domenica 22 settembre 2024

Sul celibato: “eppure si muove”
Joseba Kamiruaga Mieza CMF


Un amico molto sveglio mi dice: «Che cosa aspetta la Chiesa per distinguere il ministero presbiterale dalla presidenza dell’assemblea domenicale? La pura presidenza dell’Eucaristia, lasciando tutto il resto ai preti. E perché non affidarla a «viri probati», uomini riconosciuti «giusti» dalla comunità? E mi nomina alcune persone (che ovviamente non conosco) della sua parrocchia che potrebbero essere adatte a svolgere questo compito.

La richiesta del mio amico si interseca con una questione che non deve essere accantonata, ma presa sul serio: la crisi – irreversibile - del presbiterato così come lo abbiamo conosciuto finora in Occidente. Una parabola gloriosa ma che rischia di avere un finale triste. Le ordinazioni presbiterali non sono più frequenti, ma sporadiche, in alcune - nella maggioranza? - delle nostre diocesi. Intanto aumenta l’età media dei preti e non si può pensare di fermare l’esondazione di un fiume con una diga di carta velina, come spesso accade, ad esempio, in certe configurazioni territoriali ecclesiastiche come le unità pastorali...

Forse – prima che sia solo l’ansia del tempo a dettare i tempi dell’agenda – è necessario prepararsi e prepararsi adeguatamente. Partendo da un dato incontrovertibile ricordato più volte dallo stesso papa Francesco: «Il celibato presbiterale non è un dogma di fede, ma una regola di vita che apprezzo tanto: un dono per la Chiesa. Non essendo un dogma di fede, la porta è sempre aperta, ma in questo momento ci sono altre questioni sul tavolo».

La questione del celibato presbiterale è sempre stata una questione di disciplina piuttosto che di dottrina stessa. Niente di dogmatico ma piuttosto una questione di convenienza. Sia sul piano pratico (non avere troppe preoccupazioni terrene) sia - potremmo dire - sul piano dell’immagine - il prete celibe testimone del soprannaturale -, il celibato sembrava dare maggiori garanzie rispetto alla possibilità del matrimonio.

Più di ottocento anni fa, nel 1179, il Concilio Lateranense III stabilì che il celibato ecclesiastico non è di natura divina, ma solo canonica, rappresenta cioè una tradizione che appartiene alla disciplina della Chiesa latina. In questo modo il citato Concilio Lateranense ha deciso di non modificare la «disciplina apostolica» dei primi sette concili ecumenici (riconosciuta anche dalla Chiesa ortodossa), che rendeva possibile l’ordinazione presbiterale anche per gli uomini sposati. Ma non la possibilità del matrimonio dopo l’ordinazione. Le Chiese orientali – ortodossa e cattolica – prevedono di fatto l’ordinazione dei seminaristi già sposati, ma non il matrimonio per i preti già ordinati. Mentre la Chiesa latina ha scelto di ordinare solo uomini celibi.

Il Concilio Ecumenico Vaticano II, nel decreto «Presbyterorum ordinis», ha riconosciuto che l’opzione celibataria non è richiesta dalla natura stessa del ministero. D’altra parte, nella Chiesa cattolica ci sono sempre stati uomini sposati che sono legittimamente ordinati ed esercitano il ministero presbiterale: sono quelli del rito cattolico orientale. Preti sposati, una pratica tradizionale nelle Chiese orientali, sia ortodosse sia cattoliche, e che è stata pienamente confermata dal Concilio Vaticano II.

Vi sono, tuttavia, anche nella Chiesa di rito latino, presbiteri sposati nel pieno e legittimo esercizio delle loro funzioni presbiterali. Si tratta di ministri giunti alla Chiesa cattolica dall’anglicanesimo o da altre chiese e gruppi cristiani. Nel giugno 2014 papa Francesco ha promulgato un decreto speciale che consente ai preti orientali sposati di lavorare nelle comunità cristiane della diaspora, cioè al di fuori dei loro territori tradizionali. Con ciò il papa ha abrogato i precedenti divieti. Una risposta per soddisfare le esigenze dei fedeli.

La questione del celibato obbligatorio per i preti è complessa, se non altro perché, con alti e bassi, è rimasta costantemente all’ordine del giorno negli ultimi decenni. I dibattiti, infatti, continuano ancora in molte realtà di base e incrociano posizioni diverse.

Alcuni sottolineano la difficoltà di una ricostruzione storica attendibile del celibato. Altri affermano la convenienza di inquadrarlo in una qualche forma di pratica comunitaria e all’interno di un programma di vita spiritualmente intenso e impegnato. Altri, pur apprezzandone il valore intrinseco, sostengono anche la possibilità di ordinare uomini di provata fede, anziani, sposati o vedovi, e di valido impegno pastorale. Sono questi i «viri probati» ricordati dal mio amico, umili servitori dell’Eucaristia. Non mancano, infine, le voci – non poche, per la verità – di chi chiede l’abolizione del suo obbligo, restituendolo alla sua natura originaria di opzione di scelta e, quindi, non di imposizione obbligatoria. Perché, dicono, in regime di libertà la scelta sarebbe più motivata.

