Oggi alle ore 18 incontro di preghiera on line della nostra comunità
vi inviamo
la traccia dell’incontro di preghiera on line che si terrà oggi, martedì 16
luglio, alle ore 18, organizzato dalla CdB di
Pinerolo di Via Città di Gap e condotto da Sergio sulla traccia di martedì
scorso.
Questo è il LINK per il collegamento (attivo dalle 17:45):
INCONTRO BIBLICO DEL 16
LUGLIO 2024
RACCONTI MITICI NELLA BIBBIA
GENESI CAP.4, 1-16 CAINO E ABELE
Ecco qui un racconto
che non è certo storico e non va interpretato neppure con il metodo
storico-critico che non ci porta da nessuna parte, ma va letto con la
psicologia del profondo e con le basi di un racconto mitico simile e comune ad
altre epoche, culture, religioni, popolazioni (Drewerman psicologia del
profondo e esegesi vol.1).
Nell’interpretazione di
mons. Ravasi ci sono spunti interessanti, ma si rimane nel solco interpretativo
storico-critico-esegetico tradizionalista. (vedi allegato A)
Il racconto mitico di
due fratelli in antagonismo è un classico di altre storie.
(vedi allegato B)
I racconti
mitici/archetipi vogliono far passare storie e domande complesse sulla vita, la
morte, valori profondi, spiritualità etc. in maniera più semplice/capibile da
tutti e tramandare da generazione a generazione il significato che il racconto
vuole veicolare che può variare nei secoli/millenni a seconda della percezione
dell’ascoltatore.
Abele è un pastore
nomade non stanziale, potrebbe raffigurare la figura dell’uomo
cacciatore/raccoglitore nomade per sua stessa natura e raffigurante i primi
Neanderthal/Sapiens che si spostavano per la propria sussistenza, non incline
al possesso, alla guerra tra tribù, con famiglia “leggera” per spostarsi
velocemente; mentre Caino è un agricoltore stanziale, legato alla terra e alla
casa e raffigurante i Sapiens che dopo essere riusciti a domare cavalli (tribù
siberiane) e cammelli (tribù arabe) si sono rafforzati negli spostamenti, nel
rubate a tribù limitrofe, portare via donne dalle stesse tribù per avere più
popolazione e più potere di conquista e convertirsi all’agricoltura, quindi
possesso del proprio territorio e necessità di difenderlo da predatori con le
armi.
Gli Abele vivono in
capanne circolari facilmente smontabili e trasportabili e limitate di
dimensioni all’accumulo del cibo “quotidiano”, i Caino trasformano le tende in
case di terra/mattone quadrate, solide e idonee per “immagazzinare” scorte
alimentari per i tempi più duri.
Gli Abele vivono
immersi nella natura e la loro spiritualità è rivolta alla terra e ai fenomeni
che da essa fuoriescono, la terra e la natura sono esseri femminili e la loro
spiritualità si rivolge alla Dea Madre, famiglie con pochi figli piccoli
facilmente trasportabili diretti e concertati da una matriarca, non conoscono
l’uso della guerra, mente i Caino cominciano a “usare” la natura per il proprio
benessere, hanno bisogno di grande forza lavoro per i campi e per
difendersi/attaccare quindi famiglie numerose con la donna che rimane fissa in
casa e l’uomo più idoneo a cavalcare e alla guerra prende il sopravvento come
patriarca e anche l’immagine della Dea si trasforma nel maschio Dio.
Questo passaggio di
vita può essere durato un paio di migliaia di anni assimilato gradualmente e
sancito/stimolato/gratificato/imposto dal potere di comando
(sacerdotale/regale) anche con racconti come questo della Bibbia e questo
potrebbe farci capire la strana scelta di Dio che predilige il lavoro ed il
raccolto di un solo fratello portandolo all’ira verso l’altro e
all’omicidio/morte/scomparsa. Anche per questo motivo l’assassino non viene
punito ma può trasferirsi tranquillamente al nord per dare vita ad una nuova
stirpe. Interessante la simbologia dei quattro punti cardinali data dalle
popolazioni dell’epoca: Ovest = morte (tramonto del sole), Est=rinascita
(sempre del sole), Nord=potere, Sud=azione.
Per capire questo
genere di immagini si deve partire dall’idea che gli avvenimenti narrati spesso
hanno abbracciato o possono aver abbracciato anni nella vita del singolo
individuo, secoli nella vita di un popolo e millenni in quella dell’umanità.
Nel racconto dei primi agricoltori e pastori di Gen.4 può valere la
constatazione che qui, nella prospettiva storico-culturale dell’evoluzione
dell’umanità, un periodo di almeno alcuni millenni di evoluzione della civiltà,
durante la così detta rivoluzione del neolitico, viene concentrato in singole
figure umane e in singolo momento. (Drewermann pag.186)
Nel racconto appare
anche un altro spunto interessante stratificato da forse precedenti racconti:”
Il Signore disse allora a Caino: ‘perché ti sei acceso d’ira e perché il tuo
volto è abbattuto? Non è forse vero che se agisci bene c’è elevazione mentre se
non agisci bene, è alla porta il Maligno, come un Robles; esso si sforza di
conquistare te, ma sei tu che lo devi dominare?’. Interessante apertura
all’animo umano che racchiude contemporaneamente il bene e il male e sta
all’essere umano sforzarsi di sconfiggere il male che è sempre accucciato fuori
dalla porta (del cuore) pronto a prendere il sopravvento come un Robles (figura
maligna proveniente da idee mesopotamiche/assire. E questo archetipo di
racconto apre ad un’interpretazione più personalizzata, intimistica/psicologica.
Una riflessione di
Bruno Mori sui miti e il pensiero mitico legato alla spiritualità e alla
religione è un po’ lungo ma mi sembra che ben si inserisca nel discorso
iniziato la scorsa settimana da Anna Campora (che non avrà mai un punto
fermo!!!!)
(vedi allegato C)
ALLEGATO
A: CAINO E ABELE, FRATELLI - COLTELLI
(di Gianfranco
Ravasi, cardinale arcivescovo e biblista)
Era
felice Eva quando aveva dato alla luce il suo primogenito: «Ho acquistato un
uomo grazie al Signore!». E il nome dato al bambino, Qajin-Caino, voleva
liberamente ricalcare proprio il verbo “acquistare”, in ebraico qanah, secondo
una locuzione in uso anche in alcune forme dialettali contemporanee che parlano
di “comperare un figlio” non in senso mercantile ma generativo.
Poco dopo Eva partoriva un secondo figlio, il
cui nome Abele avrebbe riassunto in ebraico la sua tragica storia: habel/hebel,
vocabolo caro al sapiente biblico Qohelet, allude al soffio, al fumo che
evapora e svanisce.
Nella
nostra ideale galleria di figure bibliche giovanili non poteva mancare questa
coppia di fratelli, la cui vicenda purtroppo spesso si ripete nelle infinite
violenze nascoste all’interno delle pareti domestiche.
