Olimpiadi. Vincere è meglio, ma perdere non è un fallimento
Vedo con piacere, quando mi capita, alcune immagini delle Olimpiadi (non
dell’inaugurazione, che ha a che fare con il peggiore Hollywood più che con le
gare a cinque cerchi). Mi piacciono soprattutto gli sport di squadra e le gare
di atletica (quelle che stanno finalmente iniziando). Odio la retorica e le
urla dei giornalisti e dei commentatori, alcuni dei quali di imbarazzante
incompetenza, impegnati in una spasmodica gara a chi trova gli aggettivi più
mirabolanti anche per le imprese sportive più modeste, purché compiute da
“italiani” (e immagino sia così per tutti i Paesi, con connessa trasformazione
di una manifestazione senza confini in un trionfo dei nazionalismi). Non so quanti
ori o quanti bronzi ci siano nel “medagliere” dell’Italia anche se, a forza di
sentir sottolineare le imprese di una sconosciuta tiratrice al volo “nata
a Zurigo, ma cresciuta a Caserta”, rischio di inorgoglirmi anch’io
per la sua quasi vittoria invece di apprezzare i gesti
atletici in quanto tali, da qualunque parte provengano.
Ma, oltre all’eccesso di
nazionalismo, c’è un altro elemento negativo che caratterizza le
Olimpiadi (come le manifestazioni sportive in genere). È il
culto della vittoria visto come unico riferimento.
Intendiamoci, è ovvio che la vittoria, la performance, l’impresa atletica
sono obiettivi di ogni competizione. E, come direbbe monsieur de la Palice, è meglio vincere che perdere. È naturale
che sia così. Ma non è naturale il contrario, cioè il
fatto che la mancata vittoria, la resa inferiore alle aspettative,
la défaillance dell’ultimo momento
siano considerate fallimenti o catastrofi (destinati a provocare
crisi individuali e, talvolta, internazionali, o addirittura – come accaduto in
occasione di alcune partite di calcio – sommosse popolari…). Facile dirlo, così
come ripetere l’abusato slogan del barone De Coubertin secondo cui “l’importante
non è vincere ma partecipare”. Non altrettanto praticarlo. Per questo
merita cogliere alcuni segnali in controtendenza.
Ha cominciato la diciannovenne nuotatrice
Benedetta Pilato, arrivata quarta, per un decimo di secondo, nella finale dei 100
metri rana. Uscita dalla piscina ancora gocciolante, e dunque
senza alcuna preparazione, ha dichiarato alla giornalista
Rai che la intervistava, di getto e senza nascondere le lacrime: «Ci ho provato
fino alla fine, ma le mie sono lacrime di gioia, ve lo giuro. Sono felice: un
anno fa non ero neanche in grado di fare questa gara e oggi ho nuotato la
finale olimpica. Tutti si aspettavano di vedermi sul podio tranne me… Un
centesimo è davvero una beffa. Ma sono felice, è andata bene così. Sono
troppo contenta, è stato il giorno più bello della mia vita». Non so
nulla di questa giovanissima nuotatrice e, dunque, posso sbagliarmi.
Ma le sue parole mi sono parse sincere e non stereotipate: frutto non di una
retorica melensa o della consolazione del “tanto era acerba” ma di
una cultura nella quale il risultato è importante, importantissimo, ma non è
tutto. E, infatti, non sono mancate le critiche e le ironie di chi non conosce
altra logica che quella della vittoria a ogni costo (di quella logica che
arriva a produrre frode sportiva e doping).
A Pilato ha fatto seguito, due giorni dopo,
in modo più argomentato, il tennista ventinovenne Andrea Vavassori, reduce
dall’eliminazione, insieme a Sara Errani, nel doppio misto. Ha detto
Vavassori a la Repubblica: «In Italia non c’è una cultura della
sconfitta. Sono dispiaciuto per aver perso. Ma sono felice per essere stato
qui, anzi: sono il più felice del mondo. Poi, certo, avrei preferito vincere.
Ma sono felice nonostante abbia perso. Un anno fa non ci avrei nemmeno creduto
se mi avessero detto che avrei potuto giocare tre competizioni alle Olimpiadi.
[…] Ciascuno di noi ha vinto tanto. E perso moltissimo. Smettetela di
dire che chi non vince le medaglie è un fallito. […] Fatico, fatichiamo da
sempre, ma non è possibile pensare allo sport come un posto dove c’è un
vincente e un perdente che si deve mettere un cappio al collo, un fallito. Chi
vince oggi può perdere domani. Chi perde oggi, vincerà domani. Benedetta è
arrivata quarta, è la quarta ranista più forte al mondo. Non ha preso il
bronzo? Peccato. Ha 19 anni, ci proverà alle prossime Olimpiadi e poi quelle
dopo ancora. Smettetela, davvero smettetela. […] La nostra è una generazione
schiacciata dalle critiche. Se ora accendo il telefono ci trovo scritto qualsiasi
cosa: io me ne frego, ma quanti invece ci stanno male? Soffrono. Prima dovevi
entrare in un bar per sentirli. Ora ti seguono 24 ore su 24. Non è giusto, non
è normale. Io non ci sto più, non mi va bene». Ancora una volta non si tratta
di buoni sentimenti ma di una piccola lezione che si dovrebbe consegnare a chi
inizia a fare sport.
Due episodi non isolati ma certo infrequenti, a cui mi piace affiancarne un
terzo, risalente alle Olimpiadi di Tokyo. È il 1° agosto 2021, finale del salto
in alto. Gianmarco Tamberi e il qatariota Mutaz Essa Barshim
arrivano, entrambi senza errori, alla misura di 2 metri e 37 centimetri. Poi,
non riescono, di nuovo appaiati (questa volta nell’errore), a
superare la misura di 2,39. A questo punto, il giudice li informa che
possono proseguire la finale con uno spareggio a oltranza oppure concordare una
vittoria ex aequo. E i due atleti accettano l’oro a pari merito.
Le spiegazioni possono essere molte, a cominciare dal timore di perdere lo
spareggio, ma a me piace pensare che la loro scelta sia stata dettata dal
sentirsi appagati, senza bisogno di dover dimostrare altro (e non sarebbe cosa
da poco per un atleta spesso irrefrenabilmente sopra le righe come Tamberi).
Anche qui c’è – o a me piace vedere – una cultura dello sport che non
si ferma al risultato ma sa guardare più lontano.
Raramente lo sport – almeno quello a livello professionistico o di grandi
eventi – riesce ad essere lezione di vita. Quando accade è bene segnalarlo.
Senza retorica. A dimostrazione che ci sono, ovunque, culture diverse. Forse
dovrebbero metabolizzarlo i commentatori sportivi, smettendo di inseguire miti,
di esasperare la competitività e di relegare a buoni sentimenti “strappa
lacrime” quelli che sono, in realtà, esempi di una cultura alternativa.
Livio Pepino (da “volerelaluna” del 2/8/24)