martedì 16 luglio 2024

Oggi alle ore 18 incontro di preghiera on line della nostra comunità

Ciao a tutte/i,

vi inviamo la traccia dell’incontro di preghiera on line che si terrà oggi, martedì 16 luglio, alle ore 18, organizzato dalla CdB di Pinerolo di Via Città di Gap e condotto da Sergio sulla traccia di martedì scorso.

Questo è il LINK per il collegamento (attivo dalle 17:45):

meet.google.com/qpe-wfjz-cdp

 

INCONTRO BIBLICO DEL 16 LUGLIO 2024

RACCONTI MITICI NELLA BIBBIA

 

GENESI CAP.4, 1-16 CAINO E ABELE

Ecco qui un racconto che non è certo storico e non va interpretato neppure con il metodo storico-critico che non ci porta da nessuna parte, ma va letto con la psicologia del profondo e con le basi di un racconto mitico simile e comune ad altre epoche, culture, religioni, popolazioni (Drewerman psicologia del profondo e esegesi vol.1).

Nell’interpretazione di mons. Ravasi ci sono spunti interessanti, ma si rimane nel solco interpretativo storico-critico-esegetico tradizionalista. (vedi allegato A)

Il racconto mitico di due fratelli in antagonismo è un classico di altre storie.

(vedi allegato B)

I racconti mitici/archetipi vogliono far passare storie e domande complesse sulla vita, la morte, valori profondi, spiritualità etc. in maniera più semplice/capibile da tutti e tramandare da generazione a generazione il significato che il racconto vuole veicolare che può variare nei secoli/millenni a seconda della percezione dell’ascoltatore.

Abele è un pastore nomade non stanziale, potrebbe raffigurare la figura dell’uomo cacciatore/raccoglitore nomade per sua stessa natura e raffigurante i primi Neanderthal/Sapiens che si spostavano per la propria sussistenza, non incline al possesso, alla guerra tra tribù, con famiglia “leggera” per spostarsi velocemente; mentre Caino è un agricoltore stanziale, legato alla terra e alla casa e raffigurante i Sapiens che dopo essere riusciti a domare cavalli (tribù siberiane) e cammelli (tribù arabe) si sono rafforzati negli spostamenti, nel rubate a tribù limitrofe, portare via donne dalle stesse tribù per avere più popolazione e più potere di conquista e convertirsi all’agricoltura, quindi possesso del proprio territorio e necessità di difenderlo da predatori con le armi.

Gli Abele vivono in capanne circolari facilmente smontabili e trasportabili e limitate di dimensioni all’accumulo del cibo “quotidiano”, i Caino trasformano le tende in case di terra/mattone quadrate, solide e idonee per “immagazzinare” scorte alimentari per i tempi più duri.

Gli Abele vivono immersi nella natura e la loro spiritualità è rivolta alla terra e ai fenomeni che da essa fuoriescono, la terra e la natura sono esseri femminili e la loro spiritualità si rivolge alla Dea Madre, famiglie con pochi figli piccoli facilmente trasportabili diretti e concertati da una matriarca, non conoscono l’uso della guerra, mente i Caino cominciano a “usare” la natura per il proprio benessere, hanno bisogno di grande forza lavoro per i campi e per difendersi/attaccare quindi famiglie numerose con la donna che rimane fissa in casa e l’uomo più idoneo a cavalcare e alla guerra prende il sopravvento come patriarca e anche l’immagine della Dea si trasforma nel maschio Dio.

Questo passaggio di vita può essere durato un paio di migliaia di anni assimilato gradualmente e sancito/stimolato/gratificato/imposto dal potere di comando (sacerdotale/regale) anche con racconti come questo della Bibbia e questo potrebbe farci capire la strana scelta di Dio che predilige il lavoro ed il raccolto di un solo fratello portandolo all’ira verso l’altro e all’omicidio/morte/scomparsa. Anche per questo motivo l’assassino non viene punito ma può trasferirsi tranquillamente al nord per dare vita ad una nuova stirpe. Interessante la simbologia dei quattro punti cardinali data dalle popolazioni dell’epoca: Ovest = morte (tramonto del sole), Est=rinascita (sempre del sole), Nord=potere, Sud=azione.

Per capire questo genere di immagini si deve partire dall’idea che gli avvenimenti narrati spesso hanno abbracciato o possono aver abbracciato anni nella vita del singolo individuo, secoli nella vita di un popolo e millenni in quella dell’umanità. Nel racconto dei primi agricoltori e pastori di Gen.4 può valere la constatazione che qui, nella prospettiva storico-culturale dell’evoluzione dell’umanità, un periodo di almeno alcuni millenni di evoluzione della civiltà, durante la così detta rivoluzione del neolitico, viene concentrato in singole figure umane e in singolo momento. (Drewermann pag.186)

Nel racconto appare anche un altro spunto interessante stratificato da forse precedenti racconti:” Il Signore disse allora a Caino: ‘perché ti sei acceso d’ira e perché il tuo volto è abbattuto? Non è forse vero che se agisci bene c’è elevazione mentre se non agisci bene, è alla porta il Maligno, come un Robles; esso si sforza di conquistare te, ma sei tu che lo devi dominare?’. Interessante apertura all’animo umano che racchiude contemporaneamente il bene e il male e sta all’essere umano sforzarsi di sconfiggere il male che è sempre accucciato fuori dalla porta (del cuore) pronto a prendere il sopravvento come un Robles (figura maligna proveniente da idee mesopotamiche/assire. E questo archetipo di racconto apre ad un’interpretazione più personalizzata, intimistica/psicologica.

Una riflessione di Bruno Mori sui miti e il pensiero mitico legato alla spiritualità e alla religione è un po’ lungo ma mi sembra che ben si inserisca nel discorso iniziato la scorsa settimana da Anna Campora (che non avrà mai un punto fermo!!!!)

(vedi allegato C)


ALLEGATO A: CAINO E ABELE, FRATELLI - COLTELLI

(di Gianfranco Ravasi, cardinale arcivescovo e biblista)

Era felice Eva quando aveva dato alla luce il suo primogenito: «Ho acquistato un uomo grazie al Signore!». E il nome dato al bambino, Qajin-Caino, voleva liberamente ricalcare proprio il verbo “acquistare”, in ebraico qanah, secondo una locuzione in uso anche in alcune forme dialettali contemporanee che parlano di “comperare un figlio” non in senso mercantile ma generativo.

 Poco dopo Eva partoriva un secondo figlio, il cui nome Abele avrebbe riassunto in ebraico la sua tragica storia: habel/hebel, vocabolo caro al sapiente biblico Qohelet, allude al soffio, al fumo che evapora e svanisce.

Nella nostra ideale galleria di figure bibliche giovanili non poteva mancare questa coppia di fratelli, la cui vicenda purtroppo spesso si ripete nelle infinite violenze nascoste all’interno delle pareti domestiche.