In
realtà in questi due personaggi non si annida solo il contrasto familiare,
quello che per assonanza è proverbialmente detto lo scontro tra
fratelli-coltelli. I due, infatti, incarnano anche professioni e stati di vita
diversi e non di rado ostili anche oggi.
Caino
(il cui nome in verità può significare “lavorare il metallo”) è un sedentario,
un agricoltore, anzi, sarà il primo costruttore di città. Abele, invece, è un
nomade, un pastore errante negli spazi liberi.
Tra
queste due visioni di vita scatta uno “scontro di civiltà”, ma alla radice c’è
proprio la violenza giovanile e familiare che sfocia in un fratricidio.
Il tutto è narrato in una pagina, il capitolo
4 della Genesi, considerata un archetipo emblematico di tante storie che hanno
striato di sangue l’umanità.
Noi
ora ci soffermiamo solo su due componenti. La prima riguarda la causa di questa
tensione che l’autore sacro esprime con la frase: «Dio gradiva Abele e la sua
offerta» (4,4). La locuzione non deve far pensare a una parzialità divina, ma
al fatto che con essa si definisce la prosperità, la serenità e la pace di una
persona.
Caino
reagisce con gelosia al successo del fratello, nonostante il suo stato di vita
così libero e ai suoi occhi disordinato: «Ne fu molto irritato e il suo volto
era abbattuto» (4,5). Ancora una volta è l’invidia per i beni e la felicità
dell’altro a rodere il cuore e a far covare un fuoco che poi esplode nell’atto
inconsulto dell’assassinio. Infatti, il demone dell’odio prevale e sul terreno
rimane un cadavere il cui sangue cola e sollecita l’intervento del testimone
invisibile di quel delitto, cioè Dio che fa risuonare il suo rimprovero nella
coscienza di Caino: «Dov’è Abele, tuo fratello?... La voce del sangue di tuo
fratello grida a me dal suolo!»(4,9-10). Subentra, allora, la pena del
contrappasso: Caino che detestava lo stile di vita nomade del fratello, è
costretto ad abbandonare la sua terra e la sua casa divenendo «ramingo e
fuggiasco» (4,12).
È
qui che si introduce un secondo elemento. Il Signore assume sotto la sua
personale giurisdizione il peccatore: «Chiunque ucciderà Caino subirà la
vendetta sette volte! Il Signore impose a Caino un segno perché non lo colpisse
chiunque lo avesse incontrato» (4,15). Forse in questo “segno” ci si riferisce
a un tatuaggio o alle acconciature dei capelli o alle insegne che nell’antico
Vicino Oriente
contraddistinguevano
le tribù e i clan. Qui si alluderebbe all’emblema che contrassegnava i Qeniti,
una tribù considerata discendente da Caino.
Tuttavia
la lezione finale è chiara: la giustizia divina deve fare il suo corso, ma
l’ultimo atto non è nella condanna a morte, bensì nell’attesa di una
conversione.
Dio
che è l’arbitro della vita e della morte, anche di fronte a crimini efferati
come quello perpetrato da questo giovane, ripete: «Io non godo della morte di
chi muore... ma piuttosto che il malvagio desista dalla sua condotta e viva»
(Ezechiele 18,23.32).
ALLEGATO
B: IL LEGAME FRATERNO NEI MITI E NELLE FIABE
I
miti
I
miti riflettono il sentire morale dei popoli lungo il corso della loro storia.
Essi sono i “depositari/trasmettitori” dell’insieme di valori e di modelli di
comportamento che ha adottato l’uomo nei differenti periodi storici.
Inoltre,
essi operano come soluzione di problemi cosmogonici, spirituali e sociali e
formano
parte della temporalità dell’atto, che fa sì che tutto il tempo passato sia un
presente possibile.
Mythos
ha in Omero il significato di “parola”, “discorso”, mentre, in ambito
filosofico, acquisisce il significato di “racconto che non necessita di
dimostrazione”, in contrapposizione a lógos, che designa un’argomentazione
razionale (Capodieci, 2003).
Esso
pone i significanti chiave nella fondazione della cultura che gli è propria,
essendo un tessuto di rappresentazioni immaginarie del mondo intorno al
quale
ogni insieme sociale si organizza.
Il
valore dell’esperienza fraterna traspare dal mito, che non fu semplice
espressione poetica, ma fattore basilare per il fiorire di civiltà come quella
egizia o greca.
I miti non sono, infatti, inventati da un
singolo poeta, ma questo li trova già pronti nella memoria collettiva del
popolo a cui appartiene (Capodieci,2003).
Il
mito è uno dei principali strumenti deputati alla trasmissione e
all’insegnamento delle regole sociali.
Esso
è inoltre un modo di pensare che si sviluppa non attraverso schemi logici, ma
per immagini.
Come
ha ampiamente dimostrato la psicoanalisi, il pensiero mitico non è solo
esclusiva delle civiltà arcaiche, ma sussiste in ogni individuo come schema
profondo della mente: il sogno ne è la dimostrazione, in quanto si riconosce in
esso non solo il linguaggio visivo ed immaginario, ma anche lo stretto legame
esistente tra vita psichica inconscia ed elementi costitutivi del mito
(simboli, rituali,metafore).
Diverse
sono le spiegazioni mitologiche alla base della fondazione del sociale e molte
di esse pongono all’origine dei rapporti collettivi la relazione fraterna
dispiegata in un continuum che va dall’estrema rivalità, con pulsioni omicide,
all’abnegazione della propria individualità a favore del fratello.
Numerosi
sono gli scritti e le interpretazioni riguardanti le varie mitologie fondanti
la realtà sociale, molti dei quali però esulano dal modesto scopo di questo
elaborato o richiederebbero una trattazione più ampia, perciò, questa breve
sintesi si soffermerà solo su alcuni aspetti di quei miti considerati i più
conosciuti oltre che, ovviamente, i più significativi ai fini del nostro tema
d’indagine.
Fra
i miti più noti dell’antichità, aventi come trama il tema della rivalità
fraterna, troviamo quello egizio di Osiride.
Nell’Iside
e Osiride di Plutarco[1], Set[2] uccide
suo fratello per invidia, essendo Osiride il primogenito amato e stimato da
tutti.
Osiride,
diventato in questo modo il signore dell’oltretomba, verrà ricomposto nei suoi
pezzi smembrati da Iside, sua sorella-sposa.
Dalla
loro unione incestuosa verrà alla luce Horo, il dio falco, il quale altro non
sarà che Osiride in vita, ripetendo così lo schema caro agli egizi della
nascita e della rigenerazione.
Pur
potendo includere elementi edipici nella vicenda di Osiride-Horo e Set (il
padre che genera il figlio e il figlio che in sé genera il padre), non si
riscontra in essa alcun richiamo al senso di colpa derivante dall’uccisione del
padre (Brunori, 1996).
Horo,
essendo anche Osiride, è dunque fratello di Set, e su questo fratello egli si
vendicherà, evirandolo.
