giovedì 6 ottobre 2022

 

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PINCHAS LAPIDE, Leggere la Bibbia con un ebreo, Edizioni Dehoniane, Bologna 1985.

Un teologo ebreo aiuta noi cristiani a leggere la Bibbia con occhi nuovi. Non si tratta affatto di rinnegare o mettere tra parentesi la ‘novità’ cristiana anche rispetto all'ebraismo, ma di diventare coscienti che, senza l'Antico Testamento, il Nuovo risulta una casa cui manca una delle colonne portanti. «Non è possibile leggere il Nuovo Testamento senza l'Antico; soltanto accostandoli l'uno all'altro e leggendoli l’uno dopo l’altro, essi disvelano la pienezza della vita di fede. Si scopre che Gesù di Nazareth non è affatto il muro di divisione tra cristiani ed ebrei, ma piuttosto il ponte, attraverso il quale la speranza veterotestamentaria in Dio e il futuro della terra nel suo Regno arrivano ai non ebrei» (J. Moltmann).

Il lettore può accostare questo volume con tranquillità: si tratta di un’opera di facile lettura. Particolarmente stimolanti alcuni capitoletti: gioia nella Legge, miracoli nel giudaismo, le imprecazioni nella Bibbia, umorismo e comicità nella Bibbia e altri. Leggere 'in compagnia di un ebreo' conferisce nuovo spessore alla nostra lettura di fede della Bibbia.

 

 



 

Da questo volume è tratta la lunga citazione che il lettore trova qui di seguito. Essa è desunta dal capitolo sui miracoli nel giudaismo.

«E i figli d'Israele entrarono nel mare sull'asciutto, mentre le acque erano per loro una grande muraglia a destra e a sinistra» (Es 14,22). Questo miracolo centrale della storia salvifica ebraica fu un tempo oggetto di dispute rabbiniche, le cui conclusioni suscitarono vasta eco in numerose cerchie di studiosi della Scrittura.

«Io non ci credo», osò obiettare un maestro del Talmud. Alle repliche stupite dei colleghi, dichiarò che secondo lui s'era trattato molto probabilmente della marea, che aveva dato la possibilità agli Israeliti di attraversare «a piedi asciutti» il Mare dei giunchi, mentre cavalli e cavalieri sarebbero annegati per il sopraggiungere dei flutti, in modo del tutto naturale. Tutto il resto - aggiunse il maestro - è pia elucubrazione e niente altro. Dal dibattito che ne scaturì si fece strada infine la seguente opinione: nel caso che rabbi Samuel avesse ragione - cosa che per altro non può essere considerata in alcun modo certa - il miracolo sarebbe stato ancor più grande. In quel caso infatti per salvare il popolo d'Israele dalla schiavitù non ci sarebbe stato bisogno di alcun intervento divino speciale nell'ordine della natura, stabilito da Dio stesso. Maree e flutti infatti erano stati così ‘programmati’ in anticipo, da servire al progetto salvifico di Dio, seguendo il corso normale delle cose.

Sulla stessa linea di idee, un altro rabbi sosteneva che Dio già al momento della creazione aveva fatto un patto con il Mare dei giunchi, in base al quale questi si era impegnato a dividersi per Israele. Analogamente, sole e luna avevano ricevuto l'incarico di fermarsi per Giosuè, già al momento della creazione. Così, al corvo era stato comandato di nutrire Elia; e al fuoco, sempre al momento in cui fu creato, era stato dato l'ordine di non bruciare Anania, Misael e Azaria, e al cetaceo era stato inculcato che avrebbe dovuto rigettare Giona sano e salvo sulla terra.

