sabato 3 giugno 2023

 

Comunità  cristiana  di  base  di  via  Città  di  Gap,  Pinerolo

NOTIZIARIO DELLA CASA DELL’ASCOLTO E DELLA PREGHIERA

PER SFOGLIARE QUESTO NOTIZIARIO:

https://www.sfogliami.it/fl/277331/bevkesmfrjfkfhfs3tpn7fn5tf871s

 

N°102 giugno ‘23


In evidenza:

     INCONTRI COMUNITA’ IN SEDE E SU MEET

- 4, 11 e 18/6 h 10: eucarestie

- 6 e 13/6 h20:45: gruppi biblici on line

- 9 e 16/6 h17: gruppi biblici in sede

- 20/6 h 20:45: presentazione libro

- 27/6 h20:45: eucar. breve + assemblea

- 29/6 h18: incontro di preghiera

     RECENSIONI E SEGNALAZIONI

- O. da Spinetoli, L’inutile fardello…

     SPUNTI PER MEDITARE E RIFLETTERE

- Vittorio Bellavite, in basso a sinistra…

- Gestazione per altri spacca il femminismo

- Norma, mercato, libertà…

- Ferma il dolore, firma la pace

    DALLA NOSTRA COMUNITA’

- Questa comunità

APPUNTAMENTI COMUNITA’ IN SEDE (v.Città di Gap) E SU MEET

NB: fino a domenica 18 giugno continuiamo con i consueti 3 incontri settimanali

- Gruppi biblici: il martedì alle h20:45 solo on line (colleg. dalle h20:30 meet.google.com/qpe-wfjz-cdp) e il venerdì alle h17 solo in presenza, presso la sede di via Città di Gap, 13 a Pinerolo.

- Eucarestia: la domenica h10 solo on line (colleg. dalle h9:45 meet.google.com/vpu-vkkh-wfm).

NB: da martedì 20 giugno (e per i mesi di luglio e agosto) si passa all’assetto estivo:

ci vedremo solo una volta alla settimana e solo on line per l’incontro del martedì ore 20:45, alternando una settimana il gruppo biblico e una settimana l’eucarestia.

     DOMENICA 4 GIUGNO h10/11:30 – Eucarestia (prepara Walter).

     MARTEDI’ 6 GIUGNO h 20:45 e VENERDI’ 9 GIUGNO h 17 – Gruppo biblici: su Qohelet 8-10,7 (prepara per martedì Ines e per venerdì Francesco).

     DOMENICA 11 GIUGNO h10/11:30 – Eucarestia (preparano Mariolina e Maria Grazia B.).

     MARTEDI’ 13 GIUGNO h 20:45 e VENERDI’ 16 GIUGNO h 17 – Gruppi biblici: ultimo incontro su Qohelet 10,8-12 (prepara per martedì Sergio e per venerdì Manuela).

     DOMENICA 18 GIUGNO h10/11:30 – Eucarestia (preparano Sergio Sp. e Manuela).

     MARTEDI’ 20 GIUGNO h20:45 – Incontro a tema: Valentina Pazé presenta il suo libro “Libertà in vendita”.

     MARTEDI’ 27 GIUGNO h20:45/21:30 – Eucarestia breve (prepara Francesco).

     MARTEDI’ 27 GIUGNO h21:30/22:15 – Assemblea di comunità

     VENERDI’ 29 GIUGNO h18 – Incontro di preghiera (prepara Tiziana B.).      

NOTIZIE DA GRUPPI E COLLEGAMENTI

2-4/6/23 – 40° incontro nazionale delle comunità cristiane di base a Pesaro

Come ricordato nei precedenti numeri del notiziario, il 40° incontro nazionale si terrà a Pesaro, dal 2 al 4 giugno 2023 e affronterà il tema “Una Costituzione per la Terra. Pace, giustizia, cura della casa comune”.

Sarà possibile seguire in diretta tramite piattaforma Zoom (link di accesso: https://us02web.zoom.us/j/82584656675 - fino a 100 partecipanti) e sulla pagina Facebook delle comunità italiane (www.facebook.com/cdbitalia):

1) l’incontro del 2 giugno alle ore 16: “Una Costituzione per la Terra” con Luigi Ferrajoli, Sergio Paronetto e Letizia Tomassone.

2) la relazione del 3 giugno alle ore 9:15: “A che cosa servono le utopie” di Valentina Pazé

3) la relazione del 3 giugno alle ore 15.15: “Un tempo per tacere e un tempo per parlare” (Qo. 3,7)” di Silvia Zanconato.

Programma completo e altre informazioni sull'Incontro: https://www.cdbitalia.it/incontro2023/

RECENSIONI E SEGNALAZIONI

 

Ortensio Da Spinetoli, L’inutile fardello

“Come ogni libro di padre Ortensio, anche questo susciterà scandalo, scalpore, sarà fonte di polemiche e censure, e si aggiungerà ai tanti testi vivamente sconsigliati da chi ha paura di tutto ciò che è nuovo."

Alberto Maggi

Una ricerca appassionata, paziente, vitale, mai paga di certezze stabilite una volta per tutte. Questa è la teologia che ha praticato Ortensio da Spinetoli, uno dei più profondi e inascoltati teologi italiani. Isolato, processato dal Sant'Uffizio, allontanato dall'insegnamento per i suoi libri e le sue lezioni, Ortensio non ha mai gettato la spugna, convinto che leggere e interpretare i testi sacri non fosse questione di autorità ma di competenza. Forte di questa consapevolezza, ha affrontato con coraggio e determinazione alcuni concetti teologici che sono un tabù per la maggioranza dei credenti. Il “peccato originale” (di cui Gesù mai ha parlato), l'“ultima cena”, l'“eucarestia”, la “verginità di Maria”, il “sacrificio della messa”, la “mistica del patire”, le basi stesse della dottrina cattolica sono indagate da Ortensio da Spinetoli con il rigore e la profondità che solo uno spirito libero può avere.

