venerdì 4 ottobre 2024

 Comunità  cristiana  di  base  di  via  Città  di  Gap,  Pinerolo

NOTIZIARIO DELLA CASA DELL’ASCOLTO E DELLA PREGHIERA

N°116 ottobre ‘24

Qui puoi sfogliare il notiziario

https://www.sfogliami.it/fl/302108/uuj616puex6537ugzr1nev75mnq7eye

 In evidenza:

     INCONTRI COMUNITA’ IN SEDE E SU MEET

- 1, 8, 15, 22 e 29/10 h18: gr. biblici on line

- 4, 11, 18, 25/10 e 1/11 h17: gr. bibl. sede

- 6 e 20/10 h10: eucarestia on line

- 27/10 h10: assemblea di comunità

     RECENSIONI E SEGNALAZIONI

- Quattro libri per vivere meglio

     SPUNTI PER MEDITARE E RIFLETTERE

- Il papa ballerino

- Quando la scuola è un pretesto

- L’inferno è dove lo creiamo noi

- Volere la luna, la Palestina e la censura.

     DALLA NOSTRA COMUNITA’

- Questa comunità

APPUNTAMENTI COMUNITA’ IN SEDE (v.Città di Gap) E SU MEET

NB: invitiamo tutte/i a partecipare ai tre consueti incontri comunitari settimanali:

- Gruppi biblici: tutti i martedì dalle ore 18 solo on line (collegamento dalle ore 17:45 al link che sarà segnalato sul blog di Franco Barbero) e i venerdì dalle ore 17 solo in presenza, presso la sede di via Città di Gap n.13, a Pinerolo.

- Eucarestie: solo on line la prima e la terza domenica del mese alle ore 10 (collegamento dalle ore 9:45 al link che sarà segnalato sul blog di Franco Barbero).

 

     MARTEDI’ 1 OTTOBRE h18 e VENERDI’ 4 OTTOBRE h17 – Gruppo biblico: Matteo, c.4.

     DOMENICA 6 OTTOBRE h 10 – Eucarestia on line (prepara il gr. del venerdì).

     MARTEDI’ 8 OTTOBRE h18 e VENERDI’ 11 OTTOBRE h17 – Gr. biblico: Matteo, c.5.

     MARTEDI’ 15 OTTOBRE h18 e VENERDI’ 18 OTTOBRE h17 – Gr. biblico: Matteo, c.6.

     DOMENICA 20 OTTOBRE h 10 – Eucarestia on line (prepara il gr. del martedì).

     MARTEDI’ 22 OTTOBRE h18 e VENERDI’ 25 OTTOBRE h17 – Gr. biblico: Matteo, c.7.

     DOMENICA 27 OTTOBRE h 10 – Assemblea di comunità on line

     MARTEDI’ 29 OTTOBRE h18 e VENERDI’ 1 NOVEMBRE h17 – Gr. biblico: Matteo, c.8.

RECENSIONI E SEGNALAZIONI (a cura di Franco Barbero)

Quattro libri per vivere meglio

1) TROVARE IL SENSO IN UN MONDO SENZA SENSO, Autori vari, Edizioni Apogeo, 300 pp. (23 euro)
Come analizzare in modo critico la realtà sapendo che viviamo in un mondo di trucchi, cercando di evitare le mille trappole e costruire seminando speranze. Pagine da leggere pensando al Terzo Millennio, ma vivendo appieno il presente con scelte di qualità.

2) GIOVENTÙ DEGLI ANTENATI, Alessandro Giammei, Einaudi editore, pp.115 (11 euro).
Il riconoscimento è uno zombie… Ormai il passato è fatto di sangue che sembra occupare troppo spazio nella cultura come fossimo vicini ad un'apocalisse dagli antenati a noi oggi.

