In libera traduzione
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Lettera n. 33
“Tutti Santi”, ma ancora?
Venerdì 1 novembre celebreremo la festa di Ognissanti, la festa di tutti i santi. Non i grandi santi del calendario, ma i tanti piccoli santi anonimi che tengono insieme il mondo.
Nutro rispetto e molta ammirazione per questo mondo discreto e indaffarato di santi ombra e sono lieta che a loro sia riservata una grande festa.
Potrei facilmente dire cose positive su tutte le festività cristiane. Arricchiscono, informano su *chi siamo* e su cosa può essere una *vita buona.* In questi tempi di ricerca spirituale ancora annaspante, ingenua e talvolta incline a sottovalutare il capitale cristiano, queste feste sono un tesoro da custodire.
Purtroppo, nel continuo processo di inaridimento del messaggio cristiano, sono diventate feste “obbligatorie”, quindi sinonimo di costrizione. Di conseguenza, in queste “festività pubbliche” che hanno generato, a volte crediamo di liberarci allontanandoci da loro.
Proviamo insieme a fare luce su una delle ricchezze antropologiche che emergono dalla festa di Ognissanti. Riguarda la parola stessa santo. Cos'è un santo? Lui o lei è colui la cui vita è esemplare. Come? Perché cerca di applicare l'esortazione fondatrice di Gesù, che la liturgia inserisce nel menù del giorno, le Beatitudini. Secondo loro la felicità va agli esseri poveri di cuore, miti, misericordiosi, operatori di pace, afflitti, perseguitati per la giustizia.
Programma radicale, che esplora gli aspetti meno frequentati della condizione umana, poiché li mette alla prova e va contro le idee comuni. Il calvario, infatti, permea la vita di molti santi. Il santo disturba, e anche minaccia, perché mette in pericolo i potenti e chi sfrutta gli altri. Inoltre, troppo spesso, viene incompreso, emarginato dalla società, perseguitato, messo a morte.
Non crediamo che queste caratteristiche siano quelle di tempi lontani. Negli attuali regimi autoritari, nella recente Unione Sovietica e nell’attuale Russia, in Sud America, in alcuni paesi guidati dall’Islam radicale, uccidere per questi motivi è frequente. E molto spesso viene uccisa anche la memoria stessa dei loro nomi.
Non dimentico che la liturgia del giorno evoca la prova: «Sono venuti dalla grande prova, hanno lavato le loro vesti, le hanno imbiancate nel sangue dell'agnello» (Ap 7,14). Strano, imbiancare un capo di abbigliamento col sangue, ma a volte il simbolismo prevale sulla materialità dei fatti. L'autore intende dire che la passione di Cristo, dono della vita, cancella sia il peccato che ogni sofferenza.
Situato “altrove”, il santo va anche controcorrente rispetto alle idee comuni. Così ha fatto Francesco d'Assisi che ha abbracciato Madonna Povertà, Massimiliano Kolbe che ha donato la sua vita perché potesse vivere una donna destinata alla camera a gas, san Luigi Gonzaga che ha trasformato una vita brevissima in una vita realizzata, e tanti altri. Tutte esistenze che tendono a rendere l'umanità più unita, più in pace, ma che si svolgono lontano dalle vie del successo...
I salmi ricordano questo giubilo nel vivere “in mare” e ne ringraziano Dio: “Mi ha messo in mare, mi ha liberato, perché mi ama”. Sal 17 (18), 20. Così si esprime anche l'istruzione data a Gerusalemme: «Allarga lo spazio della tua tenda, lo spazio delle tue dimore, si allarghi!». (Isaia 54:2).
Invito a comprendere in modo spirituale, ovviamente! Ma scommetto che non è il turismo spirituale che interessa ai santi, né il desiderio di “controllare tutte le caselle”, e nemmeno “di farlo conoscere”. Non hanno fretta di riferirlo!
La povertà, l'afflizione degli altri, non le vedono né come virtù né come esotismi, ma come carenze a cui rimediare. Né è la perfezione a fare il santo. Forse hanno sperimentato la tentazione, ma l’hanno superata. Impararono che era un'illusione irraggiungibile come l'orizzonte. Una cosa “sempre più” crudele che porta più sicuramente al suicidio che alla beatitudine. Inoltre, il desiderio di perfezione, mettendo da parte i perfetti, gli eroi, isola invece di connettere gli esseri umani.