I carismi non vanno esaltati in contrapposizione tra loro, ma piuttosto l’uno in armonia con l’altro. Anche perché ciò che conta veramente non è la consistenza o la configurazione oggettiva dei carismi, ma la qualità interiore – umana, morale, spirituale – della persona. Come se dicessimo, meno enfasi più sostanza: umana, morale, spirituale. Una sfida per tutti. Soprattutto per coloro, e sono ancora tanti, con quelle ferite nella carne – perché anche il celibato è così – che ogni giorno con passione e fedeltà raccontano la tenerezza di Dio. E nel frattempo forse sarebbe arrivato il momento di iniziare a sperimentare qualcosa.

La proposta che si fa oggi da più parti è quella dell’accesso a una doppia tipologia di ministero presbiterale: il prete celibe e il prete uxorato (uomini sposati).

Certamente il ministero celibe non va vietato quando è espressione di una libera opzione, frutto di un’autentica vocazione alla verginità. Ci sono buone ragioni per affermare che il celibato, vissuto nella gioia della libera scelta, costituisce non solo un segno della dimensione escatologica del mistero cristiano, ma anche uno statuto che offre una particolare disponibilità interiore a vivere il ministero presbiterale ordinato. Ma questo non esclude la plausibilità della presenza di un prete sposato, che ha, a sua volta, notevoli potenzialità anche dal punto di vista pastorale: basti pensare a quanto sia importante l’esperienza familiare per affrontare efficacemente le problematiche della vita quotidiana che coinvolgono la maggioranza dei fedeli.

Naturalmente si porrà la questione di come concepire il rapporto tra questi due tipi di ministero. L’importante è iniziare a ragionare e non nascondere ostinatamente la testa sotto la sabbia (anche la doppia o tripla vita di alcuni preti dovrebbe essere oggetto di veri interrogativi). E capire che il possibile abbandono dell’attuale disciplina celibe, lungi dal dover essere considerato come una resa allo «spirito dei tempi», diventerebbe occasione per un vero arricchimento dell’azione pastorale della Chiesa.

La possibilità di accedere al ministero in entrambe le condizioni di vita, oltre a costituire un atto di rispetto della libertà personale e a dare luogo a opzioni umanamente più solide perché più serene, potrebbe favorire la realizzazione della complementarità nell'esercizio del ministero presbiterale, che oggi è necessaria per interpretare correttamente la complessità delle situazioni e rispondere efficacemente alle esigenze di una condizione di secolarizzazione, che rende sempre meno percepibile la plausibilità della bellezza, della bontà e della verità della fede.

Forse mettere in discussione positivamente l’obbligo del celibato per il ministero presbiterale può anche aprire una serie di questioni complesse. In ogni caso penso:

1. - che abbiamo bisogno di vescovi illuminati e coraggiosi, che sappiano aprire la possibilità di diverse sperimentazioni e valutare nel tempo il frutto di queste nuove esperienze, a beneficio della Chiesa universale e di ciascun cristiano,
2. - che da tutto ciò deriva ancora una volta un radicale ripensamento della «forma» della Chiesa, sia con un nuovo clero, sia con un ruolo significativo per i laici. E il ruolo delle donne va ripensato. Gli argomenti teologici che impediscono l’accesso delle donne al ministero ordinato sono sempre meno difendibili teologicamente,
3. - in una Chiesa a dimensione globale, che abbraccia realtà sociali e culturali molto diverse, chiedersi cosa dice ai fedeli il celibato dei presbiteri potrebbe costituire una questione e un ulteriore volano per la riforma sinodale della Chiesa,
4. - questo tema aiuta anche a fugare ogni ipotetico dubbio circa l’inevitabile necessità di una riforma della Chiesa che dia maggior peso alle Conferenze Episcopali locali per promuovere l’inculturazione della fede in ogni realtà concreta. Il centralismo euro-occidentale è decisamente superato. È urgente una riforma di questo primato in una prospettiva sinodale.

La condizione attuale in cui la Chiesa cattolica afferma che il celibato è una possibilità e non una necessità del ministero presbiterale, è l'unica possibile e fedele ai dati biblici, storici e teologici. «La perfetta e perpetua continenza per il regno dei cieli […], non è certamente richiesta dalla natura stessa del sacerdozio, come risulta evidente se si pensa alla prassi della Chiesa primitiva», ma «ha per molte ragioni un rapporto di convenienza con il sacerdozio» («Presbyterorum Ordinis»,16). Anche per questo, sembrerebbe evidente che il dibattito potrebbe riguardare solo l’opportunità o meno di mantenere il celibato presbiterale, e non la sua necessità.

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Articolo pubblicato il 14.09.2024 in Religión Digital
( www.religiondigital.org)
Traduzione a cura di Lorenzo Tommaselli