venerdì 30 agosto 2024

Ecco quattro brevi storie della tradizione chassidica tratte dal libro “Credere o non credere” di Elie Wiesel


I

Qualcuno era andato a dire al celebre Tzaddìk di Rovidok che il Messia lo aspettava. «Me? Perché me? Mortale come tutti voi, colpevole più di voi, perché avrei meritato di essere invitato dall’emissario benedetto di Dio?». Lui non capiva, ma intorno a lui discepoli e seguaci sorridevano scambiandosi ammicchi e piccole esclamazioni di orgoglio: com’era dunque umile il loro capo spirituale; è proprio da lui, è proprio da lui dubitare di se stesso in quest'ora grave e storica. E siccome non aveva l’aria di affrettarsi, essi si fecero impazienti ripetendo che il Messia lo aspettava: «Aspetta solo voi, Rabbi. Dal vostro incontro dipende il destino del nostro popolo, dunque di tutti i popoli. Il tempo stringe, Rabbi. Se, Dio non voglia, arrivate in ritardo, le generazioni future non ve lo perdoneranno mai». «Va bene» borbottò lo Tzaddîk di Rovidok. Si mise il cappotto foderato di pelliccia delle grandi occasioni e, accompagnato dal suo fedele servitore Reb David, seguito da una folla di adepti entusiasti, lasciò la sua abitazione. Per la strada, la gente si fece rispettosamente da parte per lasciarlo passare. Camminò per qualche minuto e poi si fermò. «Che succede,Rabbi?» domandò un servitore.« Sento un bambino – disse lo Tzaddìk. – Sento un bambino che piange». Si alzarono grida da tutte le parti: «Quel bambino smetterà di piangere... Sua madre lo calmerà... Un bambino che piange non prova niente... Tutti i bambini piangono... Il Messia aspetta e voi vi occupate di un bambino?». Ma lo Tzaddìk di Rovidok si ostinò: sentiva un bambino che piangeva; bisognava che andasse a vedere se aveva fame, o sete, o se era malato. E siccome i suoi adepti protestavano spiegò loro dolcemente: «Nutrire un bambino affamato è più o urgente che andare a salutare il Messia».

II

Nella santa comunità di Lorozits, conosciuta per la sua yeshivàh diretta dal grande Rabbi Chayim, c’era un mendicante solitario e misterioso. Nessuno conosceva il suo passato né il suo nome. Viveva nel hekdesh, il ricovero tradizionale per i poveri di passaggio, e non accettava mai inviti dagli abitanti della città. Neanche per il pranzo del Seder. All’inizio, i suoi amici mendicanti lo prendevano in giro, cercando di provocarlo per trarlo fuori dal suo torpore. Invano. Potevano picchiarlo, insultarlo, torturarlo; lui lasciava fare. Solo Rabbi Chayim aveva influenza su di lui. Del resto, i due uomini si vedevano una volta all’anno: la vigilia del giorno dell’Espiazione. Quel giorno, Rabbi Chayim lo faceva venire a casa sua. A che scopo? Mistero. Più volte, dopo le feste, i discepoli interrogavano il loro maestro sullo strano rapporto che egli poteva avere con il mendicante; non riuscirono mai a fargli aprire bocca. Passarono gli anni. Rabbi Chayim diventava vecchio, il mendicante pure. Il loro ultimo incontro fu più lungo dei precedenti. Suscitando lo stupore generale, il mendicante accettò di sedersi alla tavola del Rabbi per il pranzo che precede il lungo digiuno del Kippur. Morì il giorno dopo. Il Rabbi stesso prese la testa del corteo che seguì il feretro fino al cimitero. Fu lui a pronunciare l’orazione funebre: «Era un santo. Un grande Tzaddìk. Da ogni luogo erano venuti a seguire il suo insegnamento. È tutto ciò che vi posso dire. Non voleva che voi sapeste le ragioni del suo comportamento. Io le conoscevo. Ed è quindi con cognizione di causa che, davanti a Dio e davanti ai morti che giacciono nel mondo della verità, dichiaro solennemente che Tzaddìk egli era, e Tzaddik è rimasto». Ai suoi parenti il Rabbi comunicò un suo desiderio: voleva essere sepolto vicino al mendicante.