Questo libro, un gioiello di sintesi e intelligenza che viene pubblicato postumo, è un omaggio alla teologia come impresa scientifica sempre aperta a nuove scoperte e brillanti intuizioni. Un manifesto per un salutare rinnovamento teologico della chiesa, mai come oggi così necessario. Una chiesa che per Ortensio è ancora ferma ai pensatori medievali.

(in libreria per Chiarelettere, Milano 2017, pp.112, €10)

Ortensio da Spinetoli (1925-2015) è stato Superiore provinciale dei frati cappuccini delle Marche. Entra nel seminario dei frati cappuccini di Jesi nel 1936, a undici anni, e nel 1949 è ordinato sacerdote. Studia a Friburgo, Innsbruck, Roma, Gerusalemme, e insegna, tra l'altro, alla Pontificia Università Antonianum: le sue lezioni saranno spostate presso l'aula magna per contenere i tanti studenti che desiderano ascoltarlo. Il suo primo libro, "Maria nella Bibbia", gli vale il richiamo del Sant'Uffizio. Successivamente, a causa dei suoi testi e delle sue lezioni, subirà un processo presso la Congregazione per la Dottrina della Fede. Non sarà condannato ma verrà rimosso dall'insegnamento e allontanato da suo stesso ordine. Trova ospitalità a Recanati, presso la famiglia di Fernanda Galluzzo, dove trascorre l'ultima parte della sua vita continuando gli studi senza mai alcun desiderio di rivalsa per le vessazioni subite.

Sul blog di Franco Barbero, a partire dal primo giugno, abbiamo iniziato la pubblicazione integrale del libro "L’inutile fardello. A giorni alterni troverete un segmento del volume, per un totale di 14 ‘appuntamenti’.

SPUNTI PER MEDITARE E RIFLETTERE

Vittorio Bellavite, in basso a sinistra, nella Chiesa e nella società

È stata una vita intensa, quella di Vittorio Bellavite. Una vita da protagonista della storia ecclesiale e politica degli ultimi 60 anni, ma esente da ogni forma di protagonismo personale, spesso in ruoli di direzione e leadership, ma sempre assunti per spirito di servizio e senso di responsabilità, senza neppure un accenno di quel narcisismo piuttosto frequente anche in piccole organizzazioni.

Già all’inizio degli anni ‘60, forte del riferimento al don Primo Mazzolari di “Adesso”, era divenuto presidente degli studenti dell’Università cattolica, contestando la chiusura delle autorità ecclesiastiche dell’ateneo, il che gli valse il soprannome di “Saint Just” (il braccio destro di Robespierre), un deludente incontro in Vaticano con l’allora card. Montini, arcivescovo di Milano, e una sanzione da parte del Senato accademico finita nel nulla. Poi nel 1965 si trasferì a Roma all’Ufficio Studi nazionale delle Acli, che cominciavano a discutere del superamento del collateralismo con la Democrazia cristiana e di un nuovo rapporto positivo coi partiti della sinistra. A questo dibattito Bellavite partecipava attivamente, come pure ai nascenti gruppi spontanei di base di cristiani, tra cui, in particolare, Ora Sesta, fondato da don Luisito Bianchi, poi divenuto prete operaio.

Rientrato a Milano nel 1967 per sposarsi con Pinuccia, nel 1971 fu uno dei promotori, con l’ex presidente aclista Livio Labor, del Movimento politico dei lavoratori (Mpl), un nuovo partito laico, ma destinato nelle intenzioni a rompere l’unità politica dei cattolici e collocarsi esplicitamente a sinistra. L’insuccesso alle elezioni del 1972 decretò la fine dell’Mpl, la cui corrente maggioritaria, guidata da Labor, scelse di entrare nel Partito Socialista Italiano, mentre Bellavite e la minoranza si unì alla corrente di sinistra del Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria, anch’esso scioltosi dopo essere rimasto senza rappresentanza parlamentare, per formare il Partito di Unità Proletaria, che lui stesso coordinava a Milano come aveva già fatto con l’Mpl.

Da allora e fino alla confluenza nel 1991 di Democrazia Proletaria nel Partito della Rifondazione Comunista (cui non aderì), Bellavite partecipò, quasi sempre da dirigente, alla tormentata parabola della “nuova sinistra”, nella quale, insieme a figure come Domenico Jervolino, rappresentò un’area di cristiani che, senza negare la propria fede, anzi a partire da essa e manifestandola anche pubblicamente, partecipava al pari degli altri e in modo laico a partiti di ispirazione marxista, sostenendo comunque una visione estremamente critica verso il comunismo realizzato e contestando una visione totalizzante della politica.

Nel frattempo Bellavite divenne professore di Diritto ed Economia nella scuole superiori, attività sempre svolta in una ricerca innovativa, e nel 1973 fu tra i promotori del movimento dei Cristiani per il Socialismo (Cps), che fu l’espressione più direttamente politica del variegato e diffuso “dissenso cattolico”, riflettendo in particolare sulla possibilità di essere al contempo cristiani e marxisti, di vivere un ecumenismo fondato sull’impegno condiviso per una società più giusta, di operare per una Chiesa più libera in uno Stato pienamente laico, per esempio rifiutando il regime concordatario, ecc. Il movimento durò fino alla fine degli anni ‘70, partecipando, tra l’altro, alla campagna dei Cattolici per il No al referendum del 1974 per abrogare la legge sul divorzio.