 3) LA CITTÀ AUTISTICA, Alberto Vanolo, Einaudi editore, pp. 115 (12 euro)
Ho fatto una certa fatica a leggere queste pagine in cui si respira il vento del futuro sperando che si costruisca una città d'altro tipo, aperta alle differenze. Dove sia possibile e realizzabile uno spazio di incontro con le neurodiversità e dove ripensare altri ritmi, relazioni e modi di vivere. Una città così, secondo l'autore, sarebbe orgogliosamente aperta e avrebbe molto da offrire a chiunque.

 4) IL DUBBIO E IL DIALOGO, Gustavo Zagrebelsky, Edizioni Einaudi, 87 pp. (13 euro)
Norberto Bobbio è stato lo studioso del labirinto del dubbio, un "uomo del dubbio", ma anche un maestro del dialogo.
Il dubbio è stimolo alla domanda "Sarà come la penso io?" Nello stesso tempo il dubbio può fornire un contributo all'etica del dialogo. Il dubbio rende conviviali le relazioni e stimola ciascuno a cercare sempre l'ulteriorità e l'alterità. È il nemico della stasi patologica del possesso delle verità.

Vi consiglio questi libri; sono una facile lettura. Ve li consiglio anche come scritti che disarmano le aggressività, invitano al rispetto dell'altro e stimolano alla ricerca dentro la vita quotidiana. Quanto devo imparare dalla seconda lettura che sono solito fare dopo 15 o 30 giorni dalla prima.

Franco Barbero, 16 settembre 2024

SPUNTI PER MEDITARE E RIFLETTERE (dal blog di F. Barbero)

Il papa ballerino

Una pagina di Francesco Peloso su Domani di venerdì 20 settembre evidenzia un Papa ballerino e una Chiesa che cammina e balla come nel mondo nessuno sa fare.

Il Papa dice sì al culto di Medjugorie, ma non riconosce le singole apparizioni.
Questa consueta doppiezza della gerarchia che crede di essere onesta è l‘elemento che ha due risultati ben evidenti: la gente che va e segue il
culto è in costante aumento e sono l’Italia e la Polonia i due Stati che organizzano i maggiori pellegrinaggi un po’ in tutto il mondo.

La nota papale “Regina della Pace” con cui viene riconosciuta la fecondità spirituale del culto di Medjugorie valuta positivamente i frutti spirituali delle apparizioni e dell‘evento di Medjugorie.

Il Papa è molto insistente sul gran numero di pellegrini ed esorta la Chiesa a favorire la valorizzazione e diffusione di questa esperienza spirituale in cui lo Spirito Santo agisce fruttuosamente.

Si riserva sempre poco spazio al fatto che ogni culto mariano porta un mucchio di soldi. Si dice le “banche delle madonne” per indicare i traffici e liti sulla gestione del grande reddito tra gruppi, francescani e associazioni.

Qualcuno forse ricorda che nel 2014 la Madonna mi inviò un messaggio in cui mi dava “14 giorni di tempo per convertirmi e se non avessi ripreso la pratica del rosario, sarei morto”. La delegazione mi minacciò e io potei sorridere il quindicesimo giorno”.

Insomma il Papa in questa sua doppiezza cerca di accontentare tutti i suoi devoti, ma dice stupidaggini mariane una dopo l‘altra. E il Papa che tiene il tempo della pace su tutti i temi è un ballerino e ciò fornisce di lui una immagine buonista e sempre mariana. Gli affari bancari li conosce anche lui e chiude un occhio. Per il Vangelo non c’è posto.

