Ilaria Salis e gli improbabili difensori della legalità
C’è da non cederci. Vecchi arnesi del
fascismo nostrano, giovani virgulti neonazisti, consiglieri regionali della
Lombardia già compagni di merende di Roberto Formigoni (condannato in via
definitiva a 5 anni e 10 mesi di reclusione per corruzione), orfani di Silvio
Berlusconi (pluricondannato campione di una guerra continua contro i magistrati
e la giurisdizione), nipotini di Umberto Bossi (condannato, tra l’altro,
per violazione della legge sul finanziamento dei partiti), colleghi
di governo della ministra Daniela Santanché (allegramente in carica benché
inquisita per truffa e falso in bilancio), compagni di partito di sindaci e
presidenti di regione arrestati per i reati più diversi, sodali di uno sbadato
ex ministro che vende una casa “a sua insaputa”, direttori di giornali che
giustificano (a dir poco) chi non paga le tasse e si arricchisce con lo
sfruttamento del lavoro nero, tutti insieme appassionatamente,
inneggiano alla legalità e chiedono che l’Aler di Milano si affretti
ad esigere dalla neo europarlamentare Ilaria Salis il pagamento
di risalenti canoni d’affitto per un alloggio occupato diversi
anni fa nell’ambito di una iniziativa di lotta per la casa.
L’impudenza e la strumentalità sono stridenti, tanto quanto la volgarità
degli attacchi. Una destra – questa destra – paladina della legalità è
una contraddizione in termini, un insulto alla storia del Paese. Ma
l’armata Brancaleone insiste e – con il contributo
complice di grande stampa, talk show e social – cerca
di trasformare la propria falsa narrazione in “senso
comune”. Conviene dunque, ancora una volta, mettere ordine
nei concetti per evidenziare, insieme alla strumentalità, l’inganno
sottostante alla campagna d’estate della destra.
Il primo inganno è quello
di considerare tutte le violazioni di legge tra loro equivalenti e inscriverle in
un’unica categoria, definita illegalità e additata all’esecrazione generale.
Anche un bambino coglie che non è così. Salvare una vita violando la legge
sull’immigrazione e richiedere tangenti per concedere una licenza edilizia sono
condotte che non hanno nulla – ma proprio nulla – in comune: né sul piano
etico, né su quello politico, né su quello giuridico. Non a caso, nel
bilanciamento degli interessi in gioco, condotte formalmente illecite, anche
gravissime, sono considerate non punibili (oltre che eticamente non
riprovevoli) se intervenute in situazioni particolari integranti, per
esempio, ipotesi di legittima difesa o di stato di necessità. E qual
è il fondamento dell’immunità parlamentare (abolita nel nostro sistema per
gli abusi che se ne sono fatti, ma tuttora esistente in gran parte degli
ordinamenti democratici) se non il possibile scarto tra l’azione
politica tesa al cambiamento e la legalità formale? Persino il codice
fascista distingueva (e distingue) le
condotte, prevedendo un’attenuazione della pena per le
violazioni delle leggi penali commesse per «ragioni di
particolare valore morale e sociale». Impugnare la legalità come una clava
per criminalizzare qualunque comportamento anche solo borderline è,
dunque, un grossolano strafalcione logico, una mistificazione, una evidente
forzatura.
