A Teheran un presidente sotto stretta sorveglianza
In Iran ha vinto il più
indecifrabile dei presidenti, come del resto previsto dai sondaggi informali
dei Guardiani della Rivoluzione, ovvero di coloro che insieme ai vertici
religiosi e alla Guida Suprema Alì Khamenei detengono il potere. Appartiene
all’ala riformista che da anni era stata estromessa dalle stanze dei bottoni e
che per altro quando era stata ai vertici della presidenza con Khatami e poi
con il più moderato Rohani non era mai riuscita a riformare nulla.
Ci riuscirà il neo eletto presidente Massoud Pezeshkian? Abbiamo più di qualche
dubbio e allora dobbiamo chiederci come mai un regime, sempre più militarizzato
e impegnato su svariati fronti di guerra del Medio Oriente e contro Israele,
abbia deciso di “resuscitare” i riformisti.
La ragione di fondo è che la legittimità della repubblica islamica fondata nel
1979 con la rivoluzione di Khomeini è in discussione non solo per le pesanti
disillusioni sul sistema degli ayatollah e la crisi economica ma perché queste
elezioni arrivavano dopo mesi di proteste da parte della popolazione per
ottenere maggiore rispetto dei propri diritti, manifestazioni duramente
represse dalle forze dell’ordine.
A far nascere il movimento “Donne, vita, libertà” era stata nel 2022 la morte
della giovane Mahsa Amini, avvenuta mentre si trovava nelle mani della polizia
per non aver indossato il velo nella maniera considerata corretta secondo le
regole dei guardiani della morale.
Pezeshkian che ha battuto l’ultraconservatore Said Jalili, è arrivato in cima
alla presidenza per dare un messaggio diverso, quello di una maggiore
tolleranza: è stato chiamato a dare un volto più accettabile del regime nei
confronti di un’opinione pubblica ampiamente disillusa e in buona parte ostile.
Questo medico chirurgo, – di padre azero e madre curda, ex ministro della
sanità, figura di secondo piano e senza grandi credenziali rivoluzionarie, non
avrebbe mai potuto partecipare alla corsa presidenziale senza l’approvazione
del Consiglio dei Guardiani che avevano già eliminato personalità ben più note
della sua. E’ stato scelto dall’alto e calato nell’agone politico.
Questo significa due cose in apparente contraddizione.
La prima è che il campo ultra conservatore religioso e militarista è ancora
abbastanza compatto e sicuro nella gestione del potere al punto di permettersi
presentare un candidato dell’”opposizione” interna e di indicarlo come
vincente.
Ma allo stesso tempo la scelta di Pezeshkian rivela il punto chiave della
questione: la profonda crisi di legittimità che sta vivendo la repubblica
islamica come dimostra l’affluenza alle urne che rimane molto bassa rispetto al
passato. Il nuovo presidente rappresenta una sorta di operazione di recupero del
regime in un Paese che vive una profonda frattura tra chi è ai vertici e il
popolo.
Un’operazione in buona parte cosmetica perché il neo presidente ha un potere
limitato: è il capo del governo non la Guida in un sistema monopolizzato dagli
ultraconservatori che dominano tutte le istituzioni principali, da quelle
politiche alla magistratura, ai vertici religiosi e militari.
Pezeshkian avrà grandi difficoltà a governare come dice lui perché ha un forza
politica e personale limitata e si dovrà comunque confrontare con un
Parlamento, il Majilis, costituito in gran parte da ultraconservatori e dove i
riformisti sono in netta minoranza. In qualunque momento possono quindi
bocciargli i ministri e le leggi.
In poche parole è un presidente sotto tutela, sorvegliato dall’alto. Ma allora
perché è stato spinto in prima fila e fino alla vittoria? Perché questa è una
delle ultime carte che si gioca la repubblica islamica in una fase non solo di
delegittimazione ma anche di crisi economica e sociale.
Pezeshkian per governare dovrà prendere anche provvedimenti impopolari come il
taglio dei sussidi e l’aumento dei prezzi energetici: per farlo è meglio
mettere la faccia di un riformista. “Siamo tutti popolo di questo Paese, ci
sarà bisogno dell’aiuto di tutti per il progresso dell’Iran”, è stata una delle
sue prime dichiarazioni, parole che preludono a una sorta di appello alla
solidarietà su cui, di solito, si fa leva nei momenti difficili.
Quanto influirà l’ascesa di Pezeshkian sulla politica estera? Un domanda
essenziale perché da Teheran, polo di riferimento dell’Islam sciita, passano la
pace e la guerra in Medio Oriente, dal Libano degli Hezbollah fino alla
Palestina di Hamas, dall’Iraq alla Siria fino agli Houthi yemeniti.
Il neo presidente ha detto di voler tendere “a tutti la mano dell’amicizia” ma
che sia lui a potere decidere su tutto questo non ci crede nessuno e lui per
primo. Però Pezeshkian è una sorta di messaggio lanciato da una repubblica
islamica, da sempre in guerra o in attrito con l’Occidente, che rischia di
restare impigliata nell’asse per lei vitale tra Mosca e Pechino che non è
esattamente quello che vogliono gli strateghi degli ayatollah.
E’ ora di riaprire, almeno formalmente all’Occidente, se non per convinzione
per necessità visto il possibile ritorno di Trump alla Casa Bianca. Come diceva
il filosofo iraniano Dariush Shayegan, ispiratore del dialogo tra civiltà, la
storia dell’Iran è come un pendolo che oscilla perennemente tra Oriente e
Occidente. E forse il pendolo si rimetterà in moto.