In realtà in questi due personaggi non si annida solo il contrasto familiare, quello che per assonanza è proverbialmente detto lo scontro tra fratelli-coltelli. I due, infatti, incarnano anche professioni e stati di vita diversi e non di rado ostili anche oggi.

Caino (il cui nome in verità può significare “lavorare il metallo”) è un sedentario, un agricoltore, anzi, sarà il primo costruttore di città. Abele, invece, è un nomade, un pastore errante negli spazi liberi.

Tra queste due visioni di vita scatta uno “scontro di civiltà”, ma alla radice c’è proprio la violenza giovanile e familiare che sfocia in un fratricidio.

 Il tutto è narrato in una pagina, il capitolo 4 della Genesi, considerata un archetipo emblematico di tante storie che hanno striato di sangue l’umanità.

Noi ora ci soffermiamo solo su due componenti. La prima riguarda la causa di questa tensione che l’autore sacro esprime con la frase: «Dio gradiva Abele e la sua offerta» (4,4). La locuzione non deve far pensare a una parzialità divina, ma al fatto che con essa si definisce la prosperità, la serenità e la pace di una

persona.

Caino reagisce con gelosia al successo del fratello, nonostante il suo stato di vita così libero e ai suoi occhi disordinato: «Ne fu molto irritato e il suo volto era abbattuto» (4,5). Ancora una volta è l’invidia per i beni e la felicità dell’altro a rodere il cuore e a far covare un fuoco che poi esplode nell’atto inconsulto dell’assassinio. Infatti, il demone dell’odio prevale e sul terreno rimane un cadavere il cui sangue cola e sollecita l’intervento del testimone invisibile di quel delitto, cioè Dio che fa risuonare il suo rimprovero nella coscienza di Caino: «Dov’è Abele, tuo fratello?... La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo!»(4,9-10). Subentra, allora, la pena del contrappasso: Caino che detestava lo stile di vita nomade del fratello, è costretto ad abbandonare la sua terra e la sua casa divenendo «ramingo e fuggiasco» (4,12).

È qui che si introduce un secondo elemento. Il Signore assume sotto la sua personale giurisdizione il peccatore: «Chiunque ucciderà Caino subirà la vendetta sette volte! Il Signore impose a Caino un segno perché non lo colpisse chiunque lo avesse incontrato» (4,15). Forse in questo “segno” ci si riferisce a un tatuaggio o alle acconciature dei capelli o alle insegne che nell’antico Vicino Oriente

contraddistinguevano le tribù e i clan. Qui si alluderebbe all’emblema che contrassegnava i Qeniti, una tribù considerata discendente da Caino.

Tuttavia la lezione finale è chiara: la giustizia divina deve fare il suo corso, ma l’ultimo atto non è nella condanna a morte, bensì nell’attesa di una conversione.

Dio che è l’arbitro della vita e della morte, anche di fronte a crimini efferati come quello perpetrato da questo giovane, ripete: «Io non godo della morte di chi muore... ma piuttosto che il malvagio desista dalla sua condotta e viva» (Ezechiele 18,23.32).

 

ALLEGATO B: IL LEGAME FRATERNO NEI MITI E NELLE FIABE

 

I miti

I miti riflettono il sentire morale dei popoli lungo il corso della loro storia. Essi sono i “depositari/trasmettitori” dell’insieme di valori e di modelli di comportamento che ha adottato l’uomo nei differenti periodi storici.

Inoltre, essi operano come soluzione di problemi cosmogonici, spirituali e sociali e

formano parte della temporalità dell’atto, che fa sì che tutto il tempo passato sia un presente possibile.

Mythos ha in Omero il significato di “parola”, “discorso”, mentre, in ambito filosofico, acquisisce il significato di “racconto che non necessita di dimostrazione”, in contrapposizione a lógos, che designa un’argomentazione razionale (Capodieci, 2003).

Esso pone i significanti chiave nella fondazione della cultura che gli è propria, essendo un tessuto di rappresentazioni immaginarie del mondo intorno al

quale ogni insieme sociale si organizza.

Il valore dell’esperienza fraterna traspare dal mito, che non fu semplice espressione poetica, ma fattore basilare per il fiorire di civiltà come quella egizia o greca.

 I miti non sono, infatti, inventati da un singolo poeta, ma questo li trova già pronti nella memoria collettiva del popolo a cui appartiene (Capodieci,2003).

Il mito è uno dei principali strumenti deputati alla trasmissione e all’insegnamento delle regole sociali.

Esso è inoltre un modo di pensare che si sviluppa non attraverso schemi logici, ma per immagini.

Come ha ampiamente dimostrato la psicoanalisi, il pensiero mitico non è solo esclusiva delle civiltà arcaiche, ma sussiste in ogni individuo come schema profondo della mente: il sogno ne è la dimostrazione, in quanto si riconosce in esso non solo il linguaggio visivo ed immaginario, ma anche lo stretto legame esistente tra vita psichica inconscia ed elementi costitutivi del mito (simboli, rituali,metafore).

Diverse sono le spiegazioni mitologiche alla base della fondazione del sociale e molte di esse pongono all’origine dei rapporti collettivi la relazione fraterna dispiegata in un continuum che va dall’estrema rivalità, con pulsioni omicide, all’abnegazione della propria individualità a favore del fratello.

Numerosi sono gli scritti e le interpretazioni riguardanti le varie mitologie fondanti la realtà sociale, molti dei quali però esulano dal modesto scopo di questo elaborato o richiederebbero una trattazione più ampia, perciò, questa breve sintesi si soffermerà solo su alcuni aspetti di quei miti considerati i più conosciuti oltre che, ovviamente, i più significativi ai fini del nostro tema d’indagine.

Fra i miti più noti dell’antichità, aventi come trama il tema della rivalità fraterna, troviamo quello egizio di Osiride.

Nell’Iside e Osiride di Plutarco[1], Set[2] uccide suo fratello per invidia, essendo Osiride il primogenito amato e stimato da tutti.

Osiride, diventato in questo modo il signore dell’oltretomba, verrà ricomposto nei suoi pezzi smembrati da Iside, sua sorella-sposa.

Dalla loro unione incestuosa verrà alla luce Horo, il dio falco, il quale altro non sarà che Osiride in vita, ripetendo così lo schema caro agli egizi della nascita e della rigenerazione.

Pur potendo includere elementi edipici nella vicenda di Osiride-Horo e Set (il padre che genera il figlio e il figlio che in sé genera il padre), non si riscontra in essa alcun richiamo al senso di colpa derivante dall’uccisione del padre (Brunori, 1996).

Horo, essendo anche Osiride, è dunque fratello di Set, e su questo fratello egli si vendicherà, evirandolo.

Set, l’uguale e conflittuale di Horo-Osiride, rappresenta dunque il fratello portatore della stirpe alternativa a quella di Horo.