Franco Barbero

Quando la scuola è un pretesto: cittadinanza e bisogni delle persone

     Nel panorama politico italiano, le proposte di riforma della legge sulla cittadinanza sono un genere letterario a parte: quelle avanzate e naufragate negli anni sono tali e tante da rendere difficile anche solo tenerne il conto. L’estate appena trascorsa ha dato il suo contributo: i successi conseguiti alle Olimpiadi da atlete e atleti con lo status di cittadine e cittadini ma con una pelle che si allontana dai canoni immaginati da chi ancora crede in una Italia “bianca” hanno riattivato il dibattito sul senso dell’appartenenza statale. Diversi quotidiani hanno pubblicato articoli in cui i criteri per il riconoscimento e la concessione della cittadinanza sono descritti e messi a confronto tra loro. La politica non si è fatta sfuggire l’occasione: alcuni esponenti del campo moderato hanno dichiarato il loro favore all’introduzione di uno ius scholae che conceda la piena appartenenza ai figli e alle figlie di immigrati che abbiano completato due cicli scolastici o, secondo altre proposte, la scuola dell’obbligo. Qualche giorno fa, in queste pagine, Gianluca Bascherini ha richiamato il dibattito agostano e ricostruito le proposte politiche che ne sono emerse, affrontando il tema, anche sul piano tecnico, con grande chiarezza e rigore. Sfrutto amichevolmente l’ottimo lavoro fatto da lui per entrare nel vivo della questione, dando per scontato lo scenario attuale.

     La cittadinanza è un nodo centrale per ogni sistema democratico, soprattutto se si considera la parola “democrazia” in un’accezione non meramente formale. Stabilire chi e a quali condizioni “appartiene” equivale a disegnare con chiarezza i confini di una collettività, determinando in particolare l’estensione dell’insieme costituito da coloro che possono contribuire alle decisioni comuni. Eppure, la cittadinanza è uno dei temi più strumentalizzati del dibattito pubblico. Troppo spesso le proposte di riforma sono alimentate non dalla reale volontà di modificare le regole del gioco ma dalla ricerca del consenso o, ancora più prosaicamente, da beceri calcoli elettorali.

     Una riflessione pubblica sulla cittadinanza, tuttavia, deve cercare di andare oltre i tatticismi politici e scavare più a fondo nelle logiche, non sempre esplicite, alla base dei criteri che regolano il riconoscimento e la concessione della piena appartenenza. Di solito, la discussione si ferma alla dicotomia tra ius sanguinis e ius soli, tendendo facilmente a polarizzarsi nello schema progressivo vs regressivo. I due criteri, in effetti, poggiano su principi molto diversi, diversamente accettabili sul piano etico e politico. Da una parte il nativismo, che si fonda su una visione organicistica della società: l’appartenenza funziona per trasmissione o contaminazione. Dall’altra il territorialismo, che, al contrario, valorizza la presenza materiale: l’essere in un luogo rende di per sé appartenenti. Come sottolineato da Bascherini qui e altrove, tuttavia, ius sanguinis e ius soli, pur nella loro diversità a prima vista irriducibile, condividono un’attitudine disciplinante. Inoltre, sono nei fatti nient’altro che strumenti, ossia tecnologie giuridiche impiegabili per raggiungere obiettivi variegati. A seconda del contesto in cui sono messi al lavoro e dal modo in cui sono dosati, consentono di dare alla collettività una forma desiderata, bilanciando in modo differente – grazie alla “collaborazione” con le norme in materia di ingresso e soggiorno – il rapporto tra il popolo e la popolazione: vale a dire, tra l’insieme di coloro che hanno la cittadinanza e l’insieme di coloro che, a prescindere dal fatto che siano o meno pienamente appartenenti, risiedono nel territorio statale.

