martedì 27 agosto 2024

Non è al centro che si vince: né negli Stati Uniti né in Italia


La scelta di Tim Walz, governatore del Minnesota, quale candidato alla vice presidenza degli Stati Uniti, più che un successo assicurato, costituisce un pericolo mancato per Kamala Harris. Se, come sembrava alla vigilia della decisione, l’ormai candidata democratica alla presidenza avesse scelto come proprio partner il governatore della Pennsylvania, Josh Shapiro, avrebbe rischiato di alienarsi quel voto aggiuntivo, prevalentemente giovanile e fermamente pacifista, di cui ha bisogno per vincere la partita con Donald Trump, ancora incertissima, dopo il crollo di borsa dalle conseguenze incerte. Invece Walz, americano medio tranquillamente progressista sui temi sociali, è stato quantomeno silenzioso su quelli, sempre più brucianti, della guerra e della pace. Perchè il tema decisivo, negli Stati Uniti come in Occidente, è quello del non voto.

Si osservi un semplice fatto che sfugge anche ai commentatori più accorti e meglio intenzionati. Mentre l’estrema destra riesce a portare alle urne la propria riserva di astensionisti, non altrettanto riescono a fare le candidature di centrosinistra, condizionate dalle élites dominanti con relativi strumenti mediatici. Tanto per essere chiari, se Kamala Harris ed Elly Schlein – per usare due nomi non soltanto simbolici – non possono, non vogliono o non si decidono a motivare il non voto potenzialmente alla loro portata, la loro partita è persa. In particolare sfugge loro il voto prevalentemente giovanile, tecnologicamente informato, estraneo alle manipolazioni dell’establishment mediatico, soprattutto motivato dall’ansia per il futuro e da una sdegnata ricerca della pace nel mondo. Più di ogni altro scenario i giovani sono mobilitati dagli eventi a Gaza e in Cisgiordania. Con ogni probabilità l’apporto del loro voto sarebbe decisivo ai fini delle elezioni statunitensi e anche di quanto avverrà in Italia nei prossimi mesi.

Usiamo come esempi proprio gli Stati Uniti, ormai a pochi mesi dalle elezioni, e l’Italia che ci riguarda più da vicino, con le relative scelte che ne derivano. Come prevedibile, sono stati i candidati democratici pericolanti al Congresso a porre fine alla monarchia di Biden, governata da coloro che gli stavano intorno. Tra costoro, neanche al primo posto, come sarebbe stato costituzionalmente corretto, sedeva Kamala Harris, vice presidente e ora candidata democratica alla presidenza degli Stati Uniti. Mentre porta in dote una naturale apertura verso minoranze etniche numericamente significative, uno stile di comunicazione alternativo ed una capacità dovuta alla sua esperienza giurisdizionale d’inchiodare Trump ai reati accumulati nel tempo, Harris ad oggi non si è distinta a sufficienza dalla politica estera di Biden per conquistare i voti e la militanza di non votanti, soprattutto giovani, alla propria sinistra. Un tempo la partecipazione al voto oscillava stabilmente tra il 50 e il 60% degli aventi diritto. In queste condizioni vinceva il candidato che riusciva a conquistare un elettorato indipendente, moderato e centrista. Con un’affluenza al voto più varia – del 66%, la prima volta che venne eletto Obama – vince il candidato in grado di attirare il maggior numero di consensi tra coloro che abitualmente non si recano alle urne, rispettivamente alla propria destra e alla propria sinistra. Ne consegue la radicalizzazione dello scontro politico.

La forza di Trump, galvanizzato da un attentato fallito alla sua persona dai connotati non ancora chiariti, consiste nella sua abilità di attirare fanatici di destra, religiosamente motivati o meno; una base sociale culturalmente e geograficamente emarginata, soprattutto mobilitata contro l’immigrazione proveniente dal sud, disposta a votare soltanto un candidato che ne rifletta le peculiarità. La fragilità elettorale di un candidato democratico mainstream, prigioniero dei veti della grande finanza, dell’industria delle armi e dei farmaci, è quella di non avere la capacità analoga del suo sfidante. Non basta l’appello alle donne ed alla base LGBTQIA+, minacciate nei loro diritti. Le prospettive di elezione di Kamala Harris sono intimamente legate alla sua volontà, o meno, di rompere i legami con questo tipo di condizionamento, motivando un voto, soprattutto giovanile, pacifista ed egualitario. Viene a mente la trasformazione politica e umana di Bobby Kennedy nel corso della campagna elettorale del 1968, prima che venisse stroncata dalla pallottola ben mirata.

Non sfugga l’analogia italiana, pur diluita nel tempo. Il PD guidato da Elly Schlein, secondo partito nella recente prova elettorale, non può diventare maggioritario stringendo le fila, se ancora prigioniero delle proprie correnti, con l’aggiunta di un’ennesima quanto rocambolesca improvvisazione di Matteo Renzi. Esso deve fare i conti con una cittadinanza che non si reca alle urne perché rifiuta una politica sorda alla crescente sofferenza sociale e ai suoi valori. I sondaggi d’opinione da questo punto di vista parlano chiaro. La destinazione di fondi pubblici crescenti all’industria militare a sostegno di guerre imposte e gestite dagli Stati Uniti, tramite la NATO, offendono interessi e valori del popolo italiano. Soltanto la prospettiva di un radicale mutamento può assicurare consensi provenienti dalla maggioranza relativa della cittadinanza. Quella che non vota.

Gian Giacomo Migone - Il Fatto Quotidiano, 20 agosto 2024