Negli anni ‘90, rimasto senza partito, dopo un periodo speso a dirigere il Centro di Iniziativa Politica e Culturale (Cipec), Bellavite aderì a Noi Siamo Chiesa, un movimento per la riforma delle strutture ecclesiastiche nato in Austria nel 1995 e divenuto internazionale l’anno dopo, e nel 2004 ne assunse formalmente il ruolo di coordinatore nazionale.

Oltre a garantire la realizzazione di una sorprendente mole di attività in Italia – grazie alla propria abilità di coniugare una robusta elaborazione intellettuale e una grande capacità organizzativa, che, con un oscuro e paziente lavoro di tessitura di relazioni, ha condotto alla creazione di reti come “Chiesa di tutti Chiesa dei poveri” – Bellavite ha contributo molto al movimento internazionale, sollecitandolo sempre a non chiudersi nelle rivendicazioni intraecclesiali e nella cornice europea, e promuovendone il coinvolgimento nei Forum sociali mondiali e lo sviluppo dei legami con la Teologia della Liberazione.

Il suo sguardo lungo e ampio, unito all’estraneità a qualunque ansia di “autopromozione”, hanno guadagnato al piccolo gruppo italiano autorevolezza agli occhi delle ben più consistenti sezioni mitteleuropee e più volte egli è stato sollecitato a divenirne coordinatore internazionale, un invito sempre rifiutato per la convinzione di dover dare priorità alla promozione del gruppo italiano, un impegno concretatosi per l’ultima volta in marzo nella stesura di un lungo documento di bilancio del decennale pontificato di Francesco.

Mauro Castagnaro (da “Adista Notizie” n° 15 del 22/04/2023)

La gestazione per altri spacca il femminismo italiano

Dopo il voto degli emendamenti in Commissione Giustizia della Camera alla proposta di legge che vuole dichiarare la “gestazione per altri” reato universale, il femminismo italiano continua a mantenere una fisionomia dissonante sul tema. Non da ieri, e neppure si tratta di occasionale interesse verso un argomento come quello della Gpa che ha acceso, anche in Italia, almeno dal 2015, un serrato confronto/scontro, dedicato e plurale con esiti inconciliabili. Concerne infatti i corpi, la sessualità, le relazioni, e ancora il mercato e i contesti materiali e di sfruttamento diversi; ciò per dire che nel femminismo (non solo italiano) l’intransigenza con cui si affronta il tema non è solo per il punto riproduttivo; in senso più generale si discute di vite, di storie. Convegni, incontri pubblici e libri si sono susseguiti anche nel nostro Paese, da quando si è avvertita l’urgenza di una riflessione che in altri Stati è incandescente già da decenni.

Tra i volumi disponibili se ne possono citare forse almeno due: Gestazione per altri. Pensieri che aiutano a trovare il proprio pensiero, a cura di Morena Piccoli con contributi di Annarosa Buttarelli, Federica De Cordova, Cristina Faccincani, Helena Janeczek, Luisa Muraro, Silvia Niccolai e altre, edito da Vanda nel 2017. Un altro è quello di Serena Marchi, Mio tuo suo loro. Donne che partoriscono per altri, edito da Fandango sempre nel 2017. Per dare conto di ulteriori pareri divergenti, basterebbe indicare tre recentissimi documenti, due appelli e una lettera aperta, quest’ultima inviata alla segretaria del Pd Elly Schlein (favorevole alla Gpa). Diffusa il 12 aprile, nasce da donne «di varie età e con diverse storie politiche» che sono in relazione nella rete «Dichiariamo» (circa cento, tra cui attiviste della Libreria delle donne di Milano – sul sito della Libreria è disponibile il testo completo -, di Arcilesbica, dell’Udi e altri collettivi e soggettività da anni impegnate nel movimento delle donne in Italia) in cui si legge: «siamo femministe, quindi non ammettiamo un contratto che implica la rinuncia di una donna al controllo sul proprio corpo». E infine si rivolgono a Schlein: «non lasciare questo tema alla destra, che lo distorce per piegarlo a un progetto di riaffermazione della famiglia tradizionale istituzionalizzata e obbligatoria, e non lasciare che la sinistra diventi complice di nuove forme di sfruttamento dell’umano». Nonostante si chieda di esprimere una contrarietà «da sinistra», non si menziona l’abolizione universale, questa una delle ragioni per cui le RadFem come «Rete per l’Inviolabilità del Corpo Femminile» non si sono unite alla iniziativa.

Una parte altrettanto consistente del femminismo, il 17 aprile, sceglie di partire proprio dal posizionamento della lettera aperta per diffondere un appello (firmato da circa duecento donne, a vario titolo attive anche qui da anni, per esempio Lea Melandri, Chiara Saraceno, Giorgia Serughetti e altre): «come femministe vogliamo invece continuare a discutere sulla gestazione per altri, ascoltando, riflettendo, promuovendo confronti liberi sulle domande che la complessità del tema pone a tutte noi. A partire per esempio da una discussione sulla maternità, sul corpo materno, sulle possibilità delle biotecnologie ma anche sui loro limiti, sugli effetti nell’immaginario e nel simbolico dell’identità femminile determinati dalla separazione tra gravidanza e maternità. Parliamone e ascoltiamoci quindi, femministe di ieri e femministe di oggi». Arriviamo a due giorni fa, quando è comparso un appello-petizione sul sito di change.org promosso dalla «Rete NOGPA» – coordinata da Aurelio Mancuso – che l’ha diretta a Camera e Senato e a cui hanno aderito (fino a ieri) oltre 800 nomi per dire che: «Sono già attive a livello internazionale reti ed alleanze che chiedono la messa al bando della maternità surrogata, queste azioni devono essere sostenute dagli Stati, a partire da quelli che con chiarezza vietano la maternità surrogata».
E se l’intenzione non parte da una riflessione esclusivamente tra donne, è in questa confluenza di intenti che tra i firmatari – tutti figurano i nomi di femministe come Alessandra Bocchetti, Adriana Cavarero, Olivia Guaraldo e altre. La discussione politica, etica e adesso giuridica, sulla Gpa resta aperta.