Set,
l’uguale e conflittuale di Horo-Osiride, rappresenta dunque il fratello
portatore della stirpe alternativa a quella di Horo.
In
questo dramma, il faraone, somma figura teologica, oltre ad essere
l’impersonificazione di Horo e quindi l’eviratore del fratricida Set, è per gli
egizi anche Osiride, vittima del fratricidio e portatore in sé dell’ambivalenza
dei sentimenti fraterni: la rivalità (Osiride-Horo e Set) e l’unione fraterna
(Osiride e
Iside)
divengono così elementi complementari finalizzati ad una nuova generazione e
individuazione
(Horo-faraone).
Se
nel mito egizio si riscontrano elementi di unione profonda e contrasti
connotati edipicamente, nel mito greco e latino si trovano storie di destini
condivisi tra i fratelli e sovente risalta la supremazia di un fratello
sull’altro.
Tuttavia,
mentre nella cultura latina la rivalità fraterna si conclude con la vittoria
di
uno dei due contendenti, il conflitto greco tra fratelli lega entrambi ad una
sorte comune.
Basti
pensare al mito della fondazione di Roma: entrambi i gemelli, Romolo e Remo, di
fronte all’uguaglianza delle origini (entrambi figli di un dio, Marte) e posti
di fronte alle stesse condizioni alla nascita (allevati dalla lupa), avranno
differenti destini.
Uno
di essi fonderà uno dei più grandi imperi della storia dell’uomo, l’altro non
avrà che solenni funerali.
Come
fa notare Brunori (1996), la rappresentazione iconografica dei gemelli li
mostra innocenti, ancora bambini e allattati dalla lupa.
Ignora
completamente i fatti di sangue che stanno alla base della fondazione della
città, come a voler mantenere una visione fraterna di unione.
È
una visione che, peraltro, esiste realmente nel mito: Romolo è inseparabilmente
legato a suo fratello (accorre per liberarlo dalle guardie di re Amulio e,
insieme, riescono a spodestarlo) fino al momento della fondazione di Roma.
I
fratelli, tuttavia, non possono spartirsi il potere, ma solo uno, incarnando il paradigma
della rivalità mimetica, può elevarsi al ruolo di padre di Roma.
La
condivisione dei destini dei fratelli nella mitologia greca si evidenzia nel
mito di Eteocle e Polinice, figli di Edipo e Giocasta, che scacciano il padre
una volta scoperta la loro origine incestuosa.
La
maledizione di Edipo si abbatterà sui due fratelli avverandosi nella loro morte
per loro stessa mano, nella guerra che li vedrà avversari per dominare su Tebe.
Pure
i fratelli Atreo e Tieste sono vittime di rivalità violenta per la conquista
del titolo regale, che si ripercuoterà successivamente in un ciclo di vendette
reciproche per molte generazioni.
In
modo analogo, i gemelli Castore e Polluce, gli inseparabili guerrieri
conosciuti anche col nome di Dioscuri, si troveranno coinvolti in battaglia
contro un’altra coppia di fratelli, i loro cugini Ida e Linceo.
Alla
morte in battaglia di Castore, il gemello Polluce, per condividere la sorte del
fratello anche nel mondo delle ombre, rinuncerà alla sua immortalità e quindi
all’ascesa al cielo degli dei.
Zeus,
ricompensando il loro amore, concederà loro la possibilità di stare insieme un
giorno in cielo e un giorno sotto terra e porrà la loro immagine nel cielo,
come costellazione dei Gemelli.
La
vicenda di Castore e Polluce evidenzia «l’eccellenza della gemellarità su ogni
altra forma di legame fraterno» (Brunori, 1996, p. 31).
Nella
tradizione ebraica il racconto fraterno si dispiega, al contrario, all’interno
di un sistema patriarcale attraverso il quale il padre trasmette la sua
autorità ad uno dei figli, generalmente il primogenito, anche se dai miti
risulta che le preferenze affettive del padre possono far variare tale regola.
La
gelosia e la rivalità fraterna si manifestano, perciò, nei confronti del
fratello che potrebbe beneficiare della preferenza del padre.
Interessante
anche notare che il fratricidio è perpetuato, contrariamente al mito egizio, ad
opera del primogenito, come ad indicare l’instabilità del modello, la
problematicità
dell’imprevisto (Chiodi, 2006).
Secondo
la Genesi [4, 1-16] il primo uomo nato sulla terra, Caino, commette un
fratricidio, che è anche il primo omicidio, verso suo fratello minore Abele.
In
questo episodio biblico, il motivo della contesa è la preferenza di Dio per
Abele, la quale, seppur in qualche modo giustificata dalla volontà divina,
rimane incomprensibile per Caino.
Bisogna
però considerare che la rivolta di Caino e l’uccisione del fratello,
apparentemente non è diretta contro il padre e, tantomeno, come osserva Chiodi
(2003), mira a prenderne il posto.
Il
mito di Caino e Abele sembra più completo e penetrante dei precedenti, in
quanto
contempla entrambe le coordinate, orizzontale e verticale, rispetto ai miti
precedentemente esposti.
Inglobando
anche il modello padre-figlio, esso può infatti essere rappresentato sotto
forma di triangolo, in cui ad un vertice si colloca il padre, l’oggetto della
contesa, e agli altri due si collocano i fratelli, i soggetti che la attuano.
Abele
è il modello da seguire e l’invidia di Caino non sfugge agli occhi di Dio: «[…]
il peccato è accovacciato alla tua porta; verso di te è la sua bramosia, ma tu
dominala» (Genesi [4,7]) è il suo monito.
Come
sostiene Fornari (2006), il modello e chi lo imita vogliono la stessa cosa,
perciò ne scaturisce una naturale rivalità, dove chi imita vuole essere il
modello e dove quest’ultimo diventa il nemico da eliminare.
La
violenza di Caino è perciò da vedere come la degenerazione di quell’imitazione
con cui l’uomo apprendere a costruire la propria identità (Fornari, 2006).
Anguinis
(1988) e Kancyper (2003) ipotizzano che, sebbene a livello manifesto Caino non
uccida Dio, di fatto però egli uccide l’uomo da lui creato a sua immagine e
somiglianza.
Ciò
fa pensare ad uno spostamento sul fratello dell’ostilità repressa e mette in
evidenza uno dei più importanti conflitti del sistema narcisistico
genitoriale-filiale.
Secondo
Kancyper:«[…] tale conflitto si collega al mutuo e cruciale paradosso della
mortalità/immortalità […] che si accentua in modo particolare rispetto al
primogenito.
Da
una parte infatti il primogenito garantisce al padre la continuità della vita,
e dunque in un certo senso la sua immortalità.
Ma
dall’altra parte gli annuncia l’arrivo di una nuova generazione e dunque anche
la morte» (Kancyper, 2003, p. 262).
Questo
ci introduce all’ambivalenza di sentimenti del padre nei confronti del figlio:
amore verso il figlio, in quanto portatore della sua immortalità, e desideri di
annientamento, come negazione della propria mortalità.