Sappiamo oggi che questo desiderio di perfezione è solo la faccia visibile di un iceberg sepolto nel profondo delle nostre storie. Viene dalla sete di essere amati o da un divorante senso di colpa.
Entrambi lasciano l’amaro in bocca perché non facciamo mai abbastanza per “soddisfare” le aspettative dell’altro, genitore o dio. Chi desidera essere perfetto viene sacrificato sull'altare della perfezione. Non è altro il desiderio di fuggire dal mondo che rende santo.
Anche lì la tentazione potrebbe essere esistita. Ma nessuno confonderà un santo con una persona antisociale. Nel santo c'è la preoccupazione di non dichiararsi a parole, ma di agire per gli altri.
San Giovanni è chiaro quando dice: Chi dice di amare Dio ma non ama il fratello è un bugiardo (1 Gv 4,20). Insomma, qualcosa di più profondo del gusto del martirio, della preoccupazione per l'avventura, della perfezione, o della fuga dal mondo che ama i santi.
Allora dov’è la forza trainante della loro vita? Senza dubbio hanno sempre avuto questa domanda sulle labbra: perché, per cosa, per chi viviamo? La vita di un santo forse è proprio questa vasta questione. Spesso inizia con un granello di sabbia in una vita tranquilla, una malattia, la morte di una persona cara, una nostalgia inspiegabile, anche un incontro, che porta a una risposta alla domanda di significato.
L'inizio della vita di un santo passa dunque attraverso questo momento decisivo, che fa del diritto alla propria vita un vettore. Un vettore, ma verso dove? Verso una passione, un hobby? Insufficiente! Se il senso della mia vita è fare la pizza, basterà questo a fare di me un santo? Certamente no… Forse mi chiameranno “la dea della pizza” (almeno, non mi sarà proibito), ma non sarò mai “la santa delle pizze”! Per fare un santo ci vuole “l’altro”.
Lo dico banalmente, ma c'è tutto. Il santo riuscì in questa “uscita da se stessi” che chiamiamo anche estasi, che è soprattutto dimenticanza di sé, secondo le parole di Georges Bernanos (“La grazia è dimenticare se stessi”. (*Journal d'a country church* ).
Sì, il santo “ama umilmente se stesso” e dimentica se stesso. La santità non è più lontana quando mi spingo *oltre me stesso*, verso il volto degli altri, e quando lo preferisco al mio. Il santo è colui che ha ascoltato con tutto se stesso le indicazioni del Creatore nel libro della Genesi (2), facendo cadere un torpore nell'essere umano minacciato di depressione perché solo, per far accadere accanto a lui cose a * faccia*, *aiuto*, meglio ancora, *aiuto*.
Non senza ragione questa osservazione del Creatore è la prima in tutta la Scrittura. È il programma proposto all'essere umano, il fondamento della sua esistenza. Noto, però, che Dio non dà alcun ordine, fa questa raccomandazione a se stesso, come se volesse lasciare all'uomo tutta «la libertà di figli di Dio» (Romani 8,21). E sosterrei volentieri che tutta la Rivelazione, tutta la vita di Gesù, tutta la sua Passione, quella di Paolo e di altri, non fanno altro che dispiegare, dispiegare, spiegare questa istruzione fondamentale.
Non solo genera santi *cristiani*, ma permette la vita comune di tutti, che credano o meno nel Dio della Genesi. In questo stesso scopo santi e credenti secolari si uniscono senza che vi sia senza dubbio alcun bisogno di distinguerli. Detto questo, è chiaro che oggi esistono forze un po’ ovunque, in noi e nel mondo, che rendono più difficili i soliti atteggiamenti che ho appena constatato in questa lettera: spirito di individualismo, carenze emotive, cospirazione, sfiducia multipla, recrudescenza dei regimi autoritari.
Tutto ciò richiede inventiva per chiedersi: cosa significa oggi *aiutare gli altri*? Il lavoro non mancherà, la responsabilità cristiana verso gli altri è appena iniziata. Avremo bisogno di festeggiare a lungo la festa di Ognissanti!
Buona festa di Ognissanti!
Anne Soupa
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