martedì 25 luglio 2023

Il caso Orlandi

Il fratello di Emanuela 

"Il Vaticano vuole solo deviare l'attenzione"

 

di GIUSEPPE SCARPA


ROMA — Non usa giri di parole Pietro Orlandi. Ieri in una infuocata conferenza stampa nella sede della Stampa estera bolla come «fango impiegato per depistare» la notizia fatta circolare ieri, secondo lui veicolata abilmente da ambienti vicini al Vaticano, che coinvolge Mario Meneguzzi. L'uomo, morto da anni, è lo zio di Emanuela e nel 1978, questa la storia, avrebbe fatto delle avance a Natalina, sorella maggiore della 15enne scomparsa il 22 giugno del 1983. La Santa Sede era venuta a conoscenza di questo episodio, grazie a quanto riferito da un sacerdote, confessore degli Orlandi, che violando il segreto confessionale avrebbe poi raccontato l'accaduto al Segretario di Stato Casaroli, tre mesi dopo la scomparsa di Emanuela. Questo dossier è stato consegnato nei giorni scorsi dai pm dello Stato Pontificio a quelli della Procura di Roma suggerendo così una pista interna, familiare, relativa al caso Orlandi.

Natalina ha spiegato che lo zio, che gestiva il bar dentro Montecitorio, non si comportò in modo elegante «ma le sue furono avance verbali e nulla più a cui io risposi rifiutando e la cosa finì lì. Lui aveva 50 anni io21. Inoltre non venni ricattata da mio zio, il mio lavoro a Montecitorio lo ottenni vincendo un concorso pubblico». È Pietro, al di là del comportamento dello zio, a spiegare che Meneguzzi non può essere collegato alla scomparsa della sorella: «Si trovava a un centinaio di chilometri da Roma, a Spedino (provincia di Rieti), in vacanza con la famiglia, lo chiamò la notte mio padre Ercole quando capì che a Emanuela era successo qualcosa». Di questo, secondo Pietro, ci sono diversi riscontri. La stessa procura all'epoca verificò l'alibi dell'uomo.

Sul caso è intervenuta anche Laura Sgrò, legale di Pietro: «Si è parlato di una persona morta, Meneguzzi, che non si può più difendere. Di un magistrato che all'epoca non avrebbe indagato, Domenico Sica, anche lui morto e che non si può difendere. L'unica persona che poteva parlare, Natalina, non è stata sentita. La cosa ci era nota da anni: erano queste le carte impolverate portate in Procura dal Vaticano?». «Quando ho visto il servizio in televisione ho pensato: che carogne! — ha insistito Pietro. Vi ho visto la volontà di scaricare qualsiasi cosa dal Vaticano sulla famiglia e senza sentire noi: solo quella lettera del sacerdote, che tra l'altro riferiva di cose ascoltate in confessione, quindi già con un errore di base. Da chi ha tirato fuori la cosa, e il servizio parlava dei procuratori Francesco Lo Voi e Alessandro Diddi, mi aspetto una dichiarazione. Altrimenti bisogna pensare che il Vaticano sta cercando il modo di scaricare ogni responsabilità sulla famiglia».

La Repubblica, 12 luglio