Andacht
(1994) crede che l’azione cruenta di Caino sia da ricondurre all’ingiustizia di
Dio padre.
In
fondo, egli era il primogenito, le sue offerte erano paragonabili a quelle di
suo fratello e, essendo la sua nascita da ricondurre a quel tipo di
accoppiamento con forze divine che nei miti generano di solito eroi (Kancyper,
2003), egli può essere considerato di stirpe divina[3].
In
questo senso, perciò, il mito è interpretabile come la mancanza, l’eccesso e/o
l’arbitrarietà delle funzioni genitoriali che promuovono le fantasie di ordine
fratricida (Kancyper, 2003).
Le
fiabe
Malgrado
la fiaba non sia uno strumento che ci mette a contatto diretto con le
rappresentazioni collettive di tipo inconscio, essa ci permette «un incontro mediato
che agevola l’accettazione e la possibilità di una ricerca autonoma di risposte
attraverso la fantasia stimolata proprio dalla narrazione» (Brunori, 1996, p.
40).
Propp
(1949), studiando le fiabe da un punto di vista antropologico, ha letto tracce
di antichi riti di iniziazione.
In
effetti, vi si scorge l’antico schema di distacco dalla famiglia, il
superamento di certe prove e il ritorno con l’inserimento nella comunità degli
adulti da parte degli adolescenti delle società primitive.
D’accordo
o meno con questa ipotesi, dobbiamo però riconoscere alla fiaba una sua
intrinseca veridicità, nel senso che riproduce in maniera schematica una serie
di situazioni che si riscontrano nel quotidiano: la spaccatura sociale tra
ricchi e poveri, il bipolarismo di sentimenti positivi – negativi, la vita
intesa come un succedersi di difficoltà da superare e il desiderio di essere
artefici del proprio destino senza cadere preda degli incantesimi, ovvero dei
condizionamenti limitanti la libertà individuale
(Capodieci,
2003).
In
questo contesto, il rapporto fraterno fa da filo conduttore per molti racconti.
In
particolar modo, alcune fiabe dei fratelli Grimm[4] si
prestano bene per mettere in luce le dinamiche psicologiche del rapporto
triangolare madre-bambino-fratello.
Così,
nella fiaba Fratellino e Sorellina due bambini riescono a salvarsi dalla loro
matrigna-strega grazie alla loro unione e amore reciproci.
In
Cenerentola e in Occhietto, Dueocchietti, Treocchietti invece, sul rapporto già
deleterio con la matrigna grava una situazione di rivalità estrema con le
sorelle.
Ad
ogni modo, in tutte e tre le fiabe, a questi bambini viene impedita la
possibilità di identificazione e d’imitazione di una madre affettuosa, la quale
è spesso sostituita nel racconto fiabesco con la figura della matrigna cattiva,
segno di come si attribuisca malvolentieri questo aspetto materno alle madri
biologiche (Petri, 1994).
Nella
fiaba Fratellino e Sorellina si può individuare un’importante funzione
protettiva ricoperta da Sorellina, la quale, facendo sì che suo fratello non
beva dalle fontane avvelenate dalla matrigna, ne contiene le forze impulsive
prive di controllo (Petri, 1994) e si sostituisce in questo modo alle funzioni
psichiche superiori dell’Io non ancora pienamente sviluppate nel fratello
(Bettelheim, 1977).
Fratello
e sorella possono così svolgere quella funzione di sostegno nel processo di
maturazione dell’individuo, indispensabile per resistere all’attrazione verso
la regressione e verso l’indifferenziazione, aiutandolo nella costruzione di
una identità adulta (Brunori, 1996) senza sentire sempre il sostegno
rassicurante di un adulto onnipotente e inimitabile, con il quale non sarebbe
possibile elaborare un’autonomia strutturata dell’Io (Bettelheim, 1977).
L’amore
tra i due fratelli in questa fiaba è in primo piano e addirittura filtra quello
di Sorellina verso il suo sposo-Re (Brunori, 1996).
Questa
interpretazione troverebbe conferma nell’attuale linea di pensiero che vede la
relazione fraterna come agente transizionale tra la famiglia e le realtà
extrafamiliari: si pensi, per esempio, agli studi che confermano l’influenza
fraterna sulle future relazioni extrafamiliari e sulla scelta del partner
(Toman, 1971, 1988; Brunori & De Nunzio, 1999).
Gli
altri due racconti invece aggiungono, nell’ambito fiabesco, il problema
dell’antagonismo con i fratelli.
Ora,
se è vero che la «rivalità fraterna censurata si realizza come una sindrome
minore di melanconia» (Brunori, 1996, p. 50), possiamo vedere
nell’atteggiamento di inferiorità e di colpevolezza di Cenerentola quella
tendenza che Corman (1970) spiega come masochistica, dovuta al rivolgimento
delle pulsioni aggressive contro il Sé.
È
evidente che Cenerentola e le sue sorellastre vivono ciò che Bank e Kahn (1982)
chiamano un rapporto a “basso accesso”[5] e
che la sottomissione e accondiscendenza dell’una e la manifesta aggressività e
invidia delle altre, sono da ricondurre ad una situazione di reciproca
rivalità, indotta dall’atteggiamento genitoriale di preferenza.
A
questo proposito, Brusset (1987) scrive:
«nell’appropriarsi
della porzione migliore del progetto identificatorio genitoriale, il figlio
prediletto si trasforma così in fratello usurpatore.
Questa
condizione genera rivalità, gelosie ed invidie […].
Il
figlio prediletto spoglia così il fratello delle potenzialità necessarie per
realizzarsi come individuo […]» (Kancyper, 2003, p. 265-6).
La
terza fiaba qui brevemente esaminata, ovvero Occhietto, Dueocchietti,
Treocchietti, ci pone di fronte all’influsso dell’ordine di genitura sulla
condizione fraterna.
La
secondogenita, Dueocchietti, viene emarginata dalla madre tiranna e dalle sue
stesse sorelle per la sua diversità, identificata col fatto di avere “soltanto”
due occhi, come la gente “ordinaria”.
Qui,
la dinamica di emarginazione che permea la storia può essere paragonata,
secondo Brunori (1996), al conformismo adolescenziale a certi stereotipi
di
comportamento, finalizzati all’accettazione dell’individuo nel gruppo.
Essendo
l’eroina della fiaba una secondogenita, ella racchiude in sé sia il ruolo di
maggiore sia quello di minore.
Questo
sembrerebbe fungere da fattore protettivo nei confronti del rischio di una
radicalizzazione nei pattern di comportamento stereotipici (Brunori, 1996),
condizione di cui le altre sorelle non potrebbero usufruire.
La
deformità visiva di Occhietto e Treocchietti risulterebbe metafora di una
visione distorta della realtà e, malgrado Dueocchietti sia più protetta
dall’incasellamento in ruoli stereotipati, come quello del primogenito o come
quello della sorella minore, vive però delle conseguenze affettivo-relazionali
dovute all’indeterminatezza del suo ruolo e all’incapacità di riconoscersi in
un modello.