     Sangue e suolo, inoltre, condividono un altro elemento comune: almeno nella loro forma pura, sono insensibili al tempo. Lo ius sanguinis evoca un legame di tipo biologico che si mantiene al di là della dimensione temporale, mentre lo ius soli ha a che fare con la nascita in un territorio, e prescinde quindi da una presenza stabile. Se il tempo non conta, lo spazio è invece piuttosto importante, quantomeno in uno dei due casi. Messo da parte nel criterio del sangue – ovunque si nasca o si viva si diventa o si rimane cittadine/i – ha un ruolo chiave in quello del suolo – il contatto stesso con il territorio, se avviene alla nascita, garantisce la cittadinanza. Il tempo, soprattutto se considerato in relazione allo spazio, è strategico invece per gli altri criteri che portano alla cittadinanza, meno discussi e dibattuti ma rilevanti in una fase storica in cui, in Italia e non solo, l’idea che la piena appartenenza debba essere “guadagnata” sta acquisendo una centralità crescente. Lo ius domicilii, ad esempio, si basa direttamente sul tempo considerato nello spazio: la residenza continuativa e perdurante porta al riconoscimento dell’appartenenza. Lo ius connubii prevede invece che sia il matrimonio, non la filiazione, a determinare la cittadinanza, a patto che la relazione coniugale si protragga per un certo periodo, e considera rilevante il fatto che la relazione abbia luogo nel territorio statale. Lo ius scholae compie un’operazione simile focalizzandosi però sulla formazione: l’esposizione sufficientemente prolungata a un sistema educativo e ai valori da questo trasmessi rende un individuo ancora giovane abbastanza simile al resto della società, tanto da esserne considerato parte integrante e da meritare lo status di cittadino.

     Nell’ultimo dei casi considerati, tempo e spazio sono dimensioni centrali ma, da sole, non dirimenti. La logica alla base dello ius scholae, in sintesi, è la seguente. Un certo numero di anni di residenza è una condizione necessaria per concedere la cittadinanza a chi arriva nei primi anni di vita o nasce da persone immigrate, ma non è sufficiente. Perché la macchina del riconoscimento formale compia il suo lavoro fino in fondo serve un altro elemento: il merito. La presenza duratura nel territorio dello stato “ospitante”, in altre parole, non è determinante di per sé. Lo diventa in quanto fa da contenitore alla partecipazione scolastica: è l’acculturazione favorita dalla scuola a rendere una persona meritevole di essere considerata cittadina. In sostanza, siamo dentro l’orizzonte della civic integration, una visione, affermatasi in molti stati europei sul finire degli anni Novanta, che si basa sull’idea secondo cui l’ingresso e/o il soggiorno in uno stato debbano essere subordinati alla dimostrazione di un certo livello di conoscenza dei valori civici, della cultura e della lingua del paese di arrivo. Applicandosi a migranti adulti, l’integrazione civica si traduce nell’imposizione obbligatoria di corsi e test. Nel caso di minori, si declina attribuendo al percorso scolastico la capacità di provare l’avvenuto inserimento nella società. La logica è la stessa delle politiche di attivazione, sperimentate a partire dagli anni Novanta del Novecento nel campo del lavoro: la condizionalità. Chi vuole risalire la piramide della stratificazione civica, ottenendo uno status superiore – il rinnovo del permesso di soggiorno, nel caso dei migranti adulti, e la cittadinanza, nel caso di persone più giovani –, deve accettare di essere “in prova”: deve dimostrare cioè la volontà di attivarsi, assumendo un atteggiamento positivo e collaborativo e riuscendo a raggiungere determinati obiettivi.

     Al di là della logica meritocratica, il tempo, se messo al centro del percorso di attribuzione della piena appartenenza, è un elemento problematico. Non a caso, parte delle polemiche estive si è giocata sugli anni di frequenza scolastica necessari a ottenere la cittadinanza. Ogni volta che la dimensione temporale entra in gioco, il principio territoriale si indebolisce. Misurando la durata di una qualsiasi attività relazionale – nel nostro caso, la scuola – a essere scalfita è l’idea che la presenza, di per sé, basti a diventare parte di una collettività.