In questo dramma, il faraone, somma figura teologica, oltre ad essere l’impersonificazione di Horo e quindi l’eviratore del fratricida Set, è per gli egizi anche Osiride, vittima del fratricidio e portatore in sé dell’ambivalenza dei sentimenti fraterni: la rivalità (Osiride-Horo e Set) e l’unione fraterna (Osiride e

Iside) divengono così elementi complementari finalizzati ad una nuova generazione e

individuazione (Horo-faraone).

Se nel mito egizio si riscontrano elementi di unione profonda e contrasti connotati edipicamente, nel mito greco e latino si trovano storie di destini condivisi tra i fratelli e sovente risalta la supremazia di un fratello sull’altro.

Tuttavia, mentre nella cultura latina la rivalità fraterna si conclude con la vittoria

di uno dei due contendenti, il conflitto greco tra fratelli lega entrambi ad una sorte comune.

Basti pensare al mito della fondazione di Roma: entrambi i gemelli, Romolo e Remo, di fronte all’uguaglianza delle origini (entrambi figli di un dio, Marte) e posti di fronte alle stesse condizioni alla nascita (allevati dalla lupa), avranno differenti destini.

Uno di essi fonderà uno dei più grandi imperi della storia dell’uomo, l’altro non avrà che solenni funerali.

Come fa notare Brunori (1996), la rappresentazione iconografica dei gemelli li mostra innocenti, ancora bambini e allattati dalla lupa.

Ignora completamente i fatti di sangue che stanno alla base della fondazione della città, come a voler mantenere una visione fraterna di unione.

È una visione che, peraltro, esiste realmente nel mito: Romolo è inseparabilmente legato a suo fratello (accorre per liberarlo dalle guardie di re Amulio e, insieme, riescono a spodestarlo) fino al momento della fondazione di Roma.

I fratelli, tuttavia, non possono spartirsi il potere, ma solo uno, incarnando il paradigma della rivalità mimetica, può elevarsi al ruolo di padre di Roma.

La condivisione dei destini dei fratelli nella mitologia greca si evidenzia nel mito di Eteocle e Polinice, figli di Edipo e Giocasta, che scacciano il padre una volta scoperta la loro origine incestuosa.

La maledizione di Edipo si abbatterà sui due fratelli avverandosi nella loro morte per loro stessa mano, nella guerra che li vedrà avversari per dominare su Tebe.

Pure i fratelli Atreo e Tieste sono vittime di rivalità violenta per la conquista del titolo regale, che si ripercuoterà successivamente in un ciclo di vendette reciproche per molte generazioni.

In modo analogo, i gemelli Castore e Polluce, gli inseparabili guerrieri conosciuti anche col nome di Dioscuri, si troveranno coinvolti in battaglia contro un’altra coppia di fratelli, i loro cugini Ida e Linceo.

Alla morte in battaglia di Castore, il gemello Polluce, per condividere la sorte del fratello anche nel mondo delle ombre, rinuncerà alla sua immortalità e quindi all’ascesa al cielo degli dei.

Zeus, ricompensando il loro amore, concederà loro la possibilità di stare insieme un giorno in cielo e un giorno sotto terra e porrà la loro immagine nel cielo, come costellazione dei Gemelli.

La vicenda di Castore e Polluce evidenzia «l’eccellenza della gemellarità su ogni altra forma di legame fraterno» (Brunori, 1996, p. 31).

Nella tradizione ebraica il racconto fraterno si dispiega, al contrario, all’interno di un sistema patriarcale attraverso il quale il padre trasmette la sua autorità ad uno dei figli, generalmente il primogenito, anche se dai miti risulta che le preferenze affettive del padre possono far variare tale regola.

La gelosia e la rivalità fraterna si manifestano, perciò, nei confronti del fratello che potrebbe beneficiare della preferenza del padre.

Interessante anche notare che il fratricidio è perpetuato, contrariamente al mito egizio, ad opera del primogenito, come ad indicare l’instabilità del modello, la

problematicità dell’imprevisto (Chiodi, 2006).

Secondo la Genesi [4, 1-16] il primo uomo nato sulla terra, Caino, commette un fratricidio, che è anche il primo omicidio, verso suo fratello minore Abele.

In questo episodio biblico, il motivo della contesa è la preferenza di Dio per Abele, la quale, seppur in qualche modo giustificata dalla volontà divina, rimane incomprensibile per Caino.

Bisogna però considerare che la rivolta di Caino e l’uccisione del fratello, apparentemente non è diretta contro il padre e, tantomeno, come osserva Chiodi (2003), mira a prenderne il posto.

Il mito di Caino e Abele sembra più completo e penetrante dei precedenti, in

quanto contempla entrambe le coordinate, orizzontale e verticale, rispetto ai miti precedentemente esposti.

Inglobando anche il modello padre-figlio, esso può infatti essere rappresentato sotto forma di triangolo, in cui ad un vertice si colloca il padre, l’oggetto della contesa, e agli altri due si collocano i fratelli, i soggetti che la attuano.

Abele è il modello da seguire e l’invidia di Caino non sfugge agli occhi di Dio: «[…] il peccato è accovacciato alla tua porta; verso di te è la sua bramosia, ma tu dominala» (Genesi [4,7]) è il suo monito.

Come sostiene Fornari (2006), il modello e chi lo imita vogliono la stessa cosa, perciò ne scaturisce una naturale rivalità, dove chi imita vuole essere il modello e dove quest’ultimo diventa il nemico da eliminare.

La violenza di Caino è perciò da vedere come la degenerazione di quell’imitazione con cui l’uomo apprendere a costruire la propria identità (Fornari, 2006).

Anguinis (1988) e Kancyper (2003) ipotizzano che, sebbene a livello manifesto Caino non uccida Dio, di fatto però egli uccide l’uomo da lui creato a sua immagine e somiglianza.

Ciò fa pensare ad uno spostamento sul fratello dell’ostilità repressa e mette in evidenza uno dei più importanti conflitti del sistema narcisistico genitoriale-filiale.

Secondo Kancyper:«[…] tale conflitto si collega al mutuo e cruciale paradosso della mortalità/immortalità […] che si accentua in modo particolare rispetto al primogenito.

Da una parte infatti il primogenito garantisce al padre la continuità della vita, e dunque in un certo senso la sua immortalità.

Ma dall’altra parte gli annuncia l’arrivo di una nuova generazione e dunque anche la morte» (Kancyper, 2003, p. 262).

Questo ci introduce all’ambivalenza di sentimenti del padre nei confronti del figlio: amore verso il figlio, in quanto portatore della sua immortalità, e desideri di annientamento, come negazione della propria mortalità.

Andacht (1994) crede che l’azione cruenta di Caino sia da ricondurre all’ingiustizia di Dio padre.