Nella
dinamica familiare di questa storia avviene ciò che Dunn (1984) descrive come
il frazionamento dei membri in alleanze ai danni di un altro membro; la scelta
del capro espiatorio cade su Dueocchietti, in quanto priva di un ruolo e della
sicurezza comportamentale che da esso ne deriva.
Lo
spazio relazionale di Dueocchietti, esclusa dalla fratria, si sviluppa però
tramite una rete amicale extrafamiliare che l’aiuta nel suo riscatto come
individuo, oltre che nel perdono verso le sue crudeli sorelle, segno di come i
sistemi relazionali extrafamiliari che il soggetto costruisce intorno a sé
possono influenzare il sottosistema familiare fraterno.
Conclusioni
Dai
miti e dalle fiabe emerge un elemento costante relativo al rapporto fraterno:
l’alternarsi di momenti di cooperazione e sostegno reciproco con momenti di
rivalità, velata o manifesta; entrambi gli aspetti contribuiscono alla
costruzione di ciò che è il vincolo fraterno.
In
fondo, come scrive Massimilla (2003), fratello o sorella significano anche
“l’inatteso”, ossia il venire a contatto con sentimenti contrastanti.
Queste
esperienze emozionali acquistano particolare importanza nella costruzione della
propria identità.
La
rivalità è «il cemento del narcisismo e dell’immagine di sé» (Rufo,2002, p.
30), acuisce il desiderio di conoscenza ed è promotrice della ricerca di sé e,
ben al di là della sola battaglia per il possesso dell’amore genitoriale,
permette a ciascuno di noi di definirci meglio attraverso il gioco delle
somiglianze e delle differenze(Rufo,2002). Lacan (1970), equiparando il
complesso fraterno al complesso dell’intruso, sostiene che il fratello possa
rappresentare il rivale perturbante, colui che agli occhi del bambino col quale
è posto in competizione, personifica il desiderio della madre. Questa rivalità,
non priva di conseguenze per entrambi gli attori del dramma
fraterno,
se da un lato porta ai sensi di colpa per aver desiderato l’annientamento del
rivale, dall’altro sfocia in sentimenti di rimorso per esser stato il
prediletto (Kancyper, 2003).
Abele e Caino, vittima e carnefice, confondono
i loro ruoli e muoiono entrambi seppure in gradi diversi, in una sorta di
condivisione del dramma come accade nel mito greco dei Dioscuri, che ben
esprime l’indissolubilità del legame fraterno.
È
singolare come nei miti fondativi si trovino in genere vicende fratricide o
comunque di estrema rivalità.
Pensando
che su tali miti si fonda l’aspetto simbolico delle nostre istituzioni e del
nostro vivere sociale, Dalal (1998) si chiede se non sia la capacità di
separarsi psicologicamente, esito sano e adattivo dell’amore parentale-filiale,
ad essere in contrasto con la capacità di stare nel gruppo in maniera
altruistica, come nel gruppo di fratelli e successivamente in quello dei pari.
Fortunatamente,
la capacità dei bambini di trarre forza e giovamento dall’identificazione col
gruppo non sempre poggia su quella “formazione reattiva” della rivalità diretta
alla contesa dell’amore parentale (Coles, 2003).
La
naturale tensione fra l’attaccamento del bambino all’adulto e l’attaccamento al
gruppo è, riprendendo le parole di Coles (2003), una corda tesa in cui dobbiamo
stare in equilibrio.
A
farlo ci può aiutare lo sviluppo di quello che Emde (1988) ha definito
l’“Io-noi”, riferendosi alla capacità del singolo bambino di pensare come “noi”
se stesso in rapporto alla madre.
Promuovere
lo sviluppo dell’estensione di questa funzione alla relazione tra fratelli non
significa certo l’eliminazione della naturale rivalità che li vede
protagonisti,
ma
potrebbe rappresentare un importante passo verso il superamento delle strutture
edipiche e narcisistiche che, se non chiarite, portano alla visione tanto cara
alla moderna società occidentale, che vede nel proprio simile l’Altro da
annientare.
In
fondo, come sosteneva Freud, non dobbiamo lottare coi nostri complessi per
eliminarli, bensì per riconciliarci con essi (Laplanche e Pontalis, 1967).
[1] Iside
e Osiride e Dialoghi Delfici. Testo greco a fronte, Plutarco, Ed. Bompiani,
2002.
[2] Typhôn,
nella versione fornitaci da Plutarco.
[3] Si
ricordi che Eva, quando partorì Caino, disse di lui: “Ho acquistato un uomo con
l’aiuto del Signore”. Genesi [4,1-2].
[4] Grimm,
Jakob. Le più belle fiabe dei Grimm. Milano, Valentino Editori, 1986.
[5] Bank
e Kahn (1982) differenziano i fratelli in quelli ad alto e basso accesso,
intendendo coi primi coloro i quali, vista la vicinanza di età, lo stesso sesso
o la lunga convivenza, promuovono esperienze di vita in comune. I secondi, a
basso accesso, sono coloro i quali o mancano dei prerequisiti di cui godono i
primi e quindi non riescono a costruire una consapevolezza di condivisione e
aiuto reciproco, oppure, pur avendo tutte le caratteristiche di quelli ad alto
accesso, rimangono emotivamente distanti. Questo avviene nelle situazioni in
cui i fratelli crescono in condizioni di conflitto create più o meno
inconsapevole dai propri genitori, generalmente mediante la “preferenza” verso
un figlio e ponendolo
costantemente
come modello.
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ALLEGATO C: MITI E PENSIERO MITICO
(di Bruno Mori 24/06/2022, tratto
da “Adista Documenti” n° 24 del 02/07/2022)
Nascita del pensiero mitico
Oggi, le scienze umanistiche sono
unanimi nell’affermare che le religioni, intese nel significato ordinario di
istituzioni che determinano, strutturano e organizzano ufficialmente le
modalità con cui gli umani si relazionano con il divino, siano creazioni
relativamente recenti.
Con questo intendo dire che l’esistenza
di una religione, costituita da una struttura organizzativa, con una gerarchia,
un potere, sacerdoti, credenze, norme e riti, è un fenomeno che risale
all’altro ieri nella storia evolutiva dell’umanità. Gli esseri umani hanno
infatti vissuto la maggior parte della esistenza senza “religione” e senza
“dio”.
Per più di novantamila anni, le
espressioni esteriori del pensiero simbolico e della spiritualità umana, legate
al carattere “sacro” e “misterioso” della vita e della realtà cosmica (riti,
sacrifici, culti funebri, ecc.), sono state praticate al di fuori di qualsiasi
organizzazione religiosa formale e senza alcun riferimento a una o più
divinità.