Alessandra Pigliaru (da “Il Manifesto”, 1/06/2023)

Norma, mercato, libertà. Ancora sulla maternità surrogata

È possibile oggi, a sinistra, confrontarsi sul tema della maternità surrogata evitando semplificazioni e scomuniche, rifuggendo da polemiche sterili, sforzandosi di ascoltare e comprendere gli argomenti altrui? Credo che si possa per lo meno provarci, nonostante si tratti di un tema divisivo come non mai, fin dalle parole impiegate per nominarlo (maternità surrogata, gestazione per altri, utero in affitto) e nonostante il contesto politico e culturale entro cui il dibattito si svolge oggi, in Italia, sia tutt’altro che favorevole, inquinato com’è da irrigidimenti ideologici, confusioni, malintesi.

Il primo equivoco da cui tocca sgombrare il campo consiste nell’indebito intreccio tra la questione della maternità surrogata e quella dei diritti delle coppie omosessuali, che impone a chiunque si accinga a ragionare sul tema di dichiarare previamente il proprio posizionamento (un po’ come devono fare i pacifisti, costretti a premettere a qualsiasi considerazione sulla guerra in Ucraina la ferma condanna nei confronti di Putin). Non mi sottraggo a questo onere e dichiaro: sono favorevole al matrimonio paritario, alle adozioni per le coppie omosessuali, al pieno riconoscimento dei diritti dei loro figli e figlie, indipendentemente da come sono venuti al mondo. Mi riconosco nei valori di una sinistra laica e anti-paternalista, rispettosa della libertà di ciascuno e ciascuna di “cercare la felicità a proprio modo”. E tuttavia, nutro forti perplessità nei confronti della legalizzazione della maternità surrogata, anche nella forma “altruistica e solidale” difesa da chi è intervenuta prima di me su questo sito (Marisa NicchiLaura RonchettiCecilia D’Elia) e in altre sedi (come Fulvia Bandoli e Franca Chiaromonte sul “il manifesto” del 22 aprile).

Elenco qui di seguito quelli che mi sembrano alcuni “punti ciechi” del dibattito che si è fin qui sviluppato, alcune questioni rimaste sullo sfondo e su cui varrebbe la pena di indagare.

La prima: riconoscere valore legale ai contratti di maternità surrogata, anche nella forma altruistica, significa comunque aprire le porte al mercato. Un mercato fatto di agenzie di intermediazione, cliniche, consulenti legali e psicologici, per parte loro non certo animati da spirito solidaristico. Ma quando si apre un nuovo mercato – anche se teoricamente al servizio del dono, come in questo caso (in cui a guadagnare sarebbero le agenzie e le cliniche, mentre alle donne spetterebbe un semplice “rimborso spese”) – la logica commerciale tende a espandersi e a fagocitare tutto il resto. Non stupisce allora che, là dove è stata legalizzata la gpa altruistica, come nel Regno Unito o in Canada, l’entità del rimborso spese finisca con attestarsi su cifre molto vicine a quelle del compenso previsto per la forma commerciale. Se così non fosse, del resto, sarebbero poche le donne disposte a intraprendere l’impegnativo percorso della gpa (somministrazioni di ormoni, prima e dopo l’impianto degli embrioni, controlli medici pervasivi, rischi di aborto e complicazioni superiori a quelli di una normale gravidanza), come poche sono le “donatrici” di ovociti quando il rimborso è esiguo. Non bisogna dimenticare, inoltre, che non esiste mercato senza marketing. Alcune testimonianze di donne assoldate dalle agenzie (talvolta gestite da ex madri surrogate), che dipingono la loro esperienza in termini univocamente positivi, come espressione di altruismo e spirito di sacrificio, andrebbero per lo meno contestualizzate in questa chiave. In definitiva, tenendo anche conto della facilità con cui i limiti legali ai rimborsi e i divieti di intermediazione commerciale previsti da alcuni ordinamenti possono essere aggirati, è molto difficile tracciare un confine tra gpa commerciale e altruistica. Resta il fatto che a prestarsi a portare avanti una gravidanza per altri, nei paesi in cui questa pratica è lecita, sono sempre donne di ceto medio-basso, scarsamente istruite, lavoratrici precarie o disoccupate al momento della stipula del contratto, non certo donne con una professione appagante, un buon stipendio e un elevato livello di istruzione. Un dato difficile da smentire, su cui bisognerebbe riflettere.