In fondo, egli era il primogenito, le sue offerte erano paragonabili a quelle di suo fratello e, essendo la sua nascita da ricondurre a quel tipo di accoppiamento con forze divine che nei miti generano di solito eroi (Kancyper, 2003), egli può essere considerato di stirpe divina[3].

In questo senso, perciò, il mito è interpretabile come la mancanza, l’eccesso e/o l’arbitrarietà delle funzioni genitoriali che promuovono le fantasie di ordine fratricida (Kancyper, 2003).

 

Le fiabe

Malgrado la fiaba non sia uno strumento che ci mette a contatto diretto con le rappresentazioni collettive di tipo inconscio, essa ci permette «un incontro mediato che agevola l’accettazione e la possibilità di una ricerca autonoma di risposte attraverso la fantasia stimolata proprio dalla narrazione» (Brunori, 1996, p. 40).

Propp (1949), studiando le fiabe da un punto di vista antropologico, ha letto tracce di antichi riti di iniziazione.

In effetti, vi si scorge l’antico schema di distacco dalla famiglia, il superamento di certe prove e il ritorno con l’inserimento nella comunità degli adulti da parte degli adolescenti delle società primitive.

D’accordo o meno con questa ipotesi, dobbiamo però riconoscere alla fiaba una sua intrinseca veridicità, nel senso che riproduce in maniera schematica una serie di situazioni che si riscontrano nel quotidiano: la spaccatura sociale tra ricchi e poveri, il bipolarismo di sentimenti positivi – negativi, la vita intesa come un succedersi di difficoltà da superare e il desiderio di essere artefici del proprio destino senza cadere preda degli incantesimi, ovvero dei condizionamenti limitanti la libertà individuale

(Capodieci, 2003).

In questo contesto, il rapporto fraterno fa da filo conduttore per molti racconti.

In particolar modo, alcune fiabe dei fratelli Grimm[4] si prestano bene per mettere in luce le dinamiche psicologiche del rapporto triangolare madre-bambino-fratello.

Così, nella fiaba Fratellino e Sorellina due bambini riescono a salvarsi dalla loro matrigna-strega grazie alla loro unione e amore reciproci.

In Cenerentola e in Occhietto, Dueocchietti, Treocchietti invece, sul rapporto già deleterio con la matrigna grava una situazione di rivalità estrema con le sorelle.

Ad ogni modo, in tutte e tre le fiabe, a questi bambini viene impedita la possibilità di identificazione e d’imitazione di una madre affettuosa, la quale è spesso sostituita nel racconto fiabesco con la figura della matrigna cattiva, segno di come si attribuisca malvolentieri questo aspetto materno alle madri biologiche (Petri, 1994).

Nella fiaba Fratellino e Sorellina si può individuare un’importante funzione protettiva ricoperta da Sorellina, la quale, facendo sì che suo fratello non beva dalle fontane avvelenate dalla matrigna, ne contiene le forze impulsive prive di controllo (Petri, 1994) e si sostituisce in questo modo alle funzioni psichiche superiori dell’Io non ancora pienamente sviluppate nel fratello (Bettelheim, 1977).

Fratello e sorella possono così svolgere quella funzione di sostegno nel processo di maturazione dell’individuo, indispensabile per resistere all’attrazione verso la regressione e verso l’indifferenziazione, aiutandolo nella costruzione di una identità adulta (Brunori, 1996) senza sentire sempre il sostegno rassicurante di un adulto onnipotente e inimitabile, con il quale non sarebbe possibile elaborare un’autonomia strutturata dell’Io (Bettelheim, 1977).

L’amore tra i due fratelli in questa fiaba è in primo piano e addirittura filtra quello di Sorellina verso il suo sposo-Re (Brunori, 1996).

Questa interpretazione troverebbe conferma nell’attuale linea di pensiero che vede la relazione fraterna come agente transizionale tra la famiglia e le realtà extrafamiliari: si pensi, per esempio, agli studi che confermano l’influenza fraterna sulle future relazioni extrafamiliari e sulla scelta del partner (Toman, 1971, 1988; Brunori & De Nunzio, 1999).

Gli altri due racconti invece aggiungono, nell’ambito fiabesco, il problema dell’antagonismo con i fratelli.

Ora, se è vero che la «rivalità fraterna censurata si realizza come una sindrome minore di melanconia» (Brunori, 1996, p. 50), possiamo vedere nell’atteggiamento di inferiorità e di colpevolezza di Cenerentola quella tendenza che Corman (1970) spiega come masochistica, dovuta al rivolgimento delle pulsioni aggressive contro il Sé.

È evidente che Cenerentola e le sue sorellastre vivono ciò che Bank e Kahn (1982) chiamano un rapporto a “basso accesso”[5] e che la sottomissione e accondiscendenza dell’una e la manifesta aggressività e invidia delle altre, sono da ricondurre ad una situazione di reciproca rivalità, indotta dall’atteggiamento genitoriale di preferenza.

A questo proposito, Brusset (1987) scrive:

«nell’appropriarsi della porzione migliore del progetto identificatorio genitoriale, il figlio prediletto si trasforma così in fratello usurpatore.

Questa condizione genera rivalità, gelosie ed invidie […].

Il figlio prediletto spoglia così il fratello delle potenzialità necessarie per realizzarsi come individuo […]» (Kancyper, 2003, p. 265-6).

La terza fiaba qui brevemente esaminata, ovvero Occhietto, Dueocchietti, Treocchietti, ci pone di fronte all’influsso dell’ordine di genitura sulla condizione fraterna.

La secondogenita, Dueocchietti, viene emarginata dalla madre tiranna e dalle sue stesse sorelle per la sua diversità, identificata col fatto di avere “soltanto” due occhi, come la gente “ordinaria”.

Qui, la dinamica di emarginazione che permea la storia può essere paragonata, secondo Brunori (1996), al conformismo adolescenziale a certi stereotipi

di comportamento, finalizzati all’accettazione dell’individuo nel gruppo.

Essendo l’eroina della fiaba una secondogenita, ella racchiude in sé sia il ruolo di maggiore sia quello di minore.

Questo sembrerebbe fungere da fattore protettivo nei confronti del rischio di una radicalizzazione nei pattern di comportamento stereotipici (Brunori, 1996), condizione di cui le altre sorelle non potrebbero usufruire.

La deformità visiva di Occhietto e Treocchietti risulterebbe metafora di una visione distorta della realtà e, malgrado Dueocchietti sia più protetta dall’incasellamento in ruoli stereotipati, come quello del primogenito o come quello della sorella minore, vive però delle conseguenze affettivo-relazionali dovute all’indeterminatezza del suo ruolo e all’incapacità di riconoscersi in un modello.

Nella dinamica familiare di questa storia avviene ciò che Dunn (1984) descrive come il frazionamento dei membri in alleanze ai danni di un altro membro; la scelta del capro espiatorio cade su Dueocchietti, in quanto priva di un ruolo e della sicurezza comportamentale che da esso ne deriva.

