domenica 9 ottobre 2022

 

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ROMANO PENNA (L'ambiente storico culturale delle origini cristiane, Edizioni Dehoniane, Bologna 1984) ci offre un eccellente strumento per conoscere le aretalogie e i racconti di miracolo nell'ambiente greco romano contemporaneo alla letteratura del Nuovo Testamento. I parallelismi con i racconti di miracolo del Nuovo Testamento non sono certamente né pochi né trascurabili. Qui vengono ripresi, per comodità del lettore, tre racconti di miracolo così come sono tradotti e riportati dal volume citato per documentare come l'interesse per il prodigioso e la letteratura del miracolo fossero diffusi nel mondo greco-romano.

1) Il primo è tratto da Tacito e ci narra la guarigione di un cieco e di uno storpio ad opera di Vespasiano, da poco proclamato imperatore in Alessandria:

«Durante i mesi in cui Vespasiano attendeva ad Alessandria il momento in cui i venti d'estate giungono regolarmente ad assicurare la navigazione, si produssero molti miracoli (multa miracula evenere) destinati a manifestare il favore celeste e la simpatia degli dèi (inclinatio numinum) per Vespasiano.

Un abitante di Alessandria, che apparteneva alla classe bassa ed era notoriamente afflitto da una decomposizione della vista, si getta alle sue ginocchia e lo prega con gemiti di guarirlo dalla cecità; a suo dire, egli obbediva agli ordini del dio Serapide (monitu Serapidis dei), che questo popolo dedito alle superstizioni onora più degli altri, e supplicava il principe di degnarsi di inumidirgli le guance e il giro degli occhi con la secrezione della sua bocca (oris excremento) [cf. SVETONIO, Vesp. 7: si inspuisset].

Un altro aveva la mano storpiata e, per istigazione dello stesso dio, pregava Cesare di calcare questa mano con la pianta del (suo) piede. Vespasiano in un primo tempo si burlava di loro e li respingeva; ma dietro le loro insistenze esitava, un po' per timore di passare per un vanitoso e un presuntuoso, un po' per una certa fiducia, poiché le preghiere ardenti dei due infermi e le adulazioni dei suoi cortigiani lo inclinavano alla speranza... Vespasiano eseguì ciò che gli veniva prescritto. Subito la mano riprese le sue funzioni, e il cielo vide di nuovo brillare il giorno.

Questi due fatti li ricordano ancor oggi i testimoni oculari, mentre la menzogna non può nulla contro di loro». La tecnica di guarigione del cieco ricorda un comportamento analogo da parte di Gesù nei confronti sia di ciechi (cl. Mc 8, 23; Gv 9, 6) sia di un sordomuto (cf. Mc 7, 33). Evidentemente la saliva era comunemente ritenuta un mezzo efficace di cura.

2) Un genere a parte sono le vite di filosofi taumaturghi. Notizie brevi le abbiamo a proposito dei presocratici Epimenide (cf. Diog. L. 1,10), Ferecide (ivi 1,11) ed Empedocle (ivi 8,2). Su tutti emerge Pitagora («uomo prodigioso»: ivi 4,14) con le due recenti Vite scritte su di lui da Porfirio nel III secolo d.C. e da Giamblico nel secolo IV. Ma il caso cronologicamente più prossimo alle origini cristiane è quello di Apollonio di Tiana (seconda metà del I secolo d.C.), di cui Filostrato scrisse la Vita all'inizio del secolo III, su commissione dell’imperatrice Giulia Domna.

Filostrato riferisce una ventina di fatti miracolosi, compresi anche quelli attribuiti a saggi dell’India. I miracoli compiuti da Apollonio sono soprattutto quattro: la liberazione della città di Tarso da una pestilenza, mediante la lapidazione di un demone che ne era la causa (cf. 4.10), la guarigione di un giovane indemoniato ad Atene (4,20), la risurrezione di una fanciulla a Roma (4,45: riportato sotto, n. 107), e la guarigione a Tarso di un giovane affetto da rabbia e del cane che l'aveva morso (6,43). Riportiamo qui soltanto il caso dell'indemoniato (FILOSTRATO, Vita 4,20):