Il secondo inganno è la presentazione
della legalità come un fine, anziché come un mezzo per realizzare giustizia e
uguaglianza. Di nuovo non è così – e ci sono intere biblioteche a
dimostrarlo. Il rispetto delle leggi è ovviamente un
elemento importante per la sopravvivenza delle società. Ciò vale, tanto
più, in una realtà come la nostra, caratterizzata, negli ultimi
decenni dal crollo dell’etica pubblica e dalla diffusione
crescente della corruzione, della strumentalizzazione a fini privati di uffici
pubblici, della mercificazione finanche della funzione legislativa, della
prevaricazione mafiosa, dello sfruttamento del lavoro altrui, della evasione
fiscale come metodo, della regola dei condoni, della pretesa di impunità per
chi ha potere e di molto altro ancora. Opporsi a questo illegalismo è, per gli
onesti, un imperativo morale che ha, appunto, per bandiera la
legalità, intesa come rispetto di regole elementari di
convivenza. Ma la storia conosce, a fianco del mugnaio di Brecht che
confida in «un giudice a Berlino», l’eroe perdente di De Gregori che «cercava
giustizia e trovò la legge». Può cioè accadere che legalità e
giustizia non coincidano. In questi casi la disobbedienza diventa uno
strumento, talora addirittura un imperativo, di grande
valore morale e politico. Accade – in maniera clamorosa –
di fronte alla legge ingiusta, alle leggi razziali,
alla legge che prevede la pena di morte, alla legge che distingue gli uomini in
liberi e schiavi. Ma è esperienza quotidiana in molti altri
settori. La modernità, del resto, nasce con Antigone che – nella tragedia
di Sofocle – viola, in nome di un principio superiore, l’editto di
Creonte, re di Tebe, e dà sepoltura al proprio fratello, diventando per questo,
nei secoli, simbolo di libertà e di lotta contro il sopruso. Solo con questi
riferimenti ha senso parlare di legalità.
Il terzo inganno è considerare
il sistema legislativo una realtà statica e immutabile anziché
un processo in continuo divenire. Le regole
cambiano. Non per caso, ma per l’azione degli uomini e delle donne e,
spesso, per effetto di rotture della legalità formale. La gran parte dei
diritti civili e di quelli sociali, nel mondo e nel nostro Paese, è stata
conquistata con strappi, scontri, disobbedienza civile. Senza queste rotture
della legalità formale ci sarebbe tuttora l’apartheid in Sudafrica e negli
Stati Uniti e l’Italia non conoscerebbe l’obiezione di coscienza, lo statuto
dei lavoratori, il diritto all’interruzione di gravidanza e molto altro ancora.
Il conflitto sociale e politico (di cui la disobbedienza è una componente
fondamentale) è, da sempre, la fonte e il motore di ogni trasformazione in
senso democratico della società. Lungi dall’essere un fattore di disgregazione
della polis e di disordine, esso è un
elemento necessario per compensare e correggere gli abusi del
potere. Le lotte per il lavoro, per la casa, per il clima, per la salute,
per l’ambiente, per la tutela dei diritti fondamentali sono costellate –
piaccia o meno ai nipoti di Almirante e ai loro alleati – di violazioni più o
meno rilevanti della legalità formale ma sono un baluardo delle democrazie (che
– come noto – vivono, per definizione, di conflitti).
Il quarto inganno è quello di
presentare i protagonisti del conflitto sociale non solo come criminali ma
anche come profittatori alla ricerca di impunità.
Qui a confondere le acque è il riflesso condizionato di una
radicata cattiva coscienza. Da sempre, infatti, la destra –
questa destra – pretende, sulle orme del grande corruttore a cui sta
per essere intitolato l’aeroporto di Milano Malpensa, l’impunità per le
proprie malefatte: una pretesa perseguita modificando le leggi in
corso d’opera, delegittimando i giudici, difendendosi non nel processo
ma dal processo e via elencando. Non così – anche in
questo caso da sempre – chi pone in essere atti di disobbedienza
civile, che mette nel conto la sottoposizione alle
sanzioni previste della norma violata: lo fecero i (pochi) docenti
universitari che rifiutarono il giuramento di fedeltà al fascismo (e furono,
per questo, destituiti dall’incarico) e gli obiettori di coscienza al servizio
militare (che subirono, per la loro scelta, anni carcere); lo fanno, oggi, gli attori
delle diverse forme di conflitto sociale (che si limitano a pretendere – come è
proprio di uno Stato di diritto – processi giusti e pene equilibrate e non una
vendetta travestita da diritto).
C’è una conclusione.
È sotto gli occhi di tutti che – almeno in questi tempi bui – senza gesti
esemplari, senza forzature non c’è né politica né futuro. In questo
contesto vanno valutate le azioni degli attivisti per la
casa, per il clima, per la pace etc. Ignorarlo non significa agire per la
legalità ma per la conservazione dell’esistente. È il mestiere
della destra, ma non può essere coperto dal richiamo alla legalità.