Il 2024 e la fine del sogno europeo
Tra le molte cose negative che il 2024 ci lascia in eredità c’è la fine del sogno europeo. La crisi dell’Unione era evidente da tempo. Ma l’anno che si chiude ha segnato un salto di qualità irreversibile. Mi limito ad alcuni flash.
1. Ciò che ha stravolto tutto è stata la guerra. Fino agli anni venti un’affermazione bloccava sul nascere ogni critica all’Unione Europea. Veri – si diceva – tutti i difetti, le incongruenze, i tradimenti accumulati nel tempo, ma l’Europa, questa Europa, ci ha messi per settant’anni al riparo dalle guerre che periodicamente affliggevano il continente, innescate da mai sopiti nazionalismi e dai sottostanti interessi economici. Pur con qualche significativa eccezione – a cominciare dalle vicende della ex Jugoslavia – è andata effettivamente così. L’Unione Europea è stata veicolo di pace: e non è poco, anzi è forse il massimo che le si poteva chiedere! Poi, però, la guerra in Ucraina ha cambiato tutto. E nell’ultimo anno c’è stata un’ulteriore escalation. L’Europa ha definitivamente “cambiato pelle”. Da garante di pace si è trasformata in fonte e artefice di guerra: nei suoi confini, ai suoi margini e a livello internazionale, fino a identificarsi in toto con la Nato (cioè con un’alleanza militare sempre più aggressiva) e a diventare, con gli Stati Uniti, il principale partner di Israele e, dunque, complice del genocidio del popolo palestinese. A ciò ha fatto seguito un riarmo senza freni e oggi, mentre il bilancio per gli armamenti è ovunque in crescita, il rapporto Draghi ne propone un incremento strategico (https://volerelaluna.it/controcanto/2024/09/20/il-ritorno-di-mario-draghi-camuffato-e-con-lelmetto/) ed è all’ordine del giorno la conversione dell’industria dell’auto, ormai alle sue ultime performances, in industria bellica. L’Europa di pace disegnata nella Carta di Ventotene è un sogno irrealizzato. E di un’Europa che ha tradito se stessa non si sente davvero il bisogno. Quello intervenuto è un vero cambiamento genetico che ha trasformato l’Unione europea da ancora di salvezza in pericolo per tutti.
2. C’era, alla base dell’Unione Europea, una seconda promessa: quel “mai più” diventato stella polare del progetto di Europa dopo che, il 27 gennaio del 1945, i soldati dell’Armata Rossa varcarono i cancelli di Auschwitz. Mai più nazismo, mai più fascismi, mai più nazionalismi, mai più razzismo istituzionale, mai più negazione dell’umano. Anche questa promessa è fallita. Il nazionalismo, che l’Europa avrebbe dovuto sconfiggere e sradicare per sempre è tornato prepotentemente in primo piano. E non solo nei singoli Stati membri. Paradossalmente è diventato, esso stesso, un connotato dell’Unione. Le politiche migratorie ne sono la cartina di tornasole. Dopo alcuni decenni di apertura e di accoglienza, in particolare negli Stati nordici (dentro e fuori l’Unione) e in Germania, le parole d’ordine sono tornate a essere “chiusura”, “rifiuto”, “inferiorizzazione” (con fenomeni di resistenza solo nelle pieghe società e a livello di organi giudiziari). Da (auspicata) terra di accoglienza e di rifugio, l’Europa si è trasformata in fortezza da blindare ai confini con muri, fili spinati, “blocchi navali”. Le norme sull’immigrazione, tese a disumanizzare i migranti, sono diventate le leggi razziali del nuovo millennio. E, intanto, finanche il ricordo del nazismo e dei fascismi si è affievolito e il Parlamento europeo, mosso da interessi politici contingenti, si è spinto sino a riscrivere la storia: è il caso della risoluzione 19 settembre 2019 con cui il nazismo è stato equiparato al comunismo (https://volerelaluna.it/rimbalzi/2019/09/23/il-parlamento-europeo-rovescia-la-verita-storica/).