«Il giovane coprì le sue parole con un riso sguaiato e insolente; ed egli, sollevando a lui lo sguardo, “Non sei tu" disse “a insultare così, ma il demone che ti incita senza che tu te ne accorga”. Il giovane in realtà era posseduto, e non lo sapeva; rideva per cose che a nessun altro muovevano il riso, e passava al pianto senza alcun motivo, parlava con se stesso e cantava da solo. La gente credeva che a questi fatti inducesse la sfrenatezza dell'età, ma quando sembrava ubriaco egli non era che l'interprete del demone, appunto come allora. Come Apollonio guardava verso di lui, lo spettro prese a mandare urla di spavento e di furore, simili a quelle dei condannati al rogo o alla tortura, e giurava che avrebbe lasciato libero il giovane e non si sarebbe introdotto in alcun altro uomo. Ma Apollonio gli rivolse la parola in tono irato, come un padrone fa con uno schiavo astuto, vizioso e sfrontato, e gli ordinò di dare un segno della sua dipartita. “Farò cadere quella statua” disse l'altro, indicando una delle statue intorno al portico del re, dove si svolgeva la scena; e quando la statua prese a muoversi dapprima lentamente, poi cadde, chi potrebbe descrivere il tumulto e gli applausi che salutarono il prodigio? Il giovane si fregò gli occhi, come risvegliandosi dal sonno. e li rivolse ai raggi del sole; assunse un'aia vergognosa, perché tutti guardavano verso di lui..., era ritornato alla sua natura originaria... Fu preso da amore per la vita rigorosa dei filosofi, assunse il loro abito e adottò le abitudini di Apollonio».

3) La risurrezione della fanciulla romana può essere confrontata (annotando convergenze e divergenze) con quella della figlia di Giairo (Mc 5, 22-43). A questa pagina, che si trova nella Vita di Apollonio di Tiana (FILOSTRATO IV, 45), aggiungiamo il «racconto» della morte di Apollonio che appartiene al genere letterario del rapimento:

«Anche questo prodigio compì Apollonio. Una fanciulla sembrava che fosse morta proprio sul punto delle nozze; il promesso sposo seguiva il feretro gemendo sulle nozze non compiute, e insieme a lui piangeva tutta Roma, poiché la fanciulla apparteneva a una famiglia consolare. Apollonio, trovandosi presente al cordoglio, “Deponete la bara", disse “che porrò fine al vostro pianto su questa giovane": e chiese quale fosse il suo nome. I presenti credevano che avrebbe tenuto un discorso, come quelli che si fanno ai funerali per suscitare i lamenti; ma egli non fece altro che accostare la mano alla ragazza e mormorare in segreto alcune parole: e la ridestò dalla morte apparente. La fanciulla prese a parlare, e ritornò alla casa del padre, come Alcesti ricondotta alla vita da Eracle. I parenti della giovane volevano donargli quindicimila sesterzi, ma egli disse che li lasciava in dote alla ragazza. Sia che avesse trovato in lei una scintilla di vita, di cui non si erano accorti quanti la curavano - si dice infatti che, sebbene piovesse, dal suo volto si levava un leggero vapore -, oppure che avesse riscaldato e richiamato la vita che era ormai spenta, la comprensione di questo fatto è rimasta un mistero non solo per me, ma anche per chi era presente... (VIII, 29). Sul modo della sua (di Apollonio, ndr) morte, ammesso che sia davvero morto, esistono diverse tradizioni... Alcuni raccontano che si spense a Efeso, assistito da due ancelle... Altri ancora sostengono che la sua morte avvenne a Creta... (30) Nel cuore della notte egli si liberò [dai ceppi in cui era stato posto]: e chiamati gli uomini che lo avevano legato, perché il fatto non rimanesse ignoto, corse alle porte del tempio, le quali si spalancarono. Quando egli fu entrato, le porte si chiusero come se fossero sbarrate, e si udì una voce di fanciulle che cantavano. Il loro canto diceva: “Vieni dalla terra, vieni in cielo, vieni“».

Indubbiamente la conoscenza di una parallela letteratura non solo giudaica, ma anche greco-romana ed ellenistica, non deve indurci a dimenticare le differenze di «clima», di forma e di finalità, ma contribuisce non poco a «situare» nel loro tempo i racconti di miracolo del Nuovo Testamento.

