinata per avere scritto dei massacri putiniani in Cecenia, e Marina Ovsjannikova, che fece irruzione in un tigì per denunciare le bugie imposte dalla censura di guerra. Come sarebbe bello se anche al tavolo delle trattative facesse irruzione una donna, chiedendo ai signori presenti se fosse possibile tenere conto, in qualche maniera, anche del fatto che la guerra, per quanto sia uno sport maschile, ha importanti ricadute anche sulle donne e i bambini.
La Repubblica 31 marzo