Tutto questo non deve invalidare in alcun modo la fede nei miracoli, ma semplicemente corredarla della debita umiltà, come vuole illustrarci la seguente storia. Alla fine di un tipico dibattito di scuola tra rabbini, nel quale s'era trattato dell'applicazione concreta di un versetto biblico, rabbi Elieser il Grande si trovò solo e isolato nella sua interpretazione, contro la quale tutti i suoi colleghi avevano sollevato obiezioni. Quanto ne seguì è raccontato con brevità laconica nel Talmud. In quel giorno rabbi Elieser addusse ogni argomento possibile, ma non riuscì a convincerli. Allora disse loro: Se ciò che è giusto concorda con la mia opinione, lo attesti questa pianta di carrubo. Il carrubo allora si spostò cento cubiti dal luogo in cui si trovava. Alcuni sostenevano che s'era spostato addirittura di quattrocento cubiti. Ma essi gli obiettarono: Una pianta di carrubo non può provare niente. Rabbi Elieser a questo punto disse loro: Se ho ragione, lo attesti questo corso d'acqua. Subito dopo l'acqua incominciò a fluire in senso contrario. Un ruscello non può mostrare nulla, replicarono i suoi colleghi. Imperterrito, rabbi Elieser disse: Se la mia opinione risponde a verità, lo attestino i muri di quest’aula. Al che i muri si piegarono, come se stessero per cadere. Ma rabbi Jehoshua li rimproverò, gridando: Che cosa vi salta in mente, di immischiarvi quando degli studiosi litigano sull'interpretazione della Scrittura? I muri allora non caddero, ad onore di rabbi Jehoshua. Ma neanche si raddrizzarono, ad onore di rabbi Elieser. E così sono piegati fino ad oggi. Ancora una volta rabbi Elieser aprì la bocca e disse: Se la Torà mi dà ragione, lo attesti il cielo. Allora risuonò una voce dal cielo, che disse: Perché litigate con rabbi Elieser, se la Torà gli dà ragione in ogni suo brano? Ma rabbi Jehoshua si alzò e gridò verso il cielo; Essa non è in cielo (Dt 30,12). Col che intendeva dire: la Torà è già stata data al popolo d'Israele sul monte Sinai. «Perciò non prestiamo più alcuna attenzione a voci celesti, poiché tu hai scritto in questa Torà che ci si deve piegare alla maggioranza» (Es 23,2).

Fin qui i dibattiti dei rabbini e il loro rifiuto deciso di accettare miracoli invece di prove scritturistiche. Ma il punto principale viene a galla solo nell'epilogo:

«Poco dopo infatti rabbi Natan incontrò il profeta Elia, che è considerato il mediatore tra il cielo e la terra, e chiese: Che ha fatto il Santo, sia benedetto, in quella circostanza? Al che Elia rispose: Ha riso e ha detto: I miei figli mi hanno battuto. I miei figli mi hanno battuto!».

Il riso di Dio - ci vuole insegnare il racconto - contiene una triplice lezione: è un freno salutare a ogni bramosia di miracoli; è una dichiarazione di indipendenza dell'uomo biblico nella sua fede; non da ultimo, è un segno della gioia di Dio per la maturità degli uomini.

Un altro metodo caro ai rabbini è l'interpretazione allegorica. Nella battaglia degli amaleciti contro Israele, si dice: «E quando Mosè alzava le braccia al cielo, Israele vinceva. Ma quando lasciava cadere le braccia, vinceva Amalec» (Es 17.11). A questo proposito i rabbini, con evidente scetticismo, commentano: «È possibile che fossero le braccia di Mosè a decidere la battaglia?». Al ruolo di Mosè nella vittoria ottenuta con la preghiera essi danno un senso simbolico: «Ciò vuol dire piuttosto che quando Israele guarda verso l'alto, ed essi (gli ebrei) sottomettono il loro cuore al Padre in cielo, riescono vittoriosi; quando invece non  fanno così, soccombono».

Lo stesso si dica della «demitizzazione» rabbinica per  quanto riguarda il miracolo del serpente di ferro: «Allora il Signore disse a Mosè: Fatti un serpente di ferro e mettilo sopra un’asta; chiunque, dopo essere stato morso, lo guarderà, resterà in vita» (Nm 21,8). Dal che il commentario del Talmud conclude: «Forse che il serpente poteva uccidere o dare la vita? Piuttosto, se Israele guarda al cielo ed essi (gli ebrei) sottomettono il loro cuore al Padre in cielo, vengono guariti. Ma se non lo fanno, restano malati».

Colui che è andato più lontano lungo questa strada è Maimonide, come si sa, il quale nel medioevo affermava che tutti gli eventi soprannaturali nei libri dei profeti erano parte delle visioni concesse loro, e non dovevano essere considerati in alcun modo fatti effettivamente accaduti.