Secondo: chi difende la versione altruistica della gpa, e lo fa in nome della libertà delle donne, si esprime in genere a favore del riconoscimento del diritto al ripensamento di colei che, pur avendo firmato un contratto che la impegna a consegnare il bambino ai “genitori intenzionali”, dopo il parto potrebbe decidere di non interrompere la relazione creatasi tra lei e il bambino durante la gravidanza. Insistono su questo punto sia Marisa Nicchi, sia Laura Ronchetti, sia Cecilia d’Elia, che scrive: “L’asimmetria rende la donna che partorisce la figura centrale di questo sistema di relazioni, a lei spetta l’ultima parola sulla gestazione e sui rapporti che vorrà avere con la persona messa al mondo”. È una posizione sacrosanta, che condivido pienamente. Peccato che in nessun luogo in cui la gpa è legale venga riconosciuta davvero alle donne l’ultima parola. Anche nel Regno Unito, spesso portato ad esempio di paese in cui sarebbe previsto il diritto al ripensamento, l’ultima parola spetta ai giudici e, in attesa del loro pronunciamento, il bambino viene affidato alle cure del singolo, o della coppia, che lo ha “commissionato”. Non diversamente dispone il ddl Coscioni, che Bandoli e Chiaromonte indicano come promettente punto di partenza per legiferare sul tema. Comma 8 dell’art. 7 del ddl: “In caso di controversie in merito al riconoscimento del rapporto di genitorialità con i nati, le parti possono rivolgersi al tribunale del luogo in cui sono state effettuate le procedure mediche di fecondazione in vitro, che provvede, in camera di consiglio in composizione monocratica, adottando in via d’urgenza un provvedimento nell’interesse dei minori anche in base alle intenzioni manifestate dalle parti e recepite nell’accordo di gravidanza solidale e altruistica”. L’ultima parola, dunque, è di un giudice. Che – l’esperienza insegna – nel superiore interesse del bambino a essere cresciuto in una famiglia più agiata di quella della madre naturale, lo affida di regola ai “genitori intenzionali”. Si potrebbe forse immaginare di scrivere una legge diversa, che riconosca davvero alla donna che partorisce lo status di “domina dell’esperienza della procreazione”, come auspica Ronchetti? Temo sia poco realistico. Come potrebbe reggere alla concorrenza, anche internazionale, un’agenzia che ha la fama di reclutare donne che cambiano idea all’ultimo minuto?

L’unico modo per garantire davvero la libertà delle donne consiste nel non riconoscere valore legale ai contratti e fare piazza pulita di qualsiasi forma di intermediazione commerciale. Una via percorribile fin d’ora in Italia, anche con la legge 40, che non impedisce certo a una donna che partorisce di non riconoscere il figlio e di lasciare che lo faccia, al suo posto, il padre, che potrà poi crescerlo con “la”, o “il” partner (D. Danna,“Fare un figlio per altri è giusto”. Falso!, Laterza, 2017, pp. 137-38). Come ha osservato Silvia Niccolai, il principio mater semper certa est, nell’implicare il divieto di qualsiasi contratto di surrogazione: “Crea problemi solo a chi ambisca a ottenere la sicurezza, garantita dalla legge, di avere il potere di controllare una donna durante la gravidanza, e di ottenere la consegna della creatura che nasce; non crea alcun ostacolo a chi si rimetta con fiducia alle scelte autonome di una donna; nulla dice circa se e in quale ‘coppia’ una donna possa avere un figlio ed è amica della maternità lesbica, che non lo contraddice in alcun modo e ne dimostra la capacità di sintonizzarsi con ogni manifestazione di senso indipendente della maternità” (Surrogacy e principio Mater Semper Certa in dialettica, per riscoprire il valore del materno, in CIRSDe. Un progetto che continua. Riflessioni e prospettive dopo 25 anni di studi di genere, a cura di C. Belloni, A. Bosia, A. Chiarloni, C. Saraceno, Torino 2018, pp. 120-21).

Libertà delle donne, dunque, diritto ad autodeterminarsi. Se questo è il tema, se siamo d’accordo nel riconoscere alle donne l’ultima parola su ciò che riguarda il loro corpo, c’è un terzo nodo da sciogliere: quello che riguarda il rapporto tra diritto e libertà. E, più nello specifico, tra legge e contratto. Da più parti si levano oggi proteste nei confronti del panpenalismo dilagante. Batte molto su questo tasto Tamar Pitch, nel suo libro Il malinteso della vittima (EGA 2022), in cui denuncia “l’uso politico del potenziale simbolico della pena” in cui incorrerebbe non solo la destra, ma anche un certo femminismo “punitivo”. Ora, se questa critica coglie nel segno nel denunciare la tendenza (non certo delle femministe) a criminalizzare la povertà e colpire il dissenso, affrontando qualsiasi problema in chiave di repressione, mi sembra che rischi di misconoscere il contributo che il diritto (anche, ma non solo, penale) può offrire alla difesa della libertà. Pensiamo al diritto del lavoro. Se la Costituzione italiana, all’art. 36, vieta di rinunciare al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite è per evitare che i lavoratori siano costretti a una concorrenza al ribasso per la loro sopravvivenza. In modo analogo, il divieto di istituire un mercato legale della maternità surrogata, o degli ovociti, protegge tutte le donne che si trovano in condizioni di vulnerabilità economica e socio-culturale dalla “tentazione” di risolvere i propri problemi affittando o vendendo parti del proprio corpo. Cecilia D’Elia sembra molto turbata dal fatto che “il divieto tout court [della gpa] significa non riconoscere mai la possibilità che una donna scelga la gpa”. Ma anche vietando di rinunciare alle ferie neghiamo la possibilità che un ipotetico Stachanov scelga di ammazzarsi di lavoro! E stabilendo l’obbligo del congedo di maternità vietiamo a un’ipotetica super-donna la possibilità di scegliere di lavorare fino al giorno prima del parto e nei mesi immediatamente successivi. È tutto ciò paternalistico? Implica un’indebita limitazione del principio di autodeterminazione o non piuttosto, una presa di posizione del diritto a favore della generalità dei lavoratori e delle lavoratrici, che del riposo settimanale e del congedo di maternità hanno bisogno? A me sembra, insomma, che questo genere di divieti e di obblighi servano proprio a garantire che il diritto all’autodeterminazione (che è cosa diversa dall’autonomia negoziale) sia messo al riparo dalle pressioni e dai condizionamenti che provengono dal mercato, oltre che dallo Stato.