Lo spazio relazionale di Dueocchietti, esclusa dalla fratria, si sviluppa però tramite una rete amicale extrafamiliare che l’aiuta nel suo riscatto come individuo, oltre che nel perdono verso le sue crudeli sorelle, segno di come i sistemi relazionali extrafamiliari che il soggetto costruisce intorno a sé possono influenzare il sottosistema familiare fraterno.

Conclusioni

Dai miti e dalle fiabe emerge un elemento costante relativo al rapporto fraterno: l’alternarsi di momenti di cooperazione e sostegno reciproco con momenti di rivalità, velata o manifesta; entrambi gli aspetti contribuiscono alla costruzione di ciò che è il vincolo fraterno.

In fondo, come scrive Massimilla (2003), fratello o sorella significano anche “l’inatteso”, ossia il venire a contatto con sentimenti contrastanti.

Queste esperienze emozionali acquistano particolare importanza nella costruzione della propria identità.

La rivalità è «il cemento del narcisismo e dell’immagine di sé» (Rufo,2002, p. 30), acuisce il desiderio di conoscenza ed è promotrice della ricerca di sé e, ben al di là della sola battaglia per il possesso dell’amore genitoriale, permette a ciascuno di noi di definirci meglio attraverso il gioco delle somiglianze e delle differenze(Rufo,2002). Lacan (1970), equiparando il complesso fraterno al complesso dell’intruso, sostiene che il fratello possa rappresentare il rivale perturbante, colui che agli occhi del bambino col quale è posto in competizione, personifica il desiderio della madre. Questa rivalità, non priva di conseguenze per entrambi gli attori del dramma

fraterno, se da un lato porta ai sensi di colpa per aver desiderato l’annientamento del rivale, dall’altro sfocia in sentimenti di rimorso per esser stato il prediletto (Kancyper, 2003).

 Abele e Caino, vittima e carnefice, confondono i loro ruoli e muoiono entrambi seppure in gradi diversi, in una sorta di condivisione del dramma come accade nel mito greco dei Dioscuri, che ben esprime l’indissolubilità del legame fraterno.

È singolare come nei miti fondativi si trovino in genere vicende fratricide o comunque di estrema rivalità.

Pensando che su tali miti si fonda l’aspetto simbolico delle nostre istituzioni e del nostro vivere sociale, Dalal (1998) si chiede se non sia la capacità di separarsi psicologicamente, esito sano e adattivo dell’amore parentale-filiale, ad essere in contrasto con la capacità di stare nel gruppo in maniera altruistica, come nel gruppo di fratelli e successivamente in quello dei pari.

Fortunatamente, la capacità dei bambini di trarre forza e giovamento dall’identificazione col gruppo non sempre poggia su quella “formazione reattiva” della rivalità diretta alla contesa dell’amore parentale (Coles, 2003).

La naturale tensione fra l’attaccamento del bambino all’adulto e l’attaccamento al gruppo è, riprendendo le parole di Coles (2003), una corda tesa in cui dobbiamo stare in equilibrio.

A farlo ci può aiutare lo sviluppo di quello che Emde (1988) ha definito l’“Io-noi”, riferendosi alla capacità del singolo bambino di pensare come “noi” se stesso in rapporto alla madre.

Promuovere lo sviluppo dell’estensione di questa funzione alla relazione tra fratelli non significa certo l’eliminazione della naturale rivalità che li vede protagonisti,

ma potrebbe rappresentare un importante passo verso il superamento delle strutture edipiche e narcisistiche che, se non chiarite, portano alla visione tanto cara alla moderna società occidentale, che vede nel proprio simile l’Altro da annientare.

In fondo, come sosteneva Freud, non dobbiamo lottare coi nostri complessi per eliminarli, bensì per riconciliarci con essi (Laplanche e Pontalis, 1967).

[1] Iside e Osiride e Dialoghi Delfici. Testo greco a fronte, Plutarco, Ed. Bompiani,

2002.

[2] Typhôn, nella versione fornitaci da Plutarco.

[3] Si ricordi che Eva, quando partorì Caino, disse di lui: “Ho acquistato un uomo con l’aiuto del Signore”. Genesi [4,1-2].

[4] Grimm, Jakob. Le più belle fiabe dei Grimm. Milano, Valentino Editori, 1986.

[5] Bank e Kahn (1982) differenziano i fratelli in quelli ad alto e basso accesso, intendendo coi primi coloro i quali, vista la vicinanza di età, lo stesso sesso o la lunga convivenza, promuovono esperienze di vita in comune. I secondi, a basso accesso, sono coloro i quali o mancano dei prerequisiti di cui godono i primi e quindi non riescono a costruire una consapevolezza di condivisione e aiuto reciproco, oppure, pur avendo tutte le caratteristiche di quelli ad alto accesso, rimangono emotivamente distanti. Questo avviene nelle situazioni in cui i fratelli crescono in condizioni di conflitto create più o meno inconsapevole dai propri genitori, generalmente mediante la “preferenza” verso un figlio e ponendolo

costantemente come modello.

Capodieci, S. (2003), Fratelli & Sorelle. Hänsel e Gretel o Caino e Abele, Milano, San Paolo.

Brunori L. (1996), Gruppo di fratelli, fratelli di gruppo, Roma, Borla.

Chiodi, G. M. (2006), La rivalità tra fratelli come paradigma della conflittualità politica, in Politiche di

Caino. Il paradigma conflittuale del potere, D. Mazzù (a cura di), Ancona-Massa, Transeuropa, pp. 3-50.

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ALLEGATO C: MITI E PENSIERO MITICO

(di Bruno Mori 24/06/2022, tratto da “Adista Documenti” n° 24 del 02/07/2022)

 

Nascita del pensiero mitico 

Oggi, le scienze umanistiche sono unanimi nell’affermare che le religioni, intese nel significato ordinario di istituzioni che determinano, strutturano e organizzano ufficialmente le modalità con cui gli umani si relazionano con il divino, siano creazioni relativamente recenti.

Con questo intendo dire che l’esistenza di una religione, costituita da una struttura organizzativa, con una gerarchia, un potere, sacerdoti, credenze, norme e riti, è un fenomeno che risale all’altro ieri nella storia evolutiva dell’umanità. Gli esseri umani hanno infatti vissuto la maggior parte della esistenza senza “religione” e senza “dio”.

Per più di novantamila anni, le espressioni esteriori del pensiero simbolico e della spiritualità umana, legate al carattere “sacro” e “misterioso” della vita e della realtà cosmica (riti, sacrifici, culti funebri, ecc.), sono state praticate al di fuori di qualsiasi organizzazione religiosa formale e senza alcun riferimento a una o più divinità.