Egli rimproverava coloro che insistevano troppo sul tempo finale e continuavano a ricercare segni miracolosi: «Non credere che il Messia debba necessariamente operare segni e miracoli, che debba risuscitare i morti o far miracoli simili». Dal che egli concludeva che non i miracoli, ma soltanto ed esclusivamente il realizzarsi delle promesse profetiche autenticherà il mondo pacifico e giusto del futuro Messia.

Mezzo millennio più tardi Moses Mendelssohn, che doveva la propria gobba alle notti trascorse a leggere le opere di Maimonide, spiegava che tutte le religioni possono ricorrere a miracoli per dimostrare la propria verità, e che quindi i miracoli in sé non servono come prova per nessuna di esse.

I razionalisti, che cercavano di presentare l'ebraismo come una religione della pura ragione. ebbero però a che fare - in ogni periodo - con una dura opposizione.

«Forse che c’è qualcosa di impossibile per il Signore?» (Gn 18,14). Questa domanda rivolta da Dio a Sara, la moglie di Abramo che non voleva credere alla promessa di un figlio nella vecchiaia, divenne la parola d'ordine di tutti coloro che erano convinti che «il miracolo è il figlio prediletto della fede». E poiché gli scritti rabbinici non conoscono impostazioni dogmatiche, ma sono aperti, con spirito democratico, al pluralismo di fede, nelle loro pagine troviamo la prospettiva di quelli che credono alla lettera della Scrittura accanto alla posizione di quanti si pongono in atteggiamento critico nei suoi confronti.

Questa contesa sul valore religioso del miracolo trova un'espressione intensa nel dibattito svoltosi tra un certo rabbi Josef e Abbaje, un illustre rabbino che visse nel IV secolo: «C'era una volta un marito cui era morta la moglie, che gli aveva lasciato un neonato. Quest'uomo però non aveva nulla per pagare una nutrice. Accadde allora un miracolo, e nel petto gli si aprirono come due seni di donna, ed egli placò il suo bambino. Rabbi Josef disse: Vedi quanto era importante quest'uomo, al quale accadde un tale miracolo. Abbaje però gli replicò: Al contrario, guarda quanto miserabile era costui, tanto che per causa sua la natura dovette mutare le proprie leggi».

Era questo secondo punto di vista ad avere spesso la prevalenza. Così, ad esempio, Choni Amegnaghel («autore del cerchio»), che riuscì a far piovere in un anno di siccità, fu quasi scomunicato, mentre Bar-Kochba fu onorato per tre anni come Messia (132-135 d.C.). senza aver fatto neanche un miracolo.

Questa sfiducia nei confronti dei taumaturghi corrisponde anche, e non da ultimo, al monito inequivocabile che Mosè aveva lasciato al suo popolo: «Qualora si alzi in mezzo a te un profeta o un sognatore, che ti proponga un segno o un prodigio, e il segno e il prodigio annunciato succeda, ed egli ti dica: Seguiamo dèi stranieri, che tu non hai mai conosciuto, e rendiamo loro un culto, tu non dovrai ascoltare le parole di quel profeta o di quel sognatore. Poiché il Signore, vostro Dio, vi mette alla prova... » (Dt  13,2-4).

Nel Talmud sentiamo parlare ripetutamente di guarigioni miracolose, di persone nutrite in modo mirabile e di moltiplicazioni di pani, di tempeste placate e di risurrezioni di morti. Tuttavia, il modo sobrio e obiettivo in cui se ne parla sembra sottrarre il terreno a qualsivoglia esagerazione o speculazione teologica.

Così si dice, ad esempio, di due noti maestri: «Rabba e rabbi Sera celebravano insieme il banchetto della festa dei purim, e una volta ubriachi Rabba si alzò e colpì a morte rabbi Sera. Il giorno seguente egli implorò da Dio misericordia e gli restituì la vita. L'anno seguente Rabba gli disse: Speriamo che il maestro venga. Vogliamo celebrare insieme la festa dei purim. Ma questi rispose: Non sempre accade un miracolo».