3. La garanzia del “mai più” è stata cercata, fin dall’inizio, in un assetto politico costruito sull’asse dei due Stati economicamente più forti (la Germania e la Francia) e delle due “famiglie politiche” più consistenti (i democratici cristiani/liberali e i socialdemocratici). Questo assetto ha tenuto, politicamente, per alcuni decenni. Ma oggi non esiste più. Le destre – le destre eversive e nostalgiche – sono al potere in diversi paesi dell’Unione (a cominciare dall’Ungheria e dall’Italia) e aumentano, ovunque, i consensi, con serie possibilità di successo anche in Francia e in Germania. E la loro ombra lunga condiziona ormai la stessa Commissione e segna, nel programma e nella composizione, il secondo mandato di Ursula von der Leyen. Lo ha denunciato su queste pagine, già all’indomani delle elezioni europee, Marco Revelli: «Il voto appena concluso non ha spostato solo di qualche unità, in più o in meno, gli schieramenti parlamentari ma ha rivelato una mutazione profonda, antropologica, politica, culturale di dimensioni estreme. Interi strati tettonici si sono spostati. L’Europa, come l’abbiamo conosciuta fino ad ora, dopo che il bradisismo elettorale ne ha svuotato politicamente il baricentro franco-tedesco, non esiste più. La grande potenza culturale che era, al servizio dell’equilibrio generale, si è decomposta, non ha più una cultura condivisa, non ha neppure più il concetto di cultura. Non sa cosa sia, a cosa serva, come servirsene per difendere la sopravvivenza comune» (https://volerelaluna.it/commenti/2024/06/19/europa-occidente-il-canto-stonato-delle-anatre-zoppe/).
4. Tutto questo non è accaduto per caso. Vi hanno concorso un preciso modello economico e una altrettanto precisa architettura istituzionale. Il modello economico è quello, liberista, dell’Europa dei mercati e della Banca centrale europea che ha strozzato in passato i paesi più fragili (a cominciare dalla Grecia) e che oggi – rilanciato dopo la breve parentesi della pandemia – sta producendo nell’intero continente stagnazione economica, disoccupazione di massa, crescita della povertà, deperimento dei sistemi di welfare (https://volerelaluna.it/politica/2023/09/28/le-elezioni-europee-senza-leuropa/). E ciò senza prospettive di un futuro diverso, considerata anche la totale subalternità europea alla politica economica degli Stati Uniti che ha reso l’Unione sostanzialmente irrilevante nella contesa economica globale, riservata a Stati Uniti e Cina (con sullo sfondo alcuni paesi emergenti come India e Brasile). L’architettura istituzionale, a sua volta, è stata – ed è – contrassegnata da un profondo difetto di democrazia, in evidente dissonanza rispetto al progetto di Ventotene che prefigurava un’Europa non solo unita, pacifica e solidale, ma anche dotata di istituzioni in grado di rappresentare direttamente, senza la mediazione degli Stati nazionali, le aspirazioni, le idee, i bisogni dei cittadini europei. Ciò a cui siamo di fronte invece – per usare parole di Valentina Pazé – è qualcosa di profondamente diverso: un soggetto composto da 27 paesi in cui non si decide a maggioranza (seppur qualificata) ma si procede per continue mediazioni tra gli interessi degli Stati membri al fine di raggiungere l’unanimità, e in cui il Parlamento – unico organo eletto a suffragio universale e diretto da tutti i cittadini – è privo dei poteri e delle prerogative propri dei parlamenti democratici. Tanto da arrivare al paradosso che «guardando alle sue istituzioni politiche, l’Unione continua a non avere i requisiti democratici che si richiedono agli Stati per farne parte» (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2022/12/21/europa-corruzione-e-deficit-democratico/).