Le scienze antropologiche c’informano
che gli uomini del paleolitico non avevano un’idea ben definita di “dio” come
quella elaborata dalle culture successive. Possedevano, tuttavia, una profonda
sensibilità spirituale e vedevano ovunque la manifestazione del “divino”. Per
loro, la natura conteneva un mistero che la rendeva enigmatica e inquietante,
ma allo stesso tempo meravigliosa e magica. Sentivano che il mondo era
attraversato da un’inspiegabile “Energia” che produceva varietà, diversità,
bellezza, movimento e una grande profusione di vita, davanti alla quale non
potevano che provare meraviglia, timore, venerazione e gratitudine. Tutto
questo era accompagnato da una forte sensazione di essere immersi in una Realtà
globale e di fare parte di un “Tutto” che li sostentava con benevolenza e
amore.
Se il “divino” è ciò che affascina, ma
che rimane incomprensibile e ineffabile; se il “sacro” è ciò che trattiamo con
timore, rispetto e venerazione, allora bisogna dire che l’uomo del paleolitico
sentiva il mondo come qualcosa di “sacro” e di “divino” e la Natura intorno a
lui come una “divina maternità” che offre nutrimento.
In questo mondo e in questa Natura, gli
uomini del paleolitico si sentivano come bambini nelle braccia di una Madre
cosmica. Questa percezione è confermata da una grande varietà di statuette
femminili risalenti a quell’epoca e ritrovate un po’ dovunque dagli archeologi,
rappresentanti una Dea-madre dai seni generosi e traboccanti, ai quali gli
umani rimangono continuamente sospesi per trarne cibo, forza e vita.
Durante tutto il paleolitico, i
raccoglitori e i cacciatori umani vivevano in profonda simbiosi con il mondo
naturale, considerato come una Realtà globale di cui erano parte, in cui erano
inseriti come in un grembo che genera tutto ciò che esiste e vive e in cui
tutti gli esseri viventi rientrano alla fine del loro viaggio terreno. Dalla
“madre natura” prendevano solo ciò che era loro necessario per vivere, ma
sempre con un senso di riconoscenza e di rispetto per il Mistero che si
rivelava ovunque con profusione di potenza, di fecondità e di bellezza.
Per gli uomini primitivi di quel tempo,
tutta la Realtà era manifestazione di una Forza “benevola” e “graziosa” che non
potevano identificare né nominare, ma che era percepita come qualcosa in
perfetta consonanza con gli impulsi e le aspirazioni più profonde del loro
essere.
Così per millenni l’umanità ha vissuto
in un mondo olistico, indiviso, dove tutto era interconnesso, unito, sacro,
divino e umano insieme, dove il cielo toccava la terra e la terra il cielo. Il
cielo era quella parte della terra che non si poteva toccare, ma solo
contemplare. La terra era quella parte del cielo che si era avvicinata a noi
per essere accarezzata e perché noi potessimo meravigliarci della stupenda
bellezza di cui era stata rivestita. Tutto era cielo senza terra e terra senza
cielo; una terra celeste e un cielo terreno, perché tutto era uno, divino e
umano, terreno e celeste, vicino e lontano, spirito materializzato e materia
spiritualizzata.
Il Mistero era ovunque. Incomprensibile
e inafferrabile, ma attivo, reale, all’opera: impregnava e riempiva del suo
Spirito e del suo fascino l’immensità del cielo stellato, lo splendore
abbagliante del sole, la chiarezza e le fasi della luna, la freschezza umida
del mattino, i rossori accesi e lontani delle sere, il mormorio dei ruscelli,
la calma scintillante dei laghi, l’altezza misteriosa e sacra delle montagne,
la profondità dei boschi, il brulichio delle savane, l’immensità degli oceani,
l’armonia festosa del canto degli uccelli, la tavolozza fantastica e sgargiante
dei loro colori, il rombo lontano del tuono e il lampo improvviso in un cielo
d’estate...
Ogni cosa possedeva il suo proprio
spirito, sicché l’infinità di questi spiriti colonizzava, per così dire, il
mondo degli uomini in quel periodo remoto della nostra storia. Tutto era allora
“spiritualizzato”, tutto era “sacro”, tutto era “divinizzato”, tutto era
espressione di un Mistero che abbracciava ogni elemento, nel quale tutto era
immerso e del quale ogni essere e ogni fenomeno erano una parte e una
manifestazione.
La rivoluzione neolitica
Il passaggio dal paleolitico al
neolitico costituisce un vero cambiamento di paradigma nella storia evolutiva
dell’umanità. Nel periodo neolitico l’umanità passa da una cultura e una
società di cacciatori-raccoglitori a una cultura e società di agricoltori-pastori.
Questa transizione costituisce una enorme rivoluzione che implica un
cambiamento fondamentale nelle abitudini e negli atteggiamenti umani. Mentre
nel paleolitico gli uomini vivevano solo di ciò che la terra offriva loro, nel
neolitico essi trasformano, modificano, strutturano e ristrutturano la natura e
la geografia del territorio. Addomesticano animali, selezionano piante e frutti
tramite innesti e incroci. Prendendo il controllo dei mezzi e delle condizioni
della propria esistenza, l’uomo del neolitico diventa l’artefice del suo
proprio sviluppo.
Il passaggio all’agricoltura porterà con
sé la sedentarizzazione, l’allevamento e l’addomesticamento degli animali, la
formazione di villaggi e di città, l’aumento della natalità e quindi della
popolazione. Tutti questi fenomeni indurranno la diversificazione delle
attività umane, l’accumulo della ricchezza, la formazione della proprietà e di
strutture di sfruttamento, di dominio e di potere. Conseguentemente, a partire
da questa epoca, appaiono le disuguaglianze, le classi sociali e la scrittura.
La scrittura si rivelerà una invenzione geniale e diventerà uno strumento
indispensabile per la gestione e l’amministrazione rapida ed efficiente delle
risorse umane e della ricchezza.
Questi cambiamenti, avvenuti nel
neolitico, saranno così radicali che daranno origine a un mondo
fondamentalmente diverso e a nuovi paradigmi, cioè a un nuovo modo di
comprendere, d’interpretare e di confrontarsi con la realtà di Dio, del mondo e
dell’uomo. I paradigmi cognitivi e le immagini con cui gli umani concepiscono
ed esprimono la loro cosmovisione sono ormai di un altro ordine.
Vediamo brevemente i punti salienti di
questo cambiamento:
1. Il mondo naturale del paleolitico,
unico luogo della presenza del «divino», è ormai svuotato del suo carattere
sacro. Gli “spiriti” e le “divinità” che abitavano e animavano la natura sono
espulsi ed esiliati in un altro mondo, situato al di fuori, al di sopra del
mondo umano. Ora è il “cielo” ad essere considerato la dimora degli dei e degli
spiriti celesti e non più la “terra”.
2. Priva della presenza del divino, la
natura cessa d’essere una “Madre” sacra, riverita, meravigliosa e degna
d’ammirazione e di rispetto. Diventa ormai una “cosa” profana, materia grezza,
opaca, informe, caotica, senz’anima: un insieme di risorse materiali che l’uomo
può usare e sfruttare a proprio vantaggio e a proprio piacimento.