     Eppure, proposte teoriche come la territorialità etica di Linda Bosniak e la domicile citizenship di Harald Bauder portano avanti un principio molto semplice e, a mio avviso, ampiamente condivisibile: i diritti (soprattutto sociali) e il riconoscimento formale dovrebbero fondarsi sul semplice fatto di essere in un luogo, senza altre condizioni, ed essere estesi di conseguenza a tutte le persone che sono territorialmente presenti all’interno di uno stato a prescindere dalla durata del loro soggiorno. Attribuire rilevanza al tempo, invece, promuove un principio diverso, che finisce per riprodurre una logica organicistica: l’appartenenza presuppone un qualche tipo di legame che rende un soggetto esterno “organico”, appunto, al “corpo sociale”. La logica del radicamento, in altre parole, si sostituisce a quella della semplice localizzazione e, soprattutto, oscura un altro elemento: le necessità personali. Come rilevato più volte dalla Corte costituzionale – in particolare con la sentenza n. 44 del 2020, che dichiara illegittima una legge regionale sull’accesso all’edilizia residenziale pubblica – è incostituzionale introdurre requisiti limitativi del tutto estranei alla valutazione del bisogno, premiando al contempo la pregressa residenza, che nulla ha a che fare con le condizioni materiali di una persona. Insomma, considerare il tempo rivolgendosi al passato significa valorizzare presunti legami che, come tali, non sono per forza significativi. Forse, piuttosto, sarebbe opportuno rivolgersi al futuro, attribuendo importanza a relazioni e connessioni ancora da costruire, le quali, peraltro, sarebbero favorite dal poter contare su diritti concretamente esercitabili, ossia sulla soddisfazione dei bisogni.

     Lo ius scholae, invece, guarda all’indietro non in avanti: promuove cioè l’idea secondo cui una frequenza scolastica prolungata è indice del fatto che le giovani persone migranti sono state “assorbite” nel tessuto sociale. Alle persone non italiane, in sostanza, è richiesto un radicamento che, oltre a valere di per sé, è una prova dello sviluppo di legami e connessioni. Sulla carta, può sembrare un principio di buon senso. Il punto però – ed è un punto che riguarda in generale anche le politiche di integrazione – è l’asimmetria tra chi la cittadinanza ce l’ha e chi invece no. Una persona italiana per nascita, infatti, non è obbligata a dimostrare di avere relazioni sociali per mantenere il suo status. Né rischia di essere espulsa dal territorio qualora non conosca bene l’italiano o sia scarsa in educazione civica. Al limite, se è in età scolastica, si becca una bocciatura.

     Una discussione critica e accorta sulla cittadinanza, dunque, deve cercare di scavare al di sotto non soltanto dei dibattiti politici ma anche dei criteri giuridici, interrogando le regole del gioco per comprenderne la logica di fondo e, soprattutto, le implicazioni materiali. Inutile dirlo, si tratta di un campo minato, a livello scientifico e politico. La cittadinanza, storicamente, è uno status ambiguo e controverso. Lottare perché venga estesa non vuol dire amarla e apprezzarla. Anzi, si può e si deve cercare di superarla senza per questo rinunciare a migliorarla, finché esiste. In altre parole, è opportuno separare la strategia dalla tattica, evitando fughe in avanti che, in alcuni casi, rischiano di essere regressive. Come quella di Giorgio Agamben, il quale, nel 2017, ha deciso di non firmare l’appello per lo ius soli in nome del rifiuto, assoluto, di un istituto giuridico ritenuto inaccettabile, tanto da chiudere la sua uscita pubblica in questo modo: «Se fosse possibile (ma non lo è), firmerei volentieri un appello che invitasse ad abiurare la propria cittadinanza. Secondo le parole del poeta: “la patria sarà quando tutti saremo stranieri”». Una certa dose di realismo, insomma, è necessaria.

     Purtroppo, uno scenario senza confini interstatali e, quindi, senza appartenenze stato-nazionali è poco realistico, almeno nell’immediato. Nell’attesa – se possibile “attiva”, ossia fatta di impegno, civico e politico – che si realizzi, è bene non dimenticarsi di chi rimane fuori dal perimetro della cittadinanza. Ogni minimo spazio di apertura, di conseguenza, deve essere presidiato e sfruttato, fino in fondo.