Le scienze antropologiche c’informano che gli uomini del paleolitico non avevano un’idea ben definita di “dio” come quella elaborata dalle culture successive. Possedevano, tuttavia, una profonda sensibilità spirituale e vedevano ovunque la manifestazione del “divino”. Per loro, la natura conteneva un mistero che la rendeva enigmatica e inquietante, ma allo stesso tempo meravigliosa e magica. Sentivano che il mondo era attraversato da un’inspiegabile “Energia” che produceva varietà, diversità, bellezza, movimento e una grande profusione di vita, davanti alla quale non potevano che provare meraviglia, timore, venerazione e gratitudine. Tutto questo era accompagnato da una forte sensazione di essere immersi in una Realtà globale e di fare parte di un “Tutto” che li sostentava con benevolenza e amore.

Se il “divino” è ciò che affascina, ma che rimane incomprensibile e ineffabile; se il “sacro” è ciò che trattiamo con timore, rispetto e venerazione, allora bisogna dire che l’uomo del paleolitico sentiva il mondo come qualcosa di “sacro” e di “divino” e la Natura intorno a lui come una “divina maternità” che offre nutrimento.

In questo mondo e in questa Natura, gli uomini del paleolitico si sentivano come bambini nelle braccia di una Madre cosmica. Questa percezione è confermata da una grande varietà di statuette femminili risalenti a quell’epoca e ritrovate un po’ dovunque dagli archeologi, rappresentanti una Dea-madre dai seni generosi e traboccanti, ai quali gli umani rimangono continuamente sospesi per trarne cibo, forza e vita.

Durante tutto il paleolitico, i raccoglitori e i cacciatori umani vivevano in profonda simbiosi con il mondo naturale, considerato come una Realtà globale di cui erano parte, in cui erano inseriti come in un grembo che genera tutto ciò che esiste e vive e in cui tutti gli esseri viventi rientrano alla fine del loro viaggio terreno. Dalla “madre natura” prendevano solo ciò che era loro necessario per vivere, ma sempre con un senso di riconoscenza e di rispetto per il Mistero che si rivelava ovunque con profusione di potenza, di fecondità e di bellezza.

Per gli uomini primitivi di quel tempo, tutta la Realtà era manifestazione di una Forza “benevola” e “graziosa” che non potevano identificare né nominare, ma che era percepita come qualcosa in perfetta consonanza con gli impulsi e le aspirazioni più profonde del loro essere.

Così per millenni l’umanità ha vissuto in un mondo olistico, indiviso, dove tutto era interconnesso, unito, sacro, divino e umano insieme, dove il cielo toccava la terra e la terra il cielo. Il cielo era quella parte della terra che non si poteva toccare, ma solo contemplare. La terra era quella parte del cielo che si era avvicinata a noi per essere accarezzata e perché noi potessimo meravigliarci della stupenda bellezza di cui era stata rivestita. Tutto era cielo senza terra e terra senza cielo; una terra celeste e un cielo terreno, perché tutto era uno, divino e umano, terreno e celeste, vicino e lontano, spirito materializzato e materia spiritualizzata.

Il Mistero era ovunque. Incomprensibile e inafferrabile, ma attivo, reale, all’opera: impregnava e riempiva del suo Spirito e del suo fascino l’immensità del cielo stellato, lo splendore abbagliante del sole, la chiarezza e le fasi della luna, la freschezza umida del mattino, i rossori accesi e lontani delle sere, il mormorio dei ruscelli, la calma scintillante dei laghi, l’altezza misteriosa e sacra delle montagne, la profondità dei boschi, il brulichio delle savane, l’immensità degli oceani, l’armonia festosa del canto degli uccelli, la tavolozza fantastica e sgargiante dei loro colori, il rombo lontano del tuono e il lampo improvviso in un cielo d’estate...

Ogni cosa possedeva il suo proprio spirito, sicché l’infinità di questi spiriti colonizzava, per così dire, il mondo degli uomini in quel periodo remoto della nostra storia. Tutto era allora “spiritualizzato”, tutto era “sacro”, tutto era “divinizzato”, tutto era espressione di un Mistero che abbracciava ogni elemento, nel quale tutto era immerso e del quale ogni essere e ogni fenomeno erano una parte e una manifestazione.

 

La rivoluzione neolitica

Il passaggio dal paleolitico al neolitico costituisce un vero cambiamento di paradigma nella storia evolutiva dell’umanità. Nel periodo neolitico l’umanità passa da una cultura e una società di cacciatori-raccoglitori a una cultura e società di agricoltori-pastori. Questa transizione costituisce una enorme rivoluzione che implica un cambiamento fondamentale nelle abitudini e negli atteggiamenti umani. Mentre nel paleolitico gli uomini vivevano solo di ciò che la terra offriva loro, nel neolitico essi trasformano, modificano, strutturano e ristrutturano la natura e la geografia del territorio. Addomesticano animali, selezionano piante e frutti tramite innesti e incroci. Prendendo il controllo dei mezzi e delle condizioni della propria esistenza, l’uomo del neolitico diventa l’artefice del suo proprio sviluppo.

Il passaggio all’agricoltura porterà con sé la sedentarizzazione, l’allevamento e l’addomesticamento degli animali, la formazione di villaggi e di città, l’aumento della natalità e quindi della popolazione. Tutti questi fenomeni indurranno la diversificazione delle attività umane, l’accumulo della ricchezza, la formazione della proprietà e di strutture di sfruttamento, di dominio e di potere. Conseguentemente, a partire da questa epoca, appaiono le disuguaglianze, le classi sociali e la scrittura. La scrittura si rivelerà una invenzione geniale e diventerà uno strumento indispensabile per la gestione e l’amministrazione rapida ed efficiente delle risorse umane e della ricchezza.

Questi cambiamenti, avvenuti nel neolitico, saranno così radicali che daranno origine a un mondo fondamentalmente diverso e a nuovi paradigmi, cioè a un nuovo modo di comprendere, d’interpretare e di confrontarsi con la realtà di Dio, del mondo e dell’uomo. I paradigmi cognitivi e le immagini con cui gli umani concepiscono ed esprimono la loro cosmovisione sono ormai di un altro ordine.

Vediamo brevemente i punti salienti di questo cambiamento: 

1. Il mondo naturale del paleolitico, unico luogo della presenza del «divino», è ormai svuotato del suo carattere sacro. Gli “spiriti” e le “divinità” che abitavano e animavano la natura sono espulsi ed esiliati in un altro mondo, situato al di fuori, al di sopra del mondo umano. Ora è il “cielo” ad essere considerato la dimora degli dei e degli spiriti celesti e non più la “terra”.

2. Priva della presenza del divino, la natura cessa d’essere una “Madre” sacra, riverita, meravigliosa e degna d’ammirazione e di rispetto. Diventa ormai una “cosa” profana, materia grezza, opaca, informe, caotica, senz’anima: un insieme di risorse materiali che l’uomo può usare e sfruttare a proprio vantaggio e a proprio piacimento.