3. Il Theós, o l’unico dio che col tempo
ha sloggiato e sostituito la moltitudine di divinità che abitavano il cielo, è
ora concepito come una individualità personale, maschile, immateriale, come
puro spirito che possiede intelligenza e poteri infiniti da usare per mettere
ordine nel caos femminile del mondo materiale.
4. Nascono i nuovi miti sulla
“creazione” del mondo da parte della parola onnipotente di questa divinità
maschile che dispone e regola il funzionamento dell’Universo. La terra e la
natura sono definitivamente espropriate delle loro caratteristiche “materne”.
Ora è un dio maschio, bellicoso, violento, con poteri illimitati, che tiene
nelle sue mani i destini del mondo e dell’umanità. Il potere diventa un
atteggiamento e un fenomeno esclusivamente “maschile”.
5. Questa nuova visione degrada la
condizione della donna, che perde definitivamente il suo status di icona e di
simbolo del carattere “materno”, prodigo, benevolo e sacro della Natura. La
donna diventa ora il simbolo di un mondo materiale, pericoloso, disordinato e
decaduto. La donna è trasformata in una creatura che deve essere soggiogata e
che deve rimanere sottomessa al potere “divino” del maschio. Infatti, “se
adesso Dio è maschio, il maschio diventa Dio”. Di conseguenza, il maschio è ora
visto come l’essere che detiene il potere, come l’essere che è superiore, come
colui al quale la femmina deve obbedire e che egli può trattare e usare come un
oggetto o come una proprietà di cui può disporre a piacimento. È la nascita del
patriarcato e della sua peggiore espressione: il machismo.
6. L’apparizione in quest’epoca del mito
della creazione e la sua diffusa credenza introduce una rottura definitiva
nell’unità della visione paleolitica della Realtà, dove il divino, il naturale
e l’umano (dio-cosmo-uomo) erano elementi perfettamente integrati di un Tutto
universale.
7. A causa del mito della creazione, il
dualismo colpisce ora la comprensione umana della Realtà, che viene
automaticamente scissa in due poli opposti: cielo e terra, Dio lassù, l’uomo
quaggiù. Lassù, il mondo perfetto delle realtà e delle essenze divine e
spirituali; quaggiù il mondo imperfetto della materia bruta, pesante, opaca,
finita, cattiva, che trattiene e impedisce il volo dell’anima umana verso il
cielo di Dio, unico vero luogo di salvezza per l’uomo. Lassù, il mondo della
luce, della bellezza, della grazia, della perfezione e della felicità; quaggiù
il mondo della bruttezza, del male, dell’imperfezione, della tentazione, della
lotta, della sofferenza e di una possibile perdizione.
8. Ora gli uomini non si sentono più
parte integrante della natura, che ha perso il suo splendore divino. Non si
percepiscono più come provenienti dalla terra, ma come provenienti dal cielo,
creati direttamente da Dio. Pensano di essere di origine divina, di possedere i
geni di Dio e quindi di essere diversi da tutte le altre creature che vivono
sulla faccia della terra. Si considerano gli eredi del cielo, la loro vera
casa. Il mondo della materia, in cui gli uomini sono caduti, è visto ora come
un mondo inferiore, malvagio, pericoloso, dal quale devono liberarsi e
staccarsi per poter spiccare il volo verso la loro vera celeste dimora.
9. A causa della nascita del mito della
creazione diretta dell’uomo da parte di Dio, a partire dal neolitico, l’uomo
vive con la certezza d’essere una creatura superiore a tutte le altre creature
terrestri. Si è convinto di essere il padrone e il signore assoluto del mondo;
di avere quindi il diritto – e il potere – di disporne a suo piacimento e di
sfruttare senza riguardi e senza ritegni le risorse naturali del pianeta
(considerate illimitate) per soddisfare i suoi bisogni e la sua altrettanto
illimitata avidità.
Dal neolitico in poi, questo insieme di
affermazioni ha costituito il bagaglio cognitivo di base della società umana,
funzionando come un insieme di evidenze, di verità assolute, di assiomi
indiscutibili, di a priori necessari e indispensabili agli uomini per capirsi,
dialogare e comunicare tra loro. In una parola, le affermazioni sopra
menzionate hanno costituito i paradigmi di comprensione della Realtà che hanno
governato la storia dell’umanità, almeno in Occidente e nel Medio Oriente
durante gli ultimi quindicimila anni.
È soprattutto attraverso la religione
giudeo-cristiana (che ha adottato integralmente questi paradigmi) che la
visione neolitica della Realtà è giunta fino a noi. Il giudeo-cristianesimo ha
introdotto questa concezione tanto nella composizione e nel contenuto dei suoi
libri sacri, quanto nella formulazione delle sue credenze, delle sue dottrine e
dei suoi dogmi, diventando, in Occidente, il principale catalizzatore della
cosmovisione mitica antica. E ciò non solo mantenendola in vita fino all’epoca
moderna, ma continuando oggi ancora a imporla all’adesione obbligatoria dei
suoi fedeli.
Come se ciò non bastasse, la religione
cristiana, nel corso della sua evoluzione storica, ha contribuito
enormemente alla creazione di un gran numero di variazioni sui contenuti e sui
temi di fondo delle antiche credenze mitiche, creando nuovi miti e nuove
credenze, ampliando così ulteriormente la gamma di “verità” mitiche cui
credere. (...).
La nascita delle religioni
Oggi sappiamo che le religioni non sono
sempre esistite. Dalle scienze umane sappiamo che gli esseri umani hanno fatto
a meno delle religioni per la maggior parte della loro presenza su questo
pianeta. Oggi, gli antropologi sono inclini ad affermare che questa epoca senza
religione fu il tempo più felice e più “spirituale” dell’umanità. Nella storia
evolutiva dell’umanità, le religioni sono quindi un fenomeno culturale e
sociale recentissimo.
Siamo anche ben informati sull’origine
delle religioni nella storia dell’umanità. Queste nuove conoscenze e
informazioni sulle religioni come fenomeno spirituale, ma soprattutto come
fenomeno sociale e culturale che ha strutturato e scritto la storia delle
civiltà fino ai giorni nostri, stanno ora producendo profondi cambiamenti nella
percezione moderna delle religioni e negli atteggiamenti degli individui nei
loro confronti.
Le conclusioni delle scienze
antropologiche sulle religioni possono essere riassunte in quattro affermazioni
fondamentali:
- Le religioni non sono sempre esistite,
ma sono invenzioni e prodotti umani, con origini che, a grandi linee, possono
essere collocate storicamente e datate.
- Le religioni si sono formate nel
periodo neolitico.
- Dal neolitico ai tempi moderni, le
società sono state fondamentalmente società “religiose”.
- Le religioni possono essere utili, ma
non sono indispensabili.
