giovedì 8 agosto 2024

Olimpiadi. Vincere è meglio, ma perdere non è un fallimento

Vedo con piacere, quando mi capita, alcune immagini delle Olimpiadi (non dell’inaugurazione, che ha a che fare con il peggiore Hollywood più che con le gare a cinque cerchi). Mi piacciono soprattutto gli sport di squadra e le gare di atletica (quelle che stanno finalmente iniziando). Odio la retorica e le urla dei giornalisti e dei commentatori, alcuni dei quali di imbarazzante incompetenza, impegnati in una spasmodica gara a chi trova gli aggettivi più mirabolanti anche per le imprese sportive più modeste, purché compiute da “italiani” (e immagino sia così per tutti i Paesi, con connessa trasformazione di una manifestazione senza confini in un trionfo dei nazionalismi). Non so quanti ori o quanti bronzi ci siano nel “medagliere” dell’Italia anche se, a forza di sentir sottolineare le imprese di una sconosciuta tiratrice al volo “nata a Zurigo, ma cresciuta a Caserta”, rischio di inorgoglirmi anch’io per la sua quasi vittoria invece di apprezzare i gesti atletici in quanto tali, da qualunque parte provengano.

Ma, oltre all’eccesso di nazionalismo, c’è un altro elemento negativo che caratterizza le Olimpiadi (come le manifestazioni sportive in genere). È il culto della vittoria visto come unico riferimento. Intendiamoci, è ovvio che la vittoria, la performance, l’impresa atletica sono obiettivi di ogni competizione. E, come direbbe monsieur de la Palice, è meglio vincere che perdere. È naturale che sia così. Ma non è naturale il contrario, cioè il fatto che la mancata vittoria, la resa inferiore alle aspettative, la défaillance dell’ultimo momento siano considerate fallimenti o catastrofi (destinati a provocare crisi individuali e, talvolta, internazionali, o addirittura – come accaduto in occasione di alcune partite di calcio – sommosse popolari…). Facile dirlo, così come ripetere l’abusato slogan del barone De Coubertin secondo cui “l’importante non è vincere ma partecipare”. Non altrettanto praticarlo. Per questo merita cogliere alcuni segnali in controtendenza.

Ha cominciato la diciannovenne nuotatrice Benedetta Pilato, arrivata quarta, per un decimo di secondo, nella finale dei 100 metri rana. Uscita dalla piscina ancora gocciolante, e dunque senza alcuna preparazione, ha dichiarato alla giornalista Rai che la intervistava, di getto e senza nascondere le lacrime: «Ci ho provato fino alla fine, ma le mie sono lacrime di gioia, ve lo giuro. Sono felice: un anno fa non ero neanche in grado di fare questa gara e oggi ho nuotato la finale olimpica. Tutti si aspettavano di vedermi sul podio tranne me… Un centesimo è davvero una beffa. Ma sono felice, è andata bene così. Sono troppo contenta, è stato il giorno più bello della mia vita». Non so nulla di questa giovanissima nuotatrice e, dunque, posso sbagliarmi. Ma le sue parole mi sono parse sincere e non stereotipate: frutto non di una retorica melensa o della consolazione del “tanto era acerba” ma di una cultura nella quale il risultato è importante, importantissimo, ma non è tutto. E, infatti, non sono mancate le critiche e le ironie di chi non conosce altra logica che quella della vittoria a ogni costo (di quella logica che arriva a produrre frode sportiva e doping).

A Pilato ha fatto seguito, due giorni dopo, in modo più argomentato, il tennista ventinovenne Andrea Vavassori, reduce dall’eliminazione, insieme a Sara Errani, nel doppio misto. Ha detto Vavassori a la Repubblica: «In Italia non c’è una cultura della sconfitta. Sono dispiaciuto per aver perso. Ma sono felice per essere stato qui, anzi: sono il più felice del mondo. Poi, certo, avrei preferito vincere. Ma sono felice nonostante abbia perso. Un anno fa non ci avrei nemmeno creduto se mi avessero detto che avrei potuto giocare tre competizioni alle Olimpiadi. […] Ciascuno di noi ha vinto tanto. E perso moltissimo. Smettetela di dire che chi non vince le medaglie è un fallito. […] Fatico, fatichiamo da sempre, ma non è possibile pensare allo sport come un posto dove c’è un vincente e un perdente che si deve mettere un cappio al collo, un fallito. Chi vince oggi può perdere domani. Chi perde oggi, vincerà domani. Benedetta è arrivata quarta, è la quarta ranista più forte al mondo. Non ha preso il bronzo? Peccato. Ha 19 anni, ci proverà alle prossime Olimpiadi e poi quelle dopo ancora. Smettetela, davvero smettetela. […] La nostra è una generazione schiacciata dalle critiche. Se ora accendo il telefono ci trovo scritto qualsiasi cosa: io me ne frego, ma quanti invece ci stanno male? Soffrono. Prima dovevi entrare in un bar per sentirli. Ora ti seguono 24 ore su 24. Non è giusto, non è normale. Io non ci sto più, non mi va bene». Ancora una volta non si tratta di buoni sentimenti ma di una piccola lezione che si dovrebbe consegnare a chi inizia a fare sport.

Due episodi non isolati ma certo infrequenti, a cui mi piace affiancarne un terzo, risalente alle Olimpiadi di Tokyo. È il 1° agosto 2021, finale del salto in alto. Gianmarco Tamberi e il qatariota Mutaz Essa Barshim arrivano, entrambi senza errori, alla misura di 2 metri e 37 centimetri. Poi, non riescono, di nuovo appaiati (questa volta nell’errore), a superare la misura di 2,39. A questo punto, il giudice li informa che possono proseguire la finale con uno spareggio a oltranza oppure concordare una vittoria ex aequo. E i due atleti accettano l’oro a pari merito. Le spiegazioni possono essere molte, a cominciare dal timore di perdere lo spareggio, ma a me piace pensare che la loro scelta sia stata dettata dal sentirsi appagati, senza bisogno di dover dimostrare altro (e non sarebbe cosa da poco per un atleta spesso irrefrenabilmente sopra le righe come Tamberi). Anche qui c’è – o a me piace vedere – una cultura dello sport che non si ferma al risultato ma sa guardare più lontano.

Raramente lo sport – almeno quello a livello professionistico o di grandi eventi – riesce ad essere lezione di vita. Quando accade è bene segnalarlo. Senza retorica. A dimostrazione che ci sono, ovunque, culture diverse. Forse dovrebbero metabolizzarlo i commentatori sportivi, smettendo di inseguire miti, di esasperare la competitività e di relegare a buoni sentimenti “strappa lacrime” quelli che sono, in realtà, esempi di una cultura alternativa.

Livio Pepino (da “volerelaluna” del 2/8/24)