Enrico Gargiulo (da “Volerelaluna”, 26 settembre 2024)

L’inferno è dove lo creiamo noi: idiozie dogmatiche infernali

La violenza nella Bibbia è molto diffusa. Lo stesso Gesù, esempio di magnanimità, usa talvolta linguaggi inquietanti. Raccontando la fine della vita spiega come si comporterà il figlio dell'uomo nel giorno del giudizio universale (altra immagine ripugnante),"Egli dirà ai malvagi: va’ lontano da me, maledetto, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli" (Matteo 25, 41).

Non parliamo poi dell'inferno. Per il magistero cattolico per secoli è una verità eterna, ancora oggi. Nel 1215 il Concilio Lateranense IV proclamò come verità assoluta: ”Alla fine dei tempi verrà Gesù Cristo per giudicare i vivi e i morti e per compensare ciascuno secondo le proprie opere i reprobi come gli eletti. Tutti risorgeranno con i corpi di cui ora sono rivestiti per ricevere secondo che le loro opere sono state buone o malvagie”: “gli uni la pena eterna con il diavolo, gli altri la gloria eterna con Cristo. Anche i bambini colpevoli del solo peccato originale vanno all'inferno".

Insomma un Dio sadico e vendicativo punirà per l'eternità anche un neonato se muore senza il battesimo che lo "laverebbe" dalla macchia del peccato originale.

Papa Benedetto XII nel 1336 proclamo: "Noi definiamo che, secondo la volontà di Dio, le anime di coloro che muoiono in stato di peccato mortale, subito dopo la loro morte discendano all'inferno dove sono tormentate dai supplizi infernali".

I predicatori per secoli continuarono a terrorizzare i fedeli e si diffusero in tutto il popolo di Dio racconti terrificanti sulle pene infernali… Nemmeno ora hanno cancellato l'inferno dal catechismo cattolico e le stupide apparizioni mariane usano sovente l'appello all'inferno.

Intanto pensiamo a quale chiesa del terrore il popolo di Dio è stato oggetto di predicazioni.
E non tutti se ne sono liberati per aprire il cuore al Dio dell'Amore e del perdono.

Grazie, o Dio, l'unico inferno l'abbiamo creato noi in molte parti del mondo. Tu sei il Dio dell'Amore e del perdono, il Dio che accoglie tutti nella gioia eterna con Te. Ma come può un cristiano pensare ad un Dio castiga matti?

Franco Barbero, 18 settembre 2024

Volere la luna, la Palestina e la censura di Facebook

La storia delle guerre è sempre anche una storia delle censure del più potente nei confronti dei più debole e di coloro che provano a raccontarne le ragioni. È ciò che sta accadendo adesso e che, in piccolo, coinvolge anche Volere la luna. Ma andiamo con ordine.

Che la guerra in Medio-oriente non sia cominciata con l’attacco del 7 ottobre scorso è indubitabile. E anche la censura, rispetto ai fatti che la riguardano, non è cosa nuova. Già in un rapporto del 2021, Human Rights Watch (Israel/Palestine: Facebook Censors Discussion of Rights Issues) ha messo in luce la prassi, da parte di Facebook, di rimuovere indebitamente post di palestinesi e di attivisti pro-palestinesi, che descrivevano le violazioni dei diritti umani commesse durante l’aggressione israeliana del maggio 2021. La polemica sull’invisibilizzazione dei contenuti sulla Palestina da parte delle piattaforme digitali non è quindi certamente nuova. In precedenza, nel 2019, anche l’organizzazione ImpACT International for Human Rights Policies, aveva accusato Israele di «sfruttare i suoi rapporti con l’azienda di Facebook per combattere i contenuti palestinesi nel cyberspazio».