3. Il Theós, o l’unico dio che col tempo ha sloggiato e sostituito la moltitudine di divinità che abitavano il cielo, è ora concepito come una individualità personale, maschile, immateriale, come puro spirito che possiede intelligenza e poteri infiniti da usare per mettere ordine nel caos femminile del mondo materiale.

4. Nascono i nuovi miti sulla “creazione” del mondo da parte della parola onnipotente di questa divinità maschile che dispone e regola il funzionamento dell’Universo. La terra e la natura sono definitivamente espropriate delle loro caratteristiche “materne”. Ora è un dio maschio, bellicoso, violento, con poteri illimitati, che tiene nelle sue mani i destini del mondo e dell’umanità. Il potere diventa un atteggiamento e un fenomeno esclusivamente “maschile”.

5. Questa nuova visione degrada la condizione della donna, che perde definitivamente il suo status di icona e di simbolo del carattere “materno”, prodigo, benevolo e sacro della Natura. La donna diventa ora il simbolo di un mondo materiale, pericoloso, disordinato e decaduto. La donna è trasformata in una creatura che deve essere soggiogata e che deve rimanere sottomessa al potere “divino” del maschio. Infatti, “se adesso Dio è maschio, il maschio diventa Dio”. Di conseguenza, il maschio è ora visto come l’essere che detiene il potere, come l’essere che è superiore, come colui al quale la femmina deve obbedire e che egli può trattare e usare come un oggetto o come una proprietà di cui può disporre a piacimento. È la nascita del patriarcato e della sua peggiore espressione: il machismo.

6. L’apparizione in quest’epoca del mito della creazione e la sua diffusa credenza introduce una rottura definitiva nell’unità della visione paleolitica della Realtà, dove il divino, il naturale e l’umano (dio-cosmo-uomo) erano elementi perfettamente integrati di un Tutto universale.

7. A causa del mito della creazione, il dualismo colpisce ora la comprensione umana della Realtà, che viene automaticamente scissa in due poli opposti: cielo e terra, Dio lassù, l’uomo quaggiù. Lassù, il mondo perfetto delle realtà e delle essenze divine e spirituali; quaggiù il mondo imperfetto della materia bruta, pesante, opaca, finita, cattiva, che trattiene e impedisce il volo dell’anima umana verso il cielo di Dio, unico vero luogo di salvezza per l’uomo. Lassù, il mondo della luce, della bellezza, della grazia, della perfezione e della felicità; quaggiù il mondo della bruttezza, del male, dell’imperfezione, della tentazione, della lotta, della sofferenza e di una possibile perdizione.

8. Ora gli uomini non si sentono più parte integrante della natura, che ha perso il suo splendore divino. Non si percepiscono più come provenienti dalla terra, ma come provenienti dal cielo, creati direttamente da Dio. Pensano di essere di origine divina, di possedere i geni di Dio e quindi di essere diversi da tutte le altre creature che vivono sulla faccia della terra. Si considerano gli eredi del cielo, la loro vera casa. Il mondo della materia, in cui gli uomini sono caduti, è visto ora come un mondo inferiore, malvagio, pericoloso, dal quale devono liberarsi e staccarsi per poter spiccare il volo verso la loro vera celeste dimora.

9. A causa della nascita del mito della creazione diretta dell’uomo da parte di Dio, a partire dal neolitico, l’uomo vive con la certezza d’essere una creatura superiore a tutte le altre creature terrestri. Si è convinto di essere il padrone e il signore assoluto del mondo; di avere quindi il diritto – e il potere – di disporne a suo piacimento e di sfruttare senza riguardi e senza ritegni le risorse naturali del pianeta (considerate illimitate) per soddisfare i suoi bisogni e la sua altrettanto illimitata avidità.

Dal neolitico in poi, questo insieme di affermazioni ha costituito il bagaglio cognitivo di base della società umana, funzionando come un insieme di evidenze, di verità assolute, di assiomi indiscutibili, di a priori necessari e indispensabili agli uomini per capirsi, dialogare e comunicare tra loro. In una parola, le affermazioni sopra menzionate hanno costituito i paradigmi di comprensione della Realtà che hanno governato la storia dell’umanità, almeno in Occidente e nel Medio Oriente durante gli ultimi quindicimila anni.

È soprattutto attraverso la religione giudeo-cristiana (che ha adottato integralmente questi paradigmi) che la visione neolitica della Realtà è giunta fino a noi. Il giudeo-cristianesimo ha introdotto questa concezione tanto nella composizione e nel contenuto dei suoi libri sacri, quanto nella formulazione delle sue credenze, delle sue dottrine e dei suoi dogmi, diventando, in Occidente, il principale catalizzatore della cosmovisione mitica antica. E ciò non solo mantenendola in vita fino all’epoca moderna, ma continuando oggi ancora a imporla all’adesione obbligatoria dei suoi fedeli.

Come se ciò non bastasse, la religione cristiana, nel corso della sua evoluzione storica, ha contribuito enormemente alla creazione di un gran numero di variazioni sui contenuti e sui temi di fondo delle antiche credenze mitiche, creando nuovi miti e nuove credenze, ampliando così ulteriormente la gamma di “verità” mitiche cui credere. (...).

 

La nascita delle religioni 

Oggi sappiamo che le religioni non sono sempre esistite. Dalle scienze umane sappiamo che gli esseri umani hanno fatto a meno delle religioni per la maggior parte della loro presenza su questo pianeta. Oggi, gli antropologi sono inclini ad affermare che questa epoca senza religione fu il tempo più felice e più “spirituale” dell’umanità. Nella storia evolutiva dell’umanità, le religioni sono quindi un fenomeno culturale e sociale recentissimo.

Siamo anche ben informati sull’origine delle religioni nella storia dell’umanità. Queste nuove conoscenze e informazioni sulle religioni come fenomeno spirituale, ma soprattutto come fenomeno sociale e culturale che ha strutturato e scritto la storia delle civiltà fino ai giorni nostri, stanno ora producendo profondi cambiamenti nella percezione moderna delle religioni e negli atteggiamenti degli individui nei loro confronti.

Le conclusioni delle scienze antropologiche sulle religioni possono essere riassunte in quattro affermazioni fondamentali:

- Le religioni non sono sempre esistite, ma sono invenzioni e prodotti umani, con origini che, a grandi linee, possono essere collocate storicamente e datate.

- Le religioni si sono formate nel periodo neolitico.

- Dal neolitico ai tempi moderni, le società sono state fondamentalmente società “religiose”.

- Le religioni possono essere utili, ma non sono indispensabili.