 


 

 

 

Non può essere dimenticato un aspetto di grande rilevanza: «Questi vari racconti (di miracolo) permettono di ricostruire un certo ambiente. Anche se il Nuovo Testamento menziona persone agiate, come il centurione, il caposinagoga, la sirofenicia..., l'ambiente di preferenza sono gli strati inferiori della società. Non siamo ancora all'epoca degli apologisti del II secolo i quali vedranno nei racconti di miracolo degli argomenti destinati a convincere gli uomini di lettere» (XAVIER LÉON-DUFOUR, I miracoli di Gesù, pag. 273). «La dinamica che anima questi racconti traduce la volontà di liberarsi dalle frontiere socio-culturali... La fede nei miracoli ha dunque una funzione nei conflitti sociali (disuguaglianza sociale o differenze tra i popoli) e fin nei conflitti di ordine politico... Viene trasformata la comprensione della vita stessa: gli uomini cercano un nuovo modo di essere. Coloro che non vogliono o non possono ricorrere alla magia trovano nei racconti di miracolo un mezzo simbolico per andare al di là dei limiti che l'esistenza ordinaria impone loro. I racconti, allora, diventano operativi: vere e proprie ‘azioni’ di una determinata società, essi propongono a modo loro una via di uscita» (Idem, pag. 274). E si noti che «A differenza dei racconti ellenistici, i racconti del Nuovo Testamento non sono collegati con dei santuari preoccupati di mantenere l'ordine in una società di cui non si pensa minimamente di modificare le strutture. Essi provengono da personalità carismatiche che vogliono proporre una nuova forma di vita. Questo processo è condizionato dalla problematica delle classi povere, ma è anche animato da un'intenzione che ha un'influenza sulla società stessa: quella di invitare gli uomini alla fede in Gesù Cristo... Rivendicando una nuova forma di vita, essi contestano le forme esistenti» (Op. cit., pagg. 275-276). Lo stesso studioso sottolinea che la struttura dei racconti di miracolo mostra il legame stretto che unisce il taumaturgo con colui che si trova in una condizione di miseria o di indigenza. «Questa relazione introduce all’ultimo aspetto del mistero, quello di fronte alla miseria. Dio non opera miracoli per i benestanti, i quali rimangono rigidamente congelati in se stessi, non facendo posto a Dio che pure è pronto ad invaderli. Il ricco, in senso forte, è colui che non accetta più nulla perché ha tutto. Il povero, invece, manifesta la propria dipendenza facendo appello a colui che può strapparlo al determinismo in cui si sente prigioniero. Anche il taumaturgo è un povero. perché accoglie semplicemente la potenza divina all'opera. In tutta verità, il miracolo riguarda solo i poveri... Il miracolo non è che una manifestazione, più sorprendente del solito, della relazione che unisce Dio e la sua creatura in stato di miseria... Il miracolo è la sovrabbondanza, e la sovrabbondanza non viene a prodursi che nella povertà» (XAVIER LÉON-DUFOUR, Op. cit., pag. 295).

Certo, i poveri conoscono anche tutte le deviazioni magiche e spesso sono portati ad invocare un -«dio tappabuchi», ma questo loro riporre in Dio e negli uomini di Dio una speranza contro e oltre ogni speranza ed evidenza, non può essere liquidato perentoriamente come proiezione dei propri desideri frustrati o come alienazione. Non può esserci qui un appello ad accrescere la nostra poca fede? Tanto la tracotanza illuministica che squalifica la preghiera del misero e relega la sua illimitata speranza in Dio nel mondo dell'illusione quanto la chiesa ufficiale che troppo spesso strumentalizza i poveri coltivando una religiosità superstiziosa a base di santuari, di apparizioni, di magia, di attesa del miracolo sono messe in crisi dal dato biblico. Sarà forse importante, con i bambini, essere netti per quanto riguarda le superstizioni mariane, i miracoli che fanno notizia, l'arsenale indegno e la vera industria dei santini... Qui il miracolo biblico è semplicemente un pretesto linguistico, un canale di dominazione sacrale per mantenere il popolo fuori dalle dinamiche critiche e sovversive del racconto biblico di miracolo. Occorre distinguere con chiarezza.

 

(continua)