Se ci basiamo su queste conclusioni,
possiamo affermare che le religioni, con la loro tipica configurazione
ideologica, etica e cultuale, sono sorte durante l’era neolitica, con la
sedentarizzazione delle popolazioni, l’agricoltura, l’addomesticamento e l’allevamento
degli animali, l’introduzione della proprietà privata, l’accumulo di beni, la
nascita della ricchezza e del potere che essa conferisce, la formazione dei
grandi agglomerati urbani e delle strutture necessarie per organizzare e
ordinare la convivenza umana (città, nazioni, imperi). Tutte queste
trasformazioni, con gli innumerevoli problemi che hanno creato (disuguaglianza,
ingiustizia, sfruttamento, crimine, violenza, ecc.), hanno portato con sé la
necessità d’introdurre regole di comportamento per rendere possibile la vita
sociale.
Si potrebbe quasi affermare che
all’inizio le religioni fornivano più norme sociali e politiche che regole
religiose. In quei tempi di profondi e spesso radicali cambiamenti, le
religioni furono capaci di creare e di elaborare i principi e le norme che dovevano
regolare il comportamento etico e civile degli individui, rendendo possibile
una convivenza umana ordinata e relativamente pacifica. Esse furono soprattutto
in grado d’imporre e assicurare l’osservanza di queste norme e leggi,
conferendo loro il carattere di “comandamenti divini”, la cui trasgressione
avrebbe comportato esclusione e castighi da parte degli dei (Codice di
Hammurabi; le tavole della Legge o Dieci Comandamenti dati da Dio a Mosè sul
monte Sinai).
Fin dall’antichità, quindi, le religioni
si sono presentate e si sono imposte come strutture autoritarie, create
principalmente per soddisfare le esigenze di ordine, di coesione, di sicurezza
e di pace all’interno dei grandi agglomerati umani e urbani in formazione.
All’epoca delle grandi civiltà, cioè
intorno al 5000 a.C., le religioni avevano già acquisito la loro tipica
configurazione d’istituzioni sacre, che si presentano non solo come
intermediarie tra l’uomo e la divinità, ma soprattutto come portavoce delle richieste
e della volontà degli dei. Esse fornivano dunque non solo le norme di un buon
comportamento sociale e individuale, ma anche tutta la conoscenza e le risposte
(sul mondo, la natura e gli dèi) di cui gli uomini avevano bisogno per vivere e
dare un senso alla loro esistenza.
La funzione normativa e regolatrice che
le religioni hanno svolto nel periodo neolitico ha contribuito in maniera
decisiva a consolidare la loro autorità e il loro potere. In quelle epoche
primitive, le persone ignoranti, ingenue, insicure, smarrite, indifese,
continuamente esposte ai pericoli e alle minacce provenienti dal mondo naturale
e dal mondo umano, si affidavano e si sottomettevano volentieri a una
istituzione “sacra” che offriva loro guida, protezione e sicurezza, che creava
speranza e prometteva salvezza. A questa povera gente la religione proponeva
innumerevoli e incantevoli storie sulle straordinarie imprese di eroi divini,
che vivevano lassù, nelle misteriose e inaccessibili profondità dei cieli ma
che potevano “volare” in soccorso dei miseri mortali.
La religione si presenta così come una
struttura organizzativa inventata dall’uomo alla quale si riconosce un’autorità
e un potere. La religione non viene da Dio, non è eterna e non può imporsi come
fosse l’autorità ultima e assoluta. È sempre ed essenzialmente un sistema
direttivo e orientativo, di sostegno creato dall’uomo, che esiste in funzione
dell’uomo e per l’uomo allo scopo di aiutarlo ad attraversare più facilmente e
più serenamente le prove e le difficoltà della vita.
Possiamo affermare che, nelle regioni
del Medio Oriente e del bacino del Mediterraneo, il patrimonio mitico di base
delle religioni, con la sua rappresentazione simbolica e la sua formulazione
teorica stabile e quasi universale, era praticamente già formato quattromila
anni prima della nostra era.
Gli antichi scribi ebrei (VII secolo
a.C.) non dovettero fare altro che inserire questo patrimonio religioso
esistente nella composizione dei loro scritti “sacri” (la Bibbia), adattandolo
alle esigenze dei tempi, della loro cultura, delle loro credenze e dei loro
propositi. Attraverso la Bibbia ebraica, gli antichi miti, insieme alla
cosmologia che sottintendevano, entrarono nella religione giudeocristiana e,
attraverso di essa, giunsero fino a noi e ai pulpiti delle nostre chiese.
In sostanza, i contenuti di base delle
religioni delle antiche civiltà della “mezzaluna fertile” del Medio Oriente e
del bacino del Mediterraneo (Sumeri, Egitto, Israele, Grecia) erano ormai
basate sull’adorazione di divinità prevalentemente maschili, le quali
sostituirono definitivamente le divinità femminili, la grande Dea madre, delle
epoche precedenti (paleolitico). In questo stesso periodo nascevano nel lontano
Oriente le grandi religioni classiche dell’Induismo, del Confucianesimo e del
Buddismo.
Per usare un paragone ed un termine del
linguaggio informatico moderno che prendo in prestito da José María Vigil,
possiamo dire che la religione è stata il motore del “sistema operativo” delle
società antiche; con la sua influenza, il suo prestigio quasi divino, il suo
potere, la sua autorità indiscutibile, le sue credenze, i suoi miti, i suoi
dogmi, le sue leggi, la sua morale, e persino i suoi metodi inquisitoriali di
sorveglianza, di controllo, d’imposizione e di sanzione, la religione ha
esercitato per secoli la funzione di “software” che programmava ogni società.
Si può quindi dire che, dall’antichità
fino al XIV secolo d.C. (la fine del Medioevo), religione e cultura coincisero.
La cultura era solo religiosa e la religione era l’unica forma possibile di
cultura. Questo è ancora ciò che succede oggi in molti Paesi islamici. Ciò
significa che la religione ha permeato e modellato tutti gli aspetti, le
attività e le strutture della società: la cultura, le conoscenze, la fede, la
politica, il diritto, le arti, la coesione sociale, i sentimenti di identità e
di appartenenza dei suoi membri, le loro cosmovisioni... Paul Tillich ha detto
che nelle società antiche «la cultura è stata la forma della religione e la
religione è stata l’anima della cultura».
Le religioni, nate per organizzare e
guidare la società umana, hanno però accompagnato l’umanità solo durante un
breve periodo della sua storia evolutiva: potremmo dire durante quella fase
particolarmente critica e pericolosa della sua fanciullezza, della sua crescita
e del suo passaggio dall’ingenuità e dalla credulità dell’infanzia al
raziocinio, alla consapevolezza e allo sguardo critico dell’età adulta.
Oggi, le scienze umane sembrano
concordare sul fatto che le religioni “neolitiche” hanno definitivamente
completato il loro compito sia di “genitori”, sia di fantasiosi narratori, sia
di educatori severi e autoritari. I bambini di un tempo, divenuti adulti colti,
intrepidi e indipendenti, non hanno più bisogno di essere guidati dalla
presenza dei loro genitori, né di essere rassicurati dalle favole della mamma.
Ecco perché ai nostri giorni queste religioni sono diventate totalmente
obsolete.