Tuttavia, quanto sta avvenendo negli ultimi mesi rende particolarmente importante mantenere alta l’attenzione sulle conseguenze di tali politiche. A quasi un anno di distanza dagli attentati terroristici del 7 ottobre 2023 e dalla repressione, ancora in corso, operata da Israele nella striscia di Gaza (tale da portare la stessa Corte penale internazionale di giustizia a qualificarla come genocidio) e in Cisgiordania, la censura quotidianamente perpetrata da parte delle principali piattaforme digitali (prime tra tutte Facebook e X) porta con sé l’effetto di soffocare «le voci a sostegno dei palestinesi di Gaza» (di nuovo così Deborah Brown, direttrice associata per il settore Tecnologia e diritti umani di Human Rights Watch, nell’ultimo rapporto Meta’s Broken Promises: Systemic Censorship of Palestine Content on Instagram and Facebook). Profili sospesi, impossibilità di interagire con post, video o storie, che vengono resi invisibili fino al cosiddetto shadow ban (ossia, quella pratica utilizzata dai social networks per cui i contenuti postati da un determinato utente vengono nascosti agli altri), difficoltà a seguire o taggare account, restrizioni all’uso di determinate funzionalità come le live di Instagram o le dirette Facebook e contenuti cancellati per violazioni degli standard della community, con impossibilità da parte degli utenti stessi sia di partecipare alla formazione delle «regole del gioco»– in molti casi nemmeno pienamente conosciute o conoscibili– sia di rivendicare diritti nei confronti di questi stessi intermediari o di contestare le decisioni da loro assunte.

Così è successo negli ultimi giorni anche per gli articoli di Valentina Pazé (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2024/09/11/gaza-linformazione-negata-e-lennesimo-tradimento-dei-chierici/) e Sergio Labate (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2024/09/25/israele-loccidente-e-il-trionfo-della-barbarie/) pubblicati su questo sito. Rimossi dal social network di Meta perché apparentemente (e incomprensibilmente) qualificabili, ai sensi degli (oscuri) standard della community come spam, ossia un’attività volta a utilizzare «link o contenuti fuorvianti per indurre le persone a visitare un sito web o rimanerci». Cancellati, quindi, senza appello. Nonostante la richiesta di riesame della rimozione, rimasta del tutto inevasa.

Si è detto come ciò rappresenti, da tempo, una modalità abituale di funzionamento di tali piattaforme. Venuta meno l’illusione secondo cui la rete, aperta, globale e decentralizzata, avrebbe dovuto realizzare un modello informativo accessibile e orizzontale, capace di garantire uno sviluppo della comunicazione disintermediata e di restituire potere agli individui, ciò a cui si assiste oggi è che il web, spesso, lungi dal consentire di ampliare la sfera di libertà e di rafforzare la partecipazione democratica, pur permettendo in linea teorica il più ampio accesso al pluralismo informativo, non ha consentito a queste condizioni di affermarsi in pieno. Quell’equilibrio tra fruitori e distributori dell’informazione, che avrebbe dovuto garantire al nuovo sistema di comunicazione di essere al servizio dell’individuo e della sua libera determinazione, ha lasciato spazio a una società in cui le tracce digitali che il singolo produce e distribuisce con ogni sua opinione o comportamento online sono costantemente monitorate da parte dei pochi soggetti in grado di ordinare tale mole di informazioni: appunto, le piattaforme digitali. Queste ultime si pongono così nella condizione di incidere e stravolgere l’assetto concreto dell’esercizio della libertà di informazione: impongono regole e limiti alla circolazione delle idee, filtrano le informazioni accessibili da parte di ciascun utente e definiscono contenuti di diritti e libertà costituzionali, nonché le procedure per il loro godimento.