Un’ultima osservazione in merito all’impostazione di queste nostre discussioni. Si tende spesso a ragionare a partire da un ipotetico (quanto diffuso, non si sa) desiderio femminile di compiere scelte altruistiche, che il diritto vorrebbe paternalisticamente ostacolare. Molto poco si riflette sul fatto che questo altruismo nasce in riposta al desiderio di genitorialità delle coppie infertili, eterosessuali e omosessuali, che sono il vero motore di tutta la faccenda. Vogliamo interrogarci su questo desiderio (al centro del bellissimo volume L’anima del corpo. Contro l’utero in affitto, di Luisa Muraro)? Un desiderio che, oltretutto, riporta in auge un modello di genitorialità arcaico, in cui a contare è la genetica (per lo meno quando i “genitori intenzionali” forniscono, in tutto o in parte, i gameti) e l’esperienza concreta della gravidanza e del parto viene banalizzata, ridotta a mero processo biologico? Vogliamo aprire una riflessione sul fatto che il desiderio di accudire, crescere, educare i nuovi nati può essere soddisfatto attraverso molteplici forme di genitorialità sociale, basate sull’adozione o l’affido, ma talvolta anche sulla disponibilità ad accompagnare la crescita dei figli altrui, in nome di legami di solidarietà e di affetto che non hanno bisogno di contratti per manifestarsi?

Valentina Pazé [tratto dal sito di CRS (Centro Riforma dello Stato “Riforma”, 25 maggio 2023]

Ferma il dolore, firma per la pace

Dal 22 aprile scorso in tutte le piazze d’Italia, si raccolgono le firme per tre referendum abrogativi, due contro il costoso invio di armi italiane in Ucraina e l’altro a tutela del Servizio sanitario nazionale pubblico.

Questa iniziativa referendaria, che auspica più investimenti per la salute degli italiani, meno per gli strumenti di morte e di guerra, è sostenuta da un Comitato di Garanti composto da giuristi (Mattei, Somma, Poggi, De Sena, Cappellini, Borghi, Calamo Specchia), magistrati (Leo, Sceusa), filosofi (Agamben, Cacciari), storici e politologi (Preterossi, Bradanini, Cardini, Dinucci, Viale), personalità del mondo cattolico (Zanotelli, Cesena, Minoni), giornalisti e personalità dello spettacolo (Ovadia, Freccero, Leoni, Vauro Senesi). Un fronte ampio, che mira a rappresentare la vasta preoccupazione nel Paese – testimoniata da tutti i recenti sondaggi – contro l’aumento delle spese militari e il parallelo degrado della sanità pubblica manifestatosi drammaticamente durante la pandemia. Ingenti risorse pubbliche vengono oggi dirottate sulla produzione di armi letali invece di essere impiegate per riaffermare il diritto alla salute degli italiani. Attraverso il referendum, il popolo sovrano cerca di aprire un’ampia discussione democratica, e di chiamare il Parlamento a rivedere le proprie decisioni, che hanno preferito le armi alla salute pubblica.

Il comitato referendario “Generazioni Future” ha dunque ritagliato due quesiti semplici, idonei ad evidenziare questa connessione.

Un primo quesito, sulla salute bene comune, vuole limitare il conflitto di interesse fra privato e pubblico nella pianificazione sanitaria, facendo tesoro della lezione che la ‘crisi Covid’ dovrebbe averci insegnato. Ai sensi della prima riforma neoliberale del Servizio Sanitario Nazionale (legge 502/1992), al tavolo per l’annua programmazione sulle priorità di spesa non partecipano solo i rappresentanti delle istituzioni pubbliche, ma anche i privati. I privati hanno perciò ufficialmente voce in capitolo nella scelta delle priorità di investimento di quel quasi 7% del Pil speso per la nostra sanità. Non è un caso che a soffrire siano terapie intensive e medicina di prossimità, ambiti in cui i margini di profitto privato sono molto sottili rispetto ad altri settori convenzionati. Si tratta della solita logica dei servizi pubblici a gestione privatizzata con costi a carico della collettività e benefici a favore dei privati convenzionati. Il quesito proposto è semplice, non fa che eliminare i privati dai soggetti protagonisti della programmazione sanitaria pubblica, e recita come segue: Vuoi tu abrogare l’Art. 1 (Programmazione sanitaria nazionale e definizione dei livelli uniformi di assistenza), comma 13, D.lgs 502/1992 (Riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell’articolo 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421 (GU n.305 del 30-12-1992 – Suppl. Ordinario n. 137) limitatamente alle parole “e privati e delle strutture private accreditate dal Servizio sanitario nazionale”?

Con il secondo quesito referendario, si tratta di abrogare la normativa eccezionale voluta dal Governo Draghi e poi prorogata dal Governo Meloni. Infatti, con il decreto legge n. 185 del 2022, convertito in legge n. 8 del 2023, è stata prorogata fino al 31 dicembre 2023 l’autorizzazione a inviare mezzi, materiali ed equipaggiamenti militari in favore dell’Ucraina in barba all’art. 11 della Costituzione (“L’Italia ripudia la guerra…”). Ne segue un quesito referendario lineare: Vuoi tu che sia abrogato l’Art. 1 del DL 2 dicembre 2022 n. 185 (Disposizioni urgenti per la proroga dell’autorizzazione alla cessione di mezzi, materiali ed equipaggiamenti militari in favore delle Autorità governative dell’Ucraina), convertito in legge n. 8 del 27 gennaio 2023: “È prorogata, fino al 31 dicembre 2023, previo atto di indirizzo delle Camere, l’autorizzazione alla cessione di mezzi, materiali ed equipaggiamenti militari in favore delle autorità governative dell’Ucraina, di cui all’articolo 2-bis del decreto-legge 25 febbraio 2022, n. 14, convertito, con modificazioni, dalla legge 5 aprile 2022, n. 28, nei termini e con le modalità ivi stabilite”?