Se ci basiamo su queste conclusioni, possiamo affermare che le religioni, con la loro tipica configurazione ideologica, etica e cultuale, sono sorte durante l’era neolitica, con la sedentarizzazione delle popolazioni, l’agricoltura, l’addomesticamento e l’allevamento degli animali, l’introduzione della proprietà privata, l’accumulo di beni, la nascita della ricchezza e del potere che essa conferisce, la formazione dei grandi agglomerati urbani e delle strutture necessarie per organizzare e ordinare la convivenza umana (città, nazioni, imperi). Tutte queste trasformazioni, con gli innumerevoli problemi che hanno creato (disuguaglianza, ingiustizia, sfruttamento, crimine, violenza, ecc.), hanno portato con sé la necessità d’introdurre regole di comportamento per rendere possibile la vita sociale.

Si potrebbe quasi affermare che all’inizio le religioni fornivano più norme sociali e politiche che regole religiose. In quei tempi di profondi e spesso radicali cambiamenti, le religioni furono capaci di creare e di elaborare i principi e le norme che dovevano regolare il comportamento etico e civile degli individui, rendendo possibile una convivenza umana ordinata e relativamente pacifica. Esse furono soprattutto in grado d’imporre e assicurare l’osservanza di queste norme e leggi, conferendo loro il carattere di “comandamenti divini”, la cui trasgressione avrebbe comportato esclusione e castighi da parte degli dei (Codice di Hammurabi; le tavole della Legge o Dieci Comandamenti dati da Dio a Mosè sul monte Sinai).

Fin dall’antichità, quindi, le religioni si sono presentate e si sono imposte come strutture autoritarie, create principalmente per soddisfare le esigenze di ordine, di coesione, di sicurezza e di pace all’interno dei grandi agglomerati umani e urbani in formazione.

All’epoca delle grandi civiltà, cioè intorno al 5000 a.C., le religioni avevano già acquisito la loro tipica configurazione d’istituzioni sacre, che si presentano non solo come intermediarie tra l’uomo e la divinità, ma soprattutto come portavoce delle richieste e della volontà degli dei. Esse fornivano dunque non solo le norme di un buon comportamento sociale e individuale, ma anche tutta la conoscenza e le risposte (sul mondo, la natura e gli dèi) di cui gli uomini avevano bisogno per vivere e dare un senso alla loro esistenza.

La funzione normativa e regolatrice che le religioni hanno svolto nel periodo neolitico ha contribuito in maniera decisiva a consolidare la loro autorità e il loro potere. In quelle epoche primitive, le persone ignoranti, ingenue, insicure, smarrite, indifese, continuamente esposte ai pericoli e alle minacce provenienti dal mondo naturale e dal mondo umano, si affidavano e si sottomettevano volentieri a una istituzione “sacra” che offriva loro guida, protezione e sicurezza, che creava speranza e prometteva salvezza. A questa povera gente la religione proponeva innumerevoli e incantevoli storie sulle straordinarie imprese di eroi divini, che vivevano lassù, nelle misteriose e inaccessibili profondità dei cieli ma che potevano “volare” in soccorso dei miseri mortali.

La religione si presenta così come una struttura organizzativa inventata dall’uomo alla quale si riconosce un’autorità e un potere. La religione non viene da Dio, non è eterna e non può imporsi come fosse l’autorità ultima e assoluta. È sempre ed essenzialmente un sistema direttivo e orientativo, di sostegno creato dall’uomo, che esiste in funzione dell’uomo e per l’uomo allo scopo di aiutarlo ad attraversare più facilmente e più serenamente le prove e le difficoltà della vita.

Possiamo affermare che, nelle regioni del Medio Oriente e del bacino del Mediterraneo, il patrimonio mitico di base delle religioni, con la sua rappresentazione simbolica e la sua formulazione teorica stabile e quasi universale, era praticamente già formato quattromila anni prima della nostra era.

Gli antichi scribi ebrei (VII secolo a.C.) non dovettero fare altro che inserire questo patrimonio religioso esistente nella composizione dei loro scritti “sacri” (la Bibbia), adattandolo alle esigenze dei tempi, della loro cultura, delle loro credenze e dei loro propositi. Attraverso la Bibbia ebraica, gli antichi miti, insieme alla cosmologia che sottintendevano, entrarono nella religione giudeocristiana e, attraverso di essa, giunsero fino a noi e ai pulpiti delle nostre chiese.

In sostanza, i contenuti di base delle religioni delle antiche civiltà della “mezzaluna fertile” del Medio Oriente e del bacino del Mediterraneo (Sumeri, Egitto, Israele, Grecia) erano ormai basate sull’adorazione di divinità prevalentemente maschili, le quali sostituirono definitivamente le divinità femminili, la grande Dea madre, delle epoche precedenti (paleolitico). In questo stesso periodo nascevano nel lontano Oriente le grandi religioni classiche dell’Induismo, del Confucianesimo e del Buddismo.

Per usare un paragone ed un termine del linguaggio informatico moderno che prendo in prestito da José María Vigil, possiamo dire che la religione è stata il motore del “sistema operativo” delle società antiche; con la sua influenza, il suo prestigio quasi divino, il suo potere, la sua autorità indiscutibile, le sue credenze, i suoi miti, i suoi dogmi, le sue leggi, la sua morale, e persino i suoi metodi inquisitoriali di sorveglianza, di controllo, d’imposizione e di sanzione, la religione ha esercitato per secoli la funzione di “software” che programmava ogni società.

Si può quindi dire che, dall’antichità fino al XIV secolo d.C. (la fine del Medioevo), religione e cultura coincisero. La cultura era solo religiosa e la religione era l’unica forma possibile di cultura. Questo è ancora ciò che succede oggi in molti Paesi islamici. Ciò significa che la religione ha permeato e modellato tutti gli aspetti, le attività e le strutture della società: la cultura, le conoscenze, la fede, la politica, il diritto, le arti, la coesione sociale, i sentimenti di identità e di appartenenza dei suoi membri, le loro cosmovisioni... Paul Tillich ha detto che nelle società antiche «la cultura è stata la forma della religione e la religione è stata l’anima della cultura».

Le religioni, nate per organizzare e guidare la società umana, hanno però accompagnato l’umanità solo durante un breve periodo della sua storia evolutiva: potremmo dire durante quella fase particolarmente critica e pericolosa della sua fanciullezza, della sua crescita e del suo passaggio dall’ingenuità e dalla credulità dell’infanzia al raziocinio, alla consapevolezza e allo sguardo critico dell’età adulta.

Oggi, le scienze umane sembrano concordare sul fatto che le religioni “neolitiche” hanno definitivamente completato il loro compito sia di “genitori”, sia di fantasiosi narratori, sia di educatori severi e autoritari. I bambini di un tempo, divenuti adulti colti, intrepidi e indipendenti, non hanno più bisogno di essere guidati dalla presenza dei loro genitori, né di essere rassicurati dalle favole della mamma. Ecco perché ai nostri giorni queste religioni sono diventate totalmente obsolete.