Si assiste in questo senso a una privatizzazione de facto della censura dei contenuti, considerati – discrezionalmente e arbitrariamente – non conformi alle policies e ai termini di servizi di tali piattaforme. Policies e termini di servizio che, proprio poiché discrezionalmente e arbitrariamente posti (nonostante i più recenti interventi normativi operati dal legislatore europeo), sono destinati quotidianamente a mutare. Proprio con riferimento allo sterminio in corso a Gaza, il Wall Street Journal (Inside Meta, Debate Over What’s Fair in Suppressing Comments in the Palestinian Territories), ha reso noto che Facebook, a partire dai fatti del 7 ottobre, ha «abbassato la soglia dei suoi algoritmi per rilevare e nascondere i commenti che violano le Linee guida della community dall’80% al 40% per i contenuti provenienti dal Medio Oriente, e del 25% per i contenuti provenienti dalla Palestina».

Il rischio di tutto ciò, oggi, è che, se è vero (come è vero) che quello cui stiamo assistendo è «il primo genocidio nella storia dell’umanità trasmesso in diretta» (così l’ex portavoce dell’Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e l’Impiego dei Rifugiati Palestinesi nel Vicino Oriente UNRWA, Chris Gunnes), le violazioni dei diritti umani che, in conseguenza di ciò, vengono quotidianamente perpetrate finiscano per essere semplicemente rimosse con un click; oscurate, in questo senso, da intermediari digitali che decidono se e cosa silenziare ed eliminare e che nei fatti impediscono quella pluralità di punti di vista imprescindibili per rendere i singoli partecipi di una pratica sociale condivisa. Il tutto, con effetti sul modo di percepire e interpretare la realtà e, quindi, di produrre cambiamenti nella stessa struttura del discorso pubblico.

Francesca Paruzzo (da “Volerelaluna”, 30/9/24)

DALLA NOSTRA COMUNITA’

Questa comunità

·      Abbiamo preso congedo da settembre e ti ringraziamo, o Dio, perché i due gruppi biblici hanno iniziato in queste quattro settimane la lettura del vangelo di Matteo, con impegno e gioia. Siamo giunti ad ottobre con alcune proposte nel cuore.

·      Credo che sia necessario confrontarci su quanto è emerso al convegno europeo delle comunità di base, svoltosi a Pesaro a fine settembre. Sarebbe bello trovarci un pomeriggio o una serata, per verificare se può nascere qualche nuova idea o progetto

·      Un avvenimento tutto da pensare a livello attuativo: il 27 ottobre si celebra la giornata mondiale del dialogo e della relazione tra cristiani e musulmani. Potremmo organizzare qualcosa anche a Pinerolo? Dobbiamo riattivare momenti di confronto vero.

·      Le comunità hanno bisogno di fare festa. Prendiamo esempio da Maria Grazia e Giorgio e dalla loro bellissima festa per i 50 anni di matrimonio, con la presenza di figli e amici.

·      Questo notiziario vuole sollecitarci a organizzare i piccoli e grandi eventi che ho ricordato, ma vuole soprattutto far giungere un saluto amoroso, affettuoso e speranzoso ad Alfredo e a quanti, per età o malattia, soffrono, con tanta fiducia in Dio. Giunga a loro un abbraccio da tutta la comunità. Vita, salute, malattia o morte: siamo nelle mani di un Dio che è amore e che ci da tanta voglia di vivere il vangelo.

Franco Barbero

Il nostro notiziario

Grazie alla spedizione via e-mail abbiamo ridotto il numero di copie cartacee del notiziario. Per ricevere il notiziario via e-mail contattare Francesco (320-0842573).

CONTATTI

·        don Franco Barbero: 0121-72857; 340-8615482; e-mail: donfrancobarbero24@gmail.com

·        Manuela Brussino: 347-2997935.

·        Ada Dovio: 340-4738130

·        Francesco Giusti: 320-0842573; e-mail: francesco.giusti@icmarro.edu.it

·        Franca Gonella: 338-5622991; e-mail: francagonella49@gmail.com

·        Antonella Ippolito e Sergio Speziale: zimtvanillig@gmail.com

·        Ines Rosso: 339-8310247