III

Quel giorno ci fu un gran baccano in cielo. Mille e mille Saggi e Giusti accolsero lo Tzaddìk di Rovidok nella gioia e nel fervore. I patriarchi furono i primi a dargli il benvenuto; poi vennero i profeti, gli scribi, i commentatori, le guide e tutti gli altri pastori del gregge di Israele: lo baciarono e lo portarono in trionfo fino alla sede del tribunale celeste. Lì, in presenza del Giudice sul suo trono illuminato, tutti tacquero. Una voce tenera e potente a un tempo ordinò allo Tzaddìk di Rovidok di avvicinarsi. «È normale - gli sussurrò un Saggio. - Non hai nulla da temere; sei fra amici». Per niente rassicurato, il nuovo arrivato fece un passo in avanti e abbassò la testa, rispettosamente, per ricevere le domande di prammatica. «Hai fatto il tuo mestiere onestamente?». Un mormorio amichevole attraversò il pubblico di invitati. Era davvero buona, questa. Il povero Tzaddìk di Rovidok, anche durante la sua esistenza gloriosa, non aveva mai approfittato della sua situazione: era cosa nota. Rifiutava lo stipendio e le offerte che i suoi ammiratori gli portavano. Aveva ordinato a sua moglie di stare attenta che non restasse mai in casa loro una moneta d’argento: se, per sbaglio, non se n’era sbarazzata, lui, lo Tzaddìk, non poteva dormire la notte. «Allora? — disse la voce tenera e terribile. — Dici di sì?». Lo Tzaddìk di Rovidok scosse la testa in segno di assenso, ma fu il pubblico a rispondere per lui: «Sì, sì». Bene, seconda domanda di rito: «Hai vissuto nell’attesa del Messia?». Ancora una volta i suoi protettori volevano gridare «sì, sì»: quale Rabbi, quale Tzaddìk, quale ebreo non vive nell’attesa del Messia?». Ma, a un cenno del Giudice, tacquero. «Allora? Dici sì o no?» fece la voce celeste. L’imputato si mise a scuotere la testa in segno di negazione. Il pubblico lanciò un grido di incredulità: «Non è possibile, non è possibile!». E lo Tzaddìk di Rovidok raccontò la sua avventura con il bambino che aveva fame. Al che, l'Angelo accusatore saltò su un banco e urlò: «Ah, avete sentito? Ha confessato tutto! Non solo che non ha atteso il Messia, ma che lo ha fatto attendere! Chiedo un verdetto severo! Esemplare!». Fra il pubblico costernato qualche vecchio si mise a piangere. Improvvisamente si levò una voce: «Desidero parlare». «In che veste?». «Come testimone di difesa». Era Mosè. Con voce pacata, senza la minima traccia di balbettamento, ricordò al Tribunale le sue esperienze: «Ricordiamoci dell’inizio della nostra storia. Cosa accadde? Sul Nilo, un bambino piangeva; se una principessa non avesse risposto al mio appello, se avesse detto che aveva cose migliori da fare, dove sarebbe il popolo di Israele oggi?». Applausi nei cieli; tutto l’universo ne fu scosso. Ma l’Angelo accusatore non si dette per vinto. Con una mancanza di rispetto verso Mosè che non stupì nessuno gli replicò: «Non è la stessa cosa. La principessa egiziana non era stata informata che il Messia l’attendeva, mentre...». L'Angelo accusatore non giudicò opportuno neanche finire la frase. Adesso, fra il pubblico, regnava l’inquietudine. Povero Tzaddìk di Rovidok: se Mosè non poteva trarlo d’impiccio, chi poteva farlo? La voce del Tribunale si fece sentire: «C’è qualcuno che desidera prendere la parola? No? Allora...». Tutto a un tratto si sentì un’altra voce - sottile, malinconica, sognante - da molto lontano e da molto vicino: «Ho delle cose importanti da dire, lasciatemi passare...». Il testimone - molto vecchio e molto giovane, timido eppure assai sicuro di sé - fissò l'Angelo accusatore e gli disse: «Come sai che lo Tzaddìk di Rovidok mi ha fatto aspettare?». «Ma... - balbettò l'Angelo accusatore - lo ha ammesso lui stesso». «Ma chi ti dice che mi ha fatto aspettare? Ebbene, ascolta, ascoltate tutti, e vi dirò ciò che è successo: quel giorno, avevo espresso il desiderio di incontrare lo Tzaddìk di Rovidok. Sapevo che stava venendo; ero felice. Prevedevo il nostro incontro con gioia; mi dicevo: con lui, reciteremo litanie e preghiere che potrebbero modificare il corso degli eventi. Improvvisamente mi bloccai: sentii il pianto di un bambino. Aveva fame, aveva sete, aveva paura della solitudine. Allora feci una cosa incredibile: andai da lui. Per tutto il cammino mi sentii colpevole nei confronti dello Tzaddìk di Rovidok di farlo attendere nel luogo fissato, ma non potevo fare altrimenti: quel bambino piangeva, piangeva. Non potevo non andarci... Ma una volta là, nella piccola, misera capanna, sapete chi ho trovato con il bambino? Lo di Tzaddìk Rovidok...». L’Angelo accusatore fuggì, e i Saggi, i Profeti, i Giusti e i Maestri di tutti i secoli presero il loro fratello sulle spalle e lo portarono in trionfo. Quel giorno, ci fu in cielo una festa di cui si parla ancora oggi.


IV

E il bambino? Cosa ne fu del bambino che piangeva? Si dice che per anni rifiutò di sposarsi. Sentendosi colpevole di aver rovinato la redenzione, preferiva vagare di città in città, di scuola in scuola, cercando dappertutto un maestro che fosse capace di dargli un fikkùn, un mezzo per scontare la sua colpa. Un giorno, arrivò nella comunità di Kozhenitz dove il Magghid Rabbi Israel aveva la sua scuola chassidica. Il Rabbi lo invitò a casa sua, e lo interrogò su ciò che faceva. «Perché questo vagare? È tempo che tu metta radici da qualche parte, che tu prenda moglie e fondi una famiglia». «Non posso» disse il vagabondo. «Perché?». Il vagabondo gli raccontò la storia che aveva ossessionato la sua esistenza. «Ti senti colpevole di aver pianto?» disse il Magghid. «Grazie alle tue lacrime, il Messia e lo Tzaddìk di Rovidok hanno potuto dare una lezione magistrale al Giudice supremo in persona. Un Messia che fa piangere un bambino, o che resta sordo ai suoi appelli, che genere di salvatore sarebbe?». Il Magghid di Kozhenitz si perse nelle sue meditazioni, e ‘un sorriso illuminò il suo volto ascetico: «Torna a casa tua» disse al vagabondo. «Da qui a un anno sarai sposato; avrai un figlio; e se piange, ti prometto che lascerò tutto, e sarò lì per nutrirlo...».

da "Credere o non credere" di Elie Wiesel, edizioni Giuntina