GIANNI VERNETTI
La Repubblica 30/11
La Repubblica Popolare Cinese è in cortocircuito e dopo tre anni non riesce a uscire dal tunnel della pandemia, nata nella città di Wuhan e da lì diffusasi in tutto il pianeta.
Le rivolte esplose in questi giorni in tutto il Paese, dalla metropoli di Shanghai, alla remota Urumqi nel Xinjiang popolato dalla minoranza uigura perseguitata, fino a Nanchino a poi nel cuore dell’impero, all’università Tsinghua di Pechino, rappresentano il caso più clamoroso di resistenza al regime dai tempi della rivolta di Piazza Tienanmen del 1989. Tutto è iniziato lo scorso 13 ottobre con la protesta solitaria di un uomo, forse Peng Zaizhou, che ha esposto uno striscione sul ponte Sitong nella capitale. Poche frasi che hanno aperto una voragine: “Basta test Pcr, vogliamo cibo; basta lockdown, vogliamo la libertà; basta bugie, vogliamo dignità; basta Rivoluzione Culturale, vogliamo riforme; basta dittatori, vogliamo elezioni; non vogliamo essere schiavi, ma cittadini”.
Poi le dirette sui mondiali di calcio del Qatar, grazie alle quali i cittadini cinesi hanno potuto osservare un mondo senza più mascherine e tornato finalmente alla normalità, hanno fatto il resto.
Ma la rivolta contro la gestione brutale e violenta della crisi pandemica e contro il sequestro prolungato da tre anni di milioni cittadini sono solo l’ultimo capitolo di una vicenda - la crisi del Covid - che la Cina non ha saputo ancora metabolizzare.
La narrativa cinese sulla pandemia è stata altalenante. Prima c’è stata la negazione del Covid e della pandemia tout court(chi si ricorda ancora di Li-Wenliang, il medico di Wuhan arrestato nel dicembre del 2019 per avere lanciato i primi
warning sulla nuova infezione e poi morto di Covid?); poi l’esibizione muscolare, l’annuncio di avere sconfitto il virus promuovendo una falsa narrativa per screditare l’Occidente, facendolo apparire debole e disorganizzato nel fronteggiare l’emergenza. Poi ancora la chiusura del Paese alle ispezioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità con la diffusione di dati bassissimi su contagi e decessi (ancora oggi la Cina dichiara un improbabile numero di contagi pari al Lussemburgo, con duemila volte meno abitanti).
Infine, le modalità autoritarie e violente di contrasto alla pandemia: lockdown durissimi, come quelli di Wuhan nel 2020, di Xi’an nel 2021, di Urumqi e Shanghai nel 2022; arresti contro ogni forma di dissenso o anche di semplice critica alla gestione sanitaria; brevetti su vaccini (Sinovac e Sinopharm) mai verificati da nessuna istituzione scientifica al di fuori della Cina; diffusione di fake news in Occidente. Fra tutte, difficile dimenticare il finto video in cui alcune famiglie italiane cantano dai balconi «grazie Cina» durante il primo lockdown del marzo 2020.
Ma la vera debolezza della Cina nel contrasto alla pandemia è strettamente legata alle caratteristiche stesse della Repubblica Popolare, comuni peraltro ad ogni regime dittatoriale: le nuove idee e l’innovazione sono guardate con sospetto e il confronto scientifico, soprattutto quando èopen source ,
è inimmaginabile. Alla libertà delle start-up, le autocrazie preferiscono i laboratori scientifici con catene di comando e di controllo fortemente centralizzate, dove l’innovazione, come il pensiero libero, fa enorme fatica a emergere.
Anche per questo motivo la Cina ha fin qui perso la battaglia contro il Covid e si trova, come raccontato ieri su questo giornale dal leader di Tienanmen Wu’er Kaixi, su una pentola a pressione pronta a esplodere, con 400 milioni di cittadini ancora in lockdown dopo tre anni, ed una pesante contrazione della propria crescita economica.
Ora Xi-Jinping, dopo avere azzerato ogni minima voce dissenziente per assicurarsi un terzo e inedito mandato, si trova di fronte ad un bivio: usare la forza e la violenza per reprimere chi oggi chiede libertà o finalmente aprirsi al mondo, chiedendo l’aiuto di Europa e Usa per poter sconfiggere insieme la crisi pandemica e alleggerire la presa del regime sulla popolazione cinese. Non sarà facile che accada, ma è una possibilità e sarà la dimostrazione di come la libertà di pensiero e la libertà di ricerca scientifica corrano di pari passo e siano l’unica opzione possibile per gestire crisi complesse.