Un terzo quesito, promosso dal comitato referendario “Ripudia la guerra”, completa il secondo quesito e riguarda la derogabilità stessa dal regime di divieto di esportazione di armi in territori teatro di guerra, e chiede di abrogare l’articolo che, in deroga, consente deliberazioni diverse del Consiglio dei Ministri: Volete voi che sia abrogato l’art. 1, comma 6, lettera a), legge 09 luglio 1990, n. 185, rubricata “Nuove norme sul controllo dell’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento”, e successive modificazioni (che prevede: “6. L’esportazione, il transito, il trasferimento intracomunitario e l’intermediazione di materiali di armamento sono altresì vietati: a) verso i Paesi in stato di conflitto armato, in contrasto con i princìpi dell’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite, fatto salvo il rispetto degli obblighi internazionali dell’Italia o le diverse deliberazioni del Consiglio dei Ministri, da adottare previo parere delle Camere” limitatamente alle parole “o le diverse deliberazioni del Consiglio dei Ministri, da adottare previo parere delle Camere”?

Possiamo essere solidali in altri modi con i popoli in guerra, i veri perdenti del conflitto. Ci sono infatti Paesi della Nato che non stanno inviando armi sul teatro di guerra, tant’è che per inviarle noi abbiamo dovuto approvare due leggi che derogano a un principio generale contenuto nella suddetta legge del 1990, per cui non si mandano armi in teatri di guerra attivi. I nostri governi hanno fatto una scelta politica, legata a interessi ben specifici dell’asse atlantico, il quale, sappiamo bene, è fatto di soggettività che approfittano economicamente di un teatro di guerra che resta aperto. La campagna referendaria mette sui due piatti della bilancia da un parte la morte, la guerra e l’oscenità dei conflitti tra esseri umani e dall’altra l’investimento di risorse adeguate in politiche sanitarie pubbliche, a beneficio della salute collettiva e individuale di tutti i cittadini.

Giuseppe Mastruzzo (da www.volerelaluna.it, 18/5/23)

La forza della debolezza

In Occidente siamo convinti che la dimensione in cui ci troviamo a vivere oggi sia la precarietà: soffriamo di questa condizione più che in altre stagioni. La vita è da sempre qualcosa di precario – nasce, cresce, decade – ma oggi ne abbiamo maggiore consapevolezza. E se il termine “precarietà” rimanda a ciò che è ottenuto con la preghiera (prex), esso indica anche ciò che è provvisorio, non garantito per sempre.
La condizione umana stessa è precaria, mutevole, instabile, fragile: ogni essere umano è sempre destinato a nascere, crescere e poi decadere fino a morire. Ciò che deve sempre suscitare meraviglia, però, è che Dio non solo abbia creato realtà precarie, ma dopo averle create le abbia riconosciute come “buone e belle” (cfr. Gen 1). Poche cose sono precarie come un fiore, ma chi, contemplandolo, non sa vederne la bellezza?
I cattolici hanno rimosso la precarietà, soprattutto quando pensano alla Chiesa e alle realizzazioni spirituali da loro intraprese. Si sentono garantiti dalla parola di Gesù: Non praevalebunt (Mt 16,18),
interpretandola in modo illegittimo come assicurazione, garanzia. Gesù però non esenta dalla precarietà la comunità cristiana, le assicura solo che su di essa, come sul mondo, il male non avrà l’ultima parola.
Sappiamo dalla Storia che le comunità cristiane a un certo punto si sono mostrate talmente precarie da essere cancellate dalla geografia della terra. Sì, per molti secoli, almeno qui in Europa, le chiese sono apparse potenti, in condizioni di sicurezza, ma oggi i cristiani sono ridotti a minoranza in un contesto in cui domina l’indifferenza. Ma in verità questa sarebbe la condizione normale dei cristiani nel mondo. Anomala era la cristianità da Costantino fino ai tempi moderni. Gesù aveva parlato solo di sale, di luce, di una città posta sopra un monte (cf. Mt 5,13-16), aveva anche descritto la dinamica del Regno evocando quella del lievito nella pasta (cf. Mt 13,33). Essere minoranza addirittura nascosta non significa essere insignificanti, deboli, fragili, non significa essere spiritualmente decadenti. Oggi noi vediamo molte comunità “precarie”, poco efficienti e poco visibili, incapaci di eloquenza e di essere una presenza in grado di farsi ascoltare.
Ma in realtà ciò che conta è che queste realtà vivano secondo il Vangelo, siano segni di narrazione di Gesù Cristo. Povere e deboli, oppure numerose e forti, in realtà ciò che conta è che testimonino soprattutto il comandamento nuovo, cioè definitivo, lasciato loro da Gesù: quello dell’amore reciproco.
“Quando sono debole, è allora che sono forte” (2Cor 12,10), confessava l’apostolo Paolo, e questo può essere vissuto anche nelle situazioni di precarietà comunitaria. Ha scritto Armand Veilleux: “Anche con la nostra debolezza, o addirittura proprio a causa della nostra debolezza, noi abbiamo una missione da svolgere in un mondo sofferente” e San Bernardo, in una situazione di crisi e di insuccessi nella sua vita, vagava per i boschi ripetendo: “O beata debolezza!”, perché confessava di imparare più dalla sua fragilità che dalla sua forza.

Enzo Bianchi (da “La Repubblica”, 8 maggio 2023)

Oltre le finestre di casa

“Trasformerò il deserto in un lago.

Nella steppa farò crescere mirti ed ulivi.

Nella terra arida zampilleranno sorgenti”.

       O Dio di Gesù, che cosa posso fare

per aiutarTi a ripopolare i deserti,

per collaborare con Te a questa risurrezione?

«Ascoltami, mia creatura, popolo mio:

di' ad ogni uomo, ad ogni donna

che ho il loro nome scritto nel mio cuore».

Insegnaci, o Dio, a vedere e a credere

ai segni del Tuo amore sparsi nel mondo.

Insegnami a vivere nella gratitudine.

