Cosa succede se la Russia è definita uno stato promotore del terrorismo
Pierre Haski,
24 novembre 2022
24 novembre 2022
INTERNAZIONALE
Con
una maggioranza schiacciante – 494 voti a favore, 58 contro e 44
astensioni – il 23 novembre il parlamento europeo ha definito la Russia
uno “stato promotore del terrorismo” e uno “stato che usa metodi
terroristici”.
Evidentemente questa opinione non scontenterà gli abitanti di Kiev, sottoposti il 23 novembre a un diluvio di missili russi che li ha privati dell’elettricità e dell’acqua corrente, e nemmeno quelli di Zaporižžja, dove un neonato è morto a causa delle distruzione di un reparto di maternità. Il presidente ucraino Volodymyr Zelenskyj ha comprensibilmente esultato alla notizia della votazione.
La questione non riguarda tanto la realtà fotografata dalla risoluzione, in un contesto in cui ogni giorno sono aggiunti nuovi crimini di guerra a una lunga lista che cresce costantemente da nove mesi, quanto l’utilità di questo gesto e le sue conseguenze, ma anche l’opportunità (se non la necessità) di negoziare un giorno la pace con la Russia.
In politica estera le risoluzioni del parlamento europeo hanno esclusivamente carattere di raccomandazione: non rappresentano un’imposizione né per i governi nazionali né per la Commissione europea, e gli stati dell’Unione non sono tenuti ad applicarle.
Finora solo i parlamenti nazionali dei tre stati baltici – Estonia, Lituania e Lettonia – hanno votato una risoluzione simile. Altri hanno evidenziato una certa reticenza, compresi gli Stati Uniti, dove Joe Biden si è rifiutato di usare questa formula.
Il generale Mark Milley, capo di stato maggiore statunitense, ha invitato gli ucraini a consolidare i loro successi al tavolo diplomatico
L’esitazione non nasce dalla volontà di minimizzare la portata dei crimini commessi dall’esercito russo, ma dal tentativo di non legarsi le mani nella ricerca di una soluzione. Con uno stato “promotore del terrorismo” non si parla, lo si combatte. Ma per mettere fine a una guerra, in mancanza di una vittoria totale di uno schieramento sull’altro, serve il negoziato.
La posta in gioco è la trattativa diplomatica, e nello specifico la sua tempistica e il suo oggetto. Oggi è evidente che uno spazio per negoziare non esiste: gli ucraini non sono disposti a fermarsi dopo gli enormi sacrifici, mentre Putin, come ha spiegato la presidente moldava Maia Sandu, non crede affatto di aver perso la guerra.
Eppure le tracce del negoziato non sono sparite. Le abbiamo ritrovate la settimana scorsa a Washington, con le dichiarazioni del generale Mark Milley, capo di stato maggiore statunitense che ha invitato gli ucraini a consolidare i loro successi al tavolo diplomatico.
Anche in assenza di prospettive a breve termine, precludersi la possibilità di parlare a Putin sarebbe un errore, come ha ribadito il 23 novembre Emmanuel Macron dichiarando che avrebbe telefonato al presidente russo per parlare della centrale nucleare di Zaporižžja. Il presidente francese ritiene che il dialogo, finora senza risultati, resti comunque necessario.
Definendo la Russia uno “stato promotore del terrorismo”, il parlamento europeo rispetta il proprio ruolo, esprimendo tra l’altro un sentimento largamente condiviso dall’opinione pubblica europea, disgustata delle immagini delle atrocità russe. Ma questa posizione morale non è facile da tradurre in atti diplomatici da parte degli stati.
Evidentemente questa opinione non scontenterà gli abitanti di Kiev, sottoposti il 23 novembre a un diluvio di missili russi che li ha privati dell’elettricità e dell’acqua corrente, e nemmeno quelli di Zaporižžja, dove un neonato è morto a causa delle distruzione di un reparto di maternità. Il presidente ucraino Volodymyr Zelenskyj ha comprensibilmente esultato alla notizia della votazione.
La questione non riguarda tanto la realtà fotografata dalla risoluzione, in un contesto in cui ogni giorno sono aggiunti nuovi crimini di guerra a una lunga lista che cresce costantemente da nove mesi, quanto l’utilità di questo gesto e le sue conseguenze, ma anche l’opportunità (se non la necessità) di negoziare un giorno la pace con la Russia.
In politica estera le risoluzioni del parlamento europeo hanno esclusivamente carattere di raccomandazione: non rappresentano un’imposizione né per i governi nazionali né per la Commissione europea, e gli stati dell’Unione non sono tenuti ad applicarle.
Finora solo i parlamenti nazionali dei tre stati baltici – Estonia, Lituania e Lettonia – hanno votato una risoluzione simile. Altri hanno evidenziato una certa reticenza, compresi gli Stati Uniti, dove Joe Biden si è rifiutato di usare questa formula.
Il generale Mark Milley, capo di stato maggiore statunitense, ha invitato gli ucraini a consolidare i loro successi al tavolo diplomatico
L’esitazione non nasce dalla volontà di minimizzare la portata dei crimini commessi dall’esercito russo, ma dal tentativo di non legarsi le mani nella ricerca di una soluzione. Con uno stato “promotore del terrorismo” non si parla, lo si combatte. Ma per mettere fine a una guerra, in mancanza di una vittoria totale di uno schieramento sull’altro, serve il negoziato.
La posta in gioco è la trattativa diplomatica, e nello specifico la sua tempistica e il suo oggetto. Oggi è evidente che uno spazio per negoziare non esiste: gli ucraini non sono disposti a fermarsi dopo gli enormi sacrifici, mentre Putin, come ha spiegato la presidente moldava Maia Sandu, non crede affatto di aver perso la guerra.
Eppure le tracce del negoziato non sono sparite. Le abbiamo ritrovate la settimana scorsa a Washington, con le dichiarazioni del generale Mark Milley, capo di stato maggiore statunitense che ha invitato gli ucraini a consolidare i loro successi al tavolo diplomatico.
Anche in assenza di prospettive a breve termine, precludersi la possibilità di parlare a Putin sarebbe un errore, come ha ribadito il 23 novembre Emmanuel Macron dichiarando che avrebbe telefonato al presidente russo per parlare della centrale nucleare di Zaporižžja. Il presidente francese ritiene che il dialogo, finora senza risultati, resti comunque necessario.
Definendo la Russia uno “stato promotore del terrorismo”, il parlamento europeo rispetta il proprio ruolo, esprimendo tra l’altro un sentimento largamente condiviso dall’opinione pubblica europea, disgustata delle immagini delle atrocità russe. Ma questa posizione morale non è facile da tradurre in atti diplomatici da parte degli stati.