di Marco Campedelli
ADISTA 28/01/2023
<<Sono
passati duemilacinquecento anni da quando in Grecia si scrivevano
bellissimi libri. Ormai, a leggerli, sono quasi soltanto coloro che si
specializzano in questo studio, ed è un peccato>>. Così scriveva la filosofa Simone Weil nel suo racconto di Antigone.
Spiega il perché sia un "peccato" che questo bene immenso venga destinato a pochi. <<Perché questi antichi poeti sono talmente umani da essere molto vicini a noi e possono interessare tutti>>. E poi va oltre (nel senso dantesco di "oltraggiare", l'oltre come possibilità e non come violenza). <<Sarebbero
persino molto più commoventi per quanti sanno cosa significhi lottare e
soffrire, piuttosto che per coloro che hanno trascorso la loro vita tra
le quattro mura di una biblioteca>>.
Parole
intense e visionarie, scritte da una giovane intellettuale che lascia
l'insegnamento nei prestigiosi licei di Parigi per andare a lavorare in
fabbrica tra gli operai.
Credo che in
queste parole sia possibile rintracciare il senso profondo della parola
"cultura". Una parola il cui etimo ci porta al verbo latino colere cioè
coltivare. Infatti le due parole cultura e coltura sono due parole
gemelle e parlano di terra. Cultura che rimanda anche a "culto".
Il
culto che ha sì a che fare con il cielo, ma sarebbe del tutto astratto e
vuoto se non partisse e non fosse "fedele alla terra". La cultura è un
bene di prima necessità, ma troppo spesso è stato un bene per pochi, un
"bene di lusso". Se fosse percepito come "bene comune" dovrebbe essere
coltivato, trasmesso, protetto come il pane, come l'acqua o l'aria.
Non sarebbe impossibile immaginare il primo articolo della nostra Costituzione suonare così <<L'Italia è una Repubblica fondata sulla cultura>>.
Questo ci ricorderebbe che la cultura è sì "generata" ma che è
soprattutto "generante", che la cultura cioè fa nascere e ri-nascere la
storia.
Fare e dare cultura allora diventa una assoluta priorità.
Sento
nelle orecchie l'indignazione di Don Milani che interpretava il suo
compito educativo non nel dare ai ragazzi "gazzose" o "calcetto", ma la
"parola", cioè in definitiva la "cultura". Perché è la cultura che apre,
fa crescere, educa, che ci rende ermeneuti della vita.
<<Sarebbero perfino molto più commoventi>>, ricordava appunto la Weil, se i poeti e le loro opere fossero conosciuti da quelli che <<sanno cosa significhi lottare e soffrire>>.
C'è
un legame indissolubile tra politica e cultura. La cultura genera una
politica autentica. La mancanza di cultura lancia la politica nel
burrone dell'ignoranza e dell'arroganza. Ma può essere vero anche che
una politica autentica, visionaria possa "coltivare", "diffondere",
"celebrare" cultura. Si pone qui una tragica realtà: quanto investe uno
Stato, un governo nella cultura? La voce "cultura" nel bilancio della
politica quale posto ha? E questo dato diventa tanto più drammatico
quanto più scopriamo che è anche l'analfabetismo culturale di gran parte
della classe politica per cui un Paese decade, arranca, non ha visione.
Rotola.
Un paese come il nostro che ancora oggi determina la cittadinanza delle ragazze e dei ragazzi stranieri non sullo ius culturae ma sullo ius sanguinis
è esempio lampante e doloroso di una mancanza di visione, di mancanza
del respiro della cultura. La cultura deve essere bene comune, per
aiutarci a diventare interpreti appassionati e liberi del nostro tempo.
Peccato che sia proprio il nuovo ministro della Cultura, tirando in
ballo a sproposito Dante per fondare il "pensiero di destra" in Italia, a
esserne un "cattivo esempio".