Ciò nonostante, l'espressione di riconoscenza per le gesta miracolose di Dio attraversa come un filo rosso tutti i libri della Bibbia.

 

«Chi è come te fra gli dèi, Signore?

Chi è come te,

maestoso e santo,

tremendo e degno di lode,

operatore di prodigi?»

(Es 15.11)

 

si dice nel famoso canto di vittoria di Mosè, dopo il miracolo del mare. E a questo cantico fa eco il Salterio:

 

«Benedetto il Signore, Dio d'Israele,

egli solo compie prodigi.

Dalla bocca dei profeti esce la divina promessa:

"Perciò, eccomi, continuerò

a operare meraviglie e prodigi con questo popolo;

perirà la sapienza dei suoi sapienti,

e si eclisserà l'intelligenza dei suoi intelligenti"»

(Is 29,14).

 

Chi per altro prende in esame, in uno sguardo d'insieme, tutti i passi della Bibbia di Gesù che parlano di miracoli, si rende ben presto conto che solo di rado si tratta di infrazioni delle leggi di natura. Per lo più al centro del racconto c'è la confessione dell'inadeguatezza umana e della potenza di Dio. All'ebreo non interessano i miracoli spettacolari, quanto piuttosto le gesta salvifiche del Dio che benedice e libera, e che mantiene le promesse fatte. E questa fedeltà al patto non ha bisogno di fuochi d’artificio né di propaganda da mercato.

Nell'esperienza al Sinai l'importante non fu il terremoto che scosse il monte, bensì ciò che Mosè percepì nel suo incontro solitario con Dio, sulla vetta del Sinai. Elia sentì la voce di Dio non nella tempesta né nel fuoco, ma nella quiete di un lieve sussurro. L'azione nascosta di Dio ha luogo negli eventi naturali, mondani, che sono visibili a chiunque.

Così scrive Martin Buber, nella sua presa di posizione contro gli «spiriti magici» e i «fabbricanti di miracoli»: «Il vero miracolo significa che, nell'esperienza mirabile dell’evento, la normale causalità diventa improvvisamente trasparente, aprendo lo sguardo a una sfera, nella quale agisce un'unica potenza, non limitata da altre potenze. Vivere con il miracolo vuol dire riconoscere un po' alla volta questa potenza mentre è all’opera. È questa la religione di Mosè, l'uomo che fece esperienza della nullità della magia... e vide come, sotto i colpi del Dio unico, tutti gli idoli dell’Egitto sparirono; ed è questa la religione semplicemente, nella misura in cui è realtà».

L'arte e la religione - queste due forme elevate d'espressione dell'uomo - levano ogni giorno la loro protesta instancabile contro la ruggine e l'usura del quotidiano, nel quale il nostro cuore abitudinario e indolente banalizza l'eterno miracolo della creazione. Ogni fiore, ogni albero resta un insondabile miracolo di Dio e della sua natura. Ma noi, per ricordarcelo, abbiamo bisogno di un van Gogh o di un Goethe. Gli uomini si meravigliano davanti a un’eclissi di sole, ma assistono indifferenti al miracolo quotidiano del sole che sorge. L’ebraismo non nega la possibilità del miracolo, ma dà la preferenza a una fede che è sufficientemente sensibile per non ignorare mai il miracolo di questo mondo, e alla quale è sufficiente il mistero dell'esistenza di ogni vivente, per cogliere, dietro il «normale» corso delle cose, una provvidenza superiore.

Allorquando, nel 1952, all'anziano Albert Einstein fu posta la questione su Dio, egli rispose: «Non posso liberarmi dalla grande meraviglia dalla quale continuo a essere sorpreso ogni volta che mi immergo nella legge della natura. La semplice presenza di questa legge sconvolgente è una visione mirabile, che equivale a una rivelazione continuamente rinnovantesi».

In questo senso una volta Hillel disse che il dono del pane quotidiano è un miracolo superiore alla divisione del Mare dei giunchi, poiché in Isaia si dice anzitutto: «Che a lui (l'uomo) non manchi il pane»; e soltanto dopo: «Il tuo Dio, che divide il mare» (Is 51,14s.).

 

(continua)