Francesca Albanese: “senza sanzioni internazionali Israele non cambierà”
“Vorrei che non si considerasse l’attacco a Rafah come un dato di fatto: si
può e si deve fermare. Serve un cessate il fuoco immediato per il rilascio
degli ostaggi israeliani e dei palestinesi arrestati da Israele negli ultimi
mesi. E servono sanzioni: senza sanzioni Israele non cambierà”. Francesca
Albanese, relatrice speciale Onu per i Territori palestinesi occupati, commenta
l'offensiva via terra contro la città. Il 25 marzo Albanese ha pubblicato un
nuovo rapporto, Anatomia di un genocidio, in cui spiega con dati e
testimonianze perché ci troviamo di fronte a un plausibile genocidio.
Come legge l’offensiva su Rafah, ormai partita?
Va fermata. L’Egitto sta già preparando piani di emergenza per accogliere i
rifugiati, invece di impegnare tutto il suo capitale politico per bloccare
l’attacco. Ogni operatore umanitario in questo momento dovrebbe viaggiare tra
le capitali del mondo per fermare l’offensiva.
Ci sono spiragli per un sì israeliano all’accordo di tregua?
Israele non intende accettarlo perché ha paura di fermarsi e vedere che cosa ha
fatto: nel momento in cui si poserà la polvere si vedrà quello che Israele ha
fatto a Gaza e si vedrà che i 25 relatori speciali dell’Onu che da mesi
denunciano il genocidio avevano ragione. È importante che a Gaza entrino
operatori umanitari ed esperti forensi, che vadano allo Shifa e al Nasser
Hospital dove ci sono le fosse comuni, che vadano nelle prigioni dove aumentano
i casi di morte dei detenuti per torture.
Nel rapporto scrive: «Nessun palestinese a Gaza è al sicuro per
definizione». È già qua il concetto di genocidio?
Sì e no. Sono tante le situazioni in cui gruppi di individui si trovano senza
la protezione che il diritto internazionale garantisce loro. Non è quella
mancata protezione in sé che rende un popolo esposto al rischio di genocidio.
Scatta quando quella mancanza di diritti è protratta, legata a un contesto e a
un disegno politico. È da ben prima del 7 ottobre che i palestinesi sono
esposti a istanze di sfollamento forzato e a un uso eccessivo della forza, a
detenzioni arbitrarie e a guerre preventive. È questo il contesto che per molti
è difficile capire ma che ha in sé il gene dormiente del genocidio.
Il rapporto lega le pratiche genocidarie alla natura stessa del
colonialismo d’insediamento, richiamando l’esperienza dei nativi americani
negli Usa, degli indigeni in Australia e degli Herero in Namibia: «l’esistenza
stessa di un popolo indigeno pone una minaccia esistenziale alla società
colonizzatrice». Può spiegare?
In Occidente si fa fatica a capire che cos’è il colonialismo di insediamento e
a legarlo alla realtà politica israeliana perché gli occidentali sono affetti
da amnesia coloniale e perché vedono Israele come prodotto politico della
tragedia dell’Olocausto. Lo è ma non del tutto: il progetto di colonizzazione
della Palestina da parte degli ebrei europei perseguitati per secoli in Europa,
per i quali chiaramente la Palestina ha un significato storico religioso,
inizia alla fine del XIX secolo. È su quel progetto coloniale che si è
innestata la soluzione politica che l’Occidente ha sostenuto dopo quella pagina
immonda della nostra storia che è l’Olocausto. La pulizia etnica del popolo
palestinese rientra nella definizione di genocidio coniata da Lemkin: il
colonialismo è di per sé genocidario perché mira all’eliminazione dell’altro.
La pulizia etnica è un crimine diverso dal genocidio. Secondo il diritto
internazionale, però, anche sfollamento forzato e deportazione possono
rappresentare genocidio se l’obiettivo è distruggere un gruppo protetto.