“Anche se le montagne cambiano il posto,

anche se le colline spariscono,

il mio amore per voi non cambierà mai”.

Svegliaci, svegliaci, o Dio nostro custode.

Quante volte non guardiamo oltre la finestra...

Spesso le nostre chiavi sanno solo chiudere.

“Figlio mio, figlia mia: allarga la tua tenda,

stendi al massimo i teli e le funi.

Di' al tuo cuore che è tempo di aprirsi”.

Grazie, o Dio di Gesù. Tu lo hai risuscitato

perché in noi ogni giorno lo sguardo si allarghi

e perché riassaporiamo il Tuo sorriso sul mondo.

Franco Barbero (da “Preghiere d'ogni giorno”, 2021, p.183)

La pigrizia della Chiesa

Per il papato — il ministero del successore di Pietro per tutta la chiesa che deve esprimersi soprattutto in un servizio di comunione — questa è un’ora di grazia, una grande opportunità.

Della quale però, almeno a mio parere, sembra non esserci sufficiente consapevolezza. Mi domando se non manchi in radice la fede, sì, quella fede che sola può autorizzare un tale compito e fornire tutta la forza e la speranza per portarlo a termine. Nella chiesa c’è troppa pigrizia, troppo autocompiacimento per quel che si è, e non brucia quel fuoco che chiede coraggio, profezia, che chiede di combattere e vincere ogni timore mettendo la fiducia nel Vangelo. Papa Francesco compie dei passi che si collocano in una determinata direzione, a servizio e non a mortificazione delle chiese cristiane, ma moltissimi sono gli ostacoli che rimangono per accendere un consenso, per aderire alla convinzione che l’assoluto traguardo dell’evangelizzazione può essere solo l’unità visibile nella storia. Oggi molte chiese non cattoliche hanno assunto un atteggiamento di attesa verso Roma al punto da desiderare che sorga un ministero di comunione per tutte le confessioni, e sentono il bisogno del carisma cattolico per resistere a ogni tentazione di nazionalismo della fede, con la conseguente miscela esplosiva tra religione e nazionalismo. Ma vogliono però non una chiesa sorella maggiore dominatrice sulle altre, ma un ministero a servizio di tutte.

Papa Francesco, lo testimoniano in molti, in quest’ora di guerra per l’aggressione russa dell’Ucraina è intervenuto più di duecento volte chiedendo vie di pace. E finora nessun esito. È stata un’azione da capo di stato apprezzabile a livello politico e diplomatico, ma ciò che urge è che come capo della chiesa svolga parallelamente un lavoro di comunione, di riconciliazione tra le chiese. Tutti constatiamo che la sua politica non è neutralità etica, non è strategia politica o tattica tra i grandi, così come non dovrebbe essere neutrale, ma dovrebbe operare un giudizio e muoversi solo con la profezia. Certo, questo è difficile nella rete diplomatica, ma è possibile come azione tra le chiese.

Il patriarca serbo, il patriarca copto di Alessandria d’Egitto, il patriarca ecumenico di Costantinopoli, il patriarca ortodosso di Antiochia mi hanno detto e scritto che ciò che si attendono è prima di tutto quell’azione di pace tra le chiese oggi, e in questo conflitto russo-ucraino. Nei giorni scorsi per la prima volta nella storia dei cristiani non cattolici, dei copti martirizzati dall’Isis, sono stati accolti nella chiesa cattolica come santi, senza tentativi di annessione, ma per fraternità solidale.

Sono tanti i gesti che Francesco può fare e che sarebbero accolti dalle chiese. Un papato che fa questo non può lasciare spazio, com’è avvenuto in passato, all’ambiguità di intrecci politici ed ecclesiali: senza la pretesa di influenzare i potenti di questo mondo, non resta neutrale di fronte al male, ma osa parole profetiche del Vangelo, parole sempre di riconciliazione.

Enzo Bianchi (da “La Repubblica”, 22 maggio 2023)

 

DALLA NOSTRA COMUNITA’

Questa comunità

  • In queste settimane la liturgia cattolica celebra delle feste come la Santissima Trinità e il Santissimo Corpo e Sangue di Cristo (Corpus Domini) e le enuncia come se fossero dei cardini della fede cristiana. Il fedele non ha il minimo dubbio: sono verità che derivano dal Vangelo e quindi da Gesù.
  • Le cose non stanno proprio così. Infatti i cristiani normalmente non si domandano se quel frasario, quel rito, quel significato abbiano almeno un qualche rapporto con Gesù. Tanto meno quando di questa festività si è creato un dogma. Lo si deve credere con fede indiscussa perché si tratterebbe di un "mistero".
  • I cristiani, se vogliono compiere un cammino di fede adulta, devono chiedersi quando quella credenza opinabile è diventata un dogma, anziché un enunciato simbolico pieno di significato. L'eucarestia diventa allora non un mangiare il corpo fisico di Gesù, ma il fare del suo messaggio la nostra vita.
  • Potrei fare mille altri esempi: Maria è diventata Assunta in cielo come dogma nel 1950 su ordine di papa Pacelli (Pio XI), nonostante l'opposizione dei maggiori teologi che, a differenza di lui, conoscevano la Bibbia.
  • Leggete, se lo credete opportuno, il mio commento alla festa del Corpus Domini, nata tra il XV e il XVI secolo, sul mio blog.
  • L'estate che sta iniziando vi aiuti ad approfondire e a far conoscere ad amici e amiche come una fede adulta deve conoscere queste manipolazioni gerarchiche.
  • Riprenderemo il discorso in modo più dettagliato. Intanto auguro a me e a voi una estate che, nonostante guerre e guai vari, possa farvi gustare un po' di pace, serenità e tanta gioia, il tutto con tanta fiducia in Dio. Vi abbraccio!

Franco Barbero

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