La finalità di Israele non è ammazzare tutti i palestinesi, è cacciarli. Il 7
ottobre rappresenta l’opportunità di sdoganare ed espandere il piano avanzato a
mezza bocca da esponenti di varie aree politiche: non più solo la segregazione
dei palestinesi, ma la loro cacciata. La pulizia etnica può essere dunque il
contesto in cui si compiono i genocidi.
Secondo la Convenzione sul Genocidio il primo elemento che fa parlare di un
simile crimine è l’uccisione di membri del gruppo protetto. A Gaza il 70% delle
vittime sono donne e bambini, il 30% uomini adulti che Israele assimila di
default alla categoria «combattente attivo».
È la criminalizzazione ab origine dell’uomo. Israele non contesta i dati Onu su
quanti uomini siano stati uccisi ma dice che erano tutti combattenti. È
un’aberrazione. Quello che Israele fa è prenderli di mira tutti dicendo di
voler così eliminare Hamas: è questo il germe della logica genocidaria.
Il secondo elemento sono i danni fisici e mentali al gruppo. In
particolare, spiega come i traumi subiti avranno un effetto duraturo sui
bambini. Qual è il futuro di Gaza?
Dal valico di Rafah ho visto uscire esseri umani che erano ormai solo corpi che
camminavano. Era come se fossero vuoti. In Egitto riconosci subito chi arriva
da Gaza: sono piccoli, piegati su se stessi, neri di un’energia nera. I
palestinesi sono così forti che si risveglieranno ma ci devono essere le
condizioni perché succeda e la condizione è la fine dell’apartheid israeliana.
Prenderà tanto tempo e moriranno tante altre persone a Gaza e in Cisgiordania
perché questo non è un mondo pronto a prevenire i crimini.
Nel rapporto dedica un capitolo all’uso che Israele fa del lessico del
diritto internazionale per giustificare l’uso della violenza letale: scudi
umani, danni collaterali, zone sicure…concetti diretti a cancellare la
distinzione tra civili e combattenti. A Gaza, scrive, ogni persona e ogni luogo
sono considerati possibili target perché prossimi a soggetti considerati
combattenti o perché vicini a luoghi considerati possibili centri militari: il
«contagio virale», lo definisce, giustifica la distruzione senza accorgimenti?
Sin dai primi giorni i palestinesi hanno capito che questa non era una guerra
come le altre, è questo che mi hanno detto: Israele stavolta ha subito preso di
mira target chiaramente non militari. Ha colpito da subito i luoghi
dell’identità palestinese: chiese, moschee, centri culturali, università.
Israele ha allargato lo spettro per determinare chi dovesse eliminare. Tra loro
poliziotti, medici, dipendenti dei ministeri perché considerati da Israele
tutti affiliati ad Hamas. Hanno colpito gli intellettuali, come Refaat Alareer,
vere e proprie punizioni collettive. Gli stessi figli di Haniyeh non sono stati
uccisi perché combattenti ma in quanto figli del leader di Hamas. Non si può
legittimare questa logica. E poi c’è il crimine più evidente: creare condizioni
di vita che conducono alla distruzione di un popolo, ovvero il bombardamento
degli ospedali, la privazione di cibo e medicinali.
In Occidente si è parlato poco dell’assedio dello Shifa: centinaia di
uccisi, esecuzioni, morti per fame. A ciò si aggiunge la consapevolezza di
provocare vittime: un ospedale che non può curare è una tomba.
In Egitto ho visitato tre ospedali: la maggior parte dei palestinesi ricoverati
non erano feriti di guerra ma malati cronici. Tumori, leucemie, malattie
respiratorie, diabete. E poi amputati a causa delle cancrene e bambini
malnutriti. Ho incontrato un bambino che si è ammalato di pancreatite per aver
mangiato cibo per animali e aver bevuto acqua sporca: a Gaza non avevano più
medicine. Il sistema sanitario a Gaza è distrutto. Questa è la verità.