5. In questa situazione le istituzioni e le politiche europee non sono state introiettate dai cittadini e dalle cittadine, non sono entrate (salvo alcune felici invenzioni come Erasmus) nella loro vita quotidiana, sono state vissute come sovrastrutture estranee e, a volte, nemiche (anche al di là delle loro effettive responsabilità). Di più – sempre secondo le parole di Valentina Pazé – «l’Europa, anzi l’Unione europea, è diventata una maestra di anti-politica e di anti-democrazia: ci ha assuefatti alle decisioni dall’alto, giustificate con il linguaggio asettico della ragione tecnocratica, e alle politiche frutto di accordi tra soggetti che sfuggono al circuito della rappresentanza democratica: senza dibattito pubblico, senza partiti, senza cittadini, al più presi in considerazione come destinatari di pretenziose “strategie di comunicazione”, finalizzate alla creazione del consenso». Ciò ha cristallizzato una distanza all’apparenza incolmabile tra cittadini e Unione Europea, impedendo la formazione di una cultura comune e di un riconoscimento dell’Europa come riferimento effettivo. E questa distanza, indotta anche da ferite storiche, è stata acuita dalla incapacità dell’Unione di intestarsi partite fondamentali per la vita dei cittadini e, soprattutto, delle giovani generazioni, come le sfide del clima, del lavoro, del welfare, della salute. Non tutti i guasti – ovviamente – sono imputabili alle istituzioni europee ma è un fatto che esse, quando non li hanno prodotti, non hanno saputo arginarli. L’esito, in ogni caso, è stata la costruzione, invece di un’Europa dei cittadini e delle cittadine, di un’Europa matrigna, diventata, infine, “un’Europa della paura”, in cui la solidarietà ha lasciato il campo, ovunque, a una repressione crescente.
6. La crisi ha travolto anche la sinistra: quella storica e quella alternativa. La prima, se ancora la si vuol definire tale, si è totalmente appiattita, salvo isolate prese di posizione individuali, sulle politiche della destra: la scelta della guerra (talora ancor più convinta e rumorosa), un atlantismo acritico e subalterno, il liberismo economico, l’austerity e la contrazione dell’intervento pubblico, le politiche di stop alle migrazioni. Incapace di proporre un diverso modello di Europa, quella sinistra è oggi il puntello di una governance sempre più spostata a destra. Il voto del Partito democratico per Raffaele Fitto come vicepresidente della Commissione è illuminante: «Confermando Von der Leyen, i socialisti, e con loro il Pd, si sono schierati dalla parte della guerra, del tradimento dell’idea stessa di Europa: nel migliore dei casi, un chiaro segnale di impotenza politica. Votando ora per il commissario Fitto “perché è italiano”, l’intera operazione assume un colore anche più nero, perché va a soddisfare “lo stupido sentimento patriottico che guarda ai colori dei pali di confine ed alla nazionalità degli uomini politici che si presentano alla ribalta, invece che al rapporto delle forze e al contenuto effettivo”. Sono, queste, parole del Manifesto di Ventotene (1941), altissimo programma morale per l’Europa che sarebbe nata dopo la guerra» (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2024/11/22/il-voto-per-fitto-ennesimo-autogol-del-partito-democratico/). La sinistra alternativa a sua volta, o meglio quel che ne resta, si ritrova, al Parlamento europeo, nella Gauche Unitaire Européenne (Gue) che, pur contando su 46 parlamentari, è priva di un progetto comune (basti pensare che ne fanno parte, insieme ai francesi di France Insoumise, gli eletti del Movimento 5Stelle e di Sinistra italiana) e di un minimo di omogeneità con conseguente inevitabile irrilevanza anche come forza di opposizione. Ciò vale, a maggior ragione, per la sinistra alternativa italiana che, dopo la (promettente ma presto esaurita) esperienza dell’Altra Europa con Tsipras nata per le elezioni del 2014, ha perso ogni interesse per la dimensione europea, limitandosi a proiettare oltre confine le divisioni sui temi nazionali che l’hanno relegata a un ruolo di comparsa insignificante.
Quale futuro, a questo punto, ci aspetta? Difficile – anzi impossibile – dirlo in una situazione geopolitica piena di incognite e di cambiamenti. Sul tappeto le possibilità sono diverse: lo stanco perpetuarsi della situazione attuale, come vorrebbero i conservatori (che fingono di non vedere il disfacimento in atto); un improbabile colpo d’ala verso la costituzione degli Stati Uniti d’Europa, sollecitata dai federalisti che si rifanno al manifesto di Ventotene; la regressione a un’Europa delle Nazioni, voluta a suo tempo dal generale De Gaulle e oggi cara alle destre e, in particolare, alla nostra presidente del Consiglio; il rilancio di nazionalismi e sovranismi, pur nel permanere di una qualche architettura sovranazionale (ché un ritorno agli stati nazione tout court, oltre a non essere auspicabile, è fuori da un orizzonte realistico). Europeismi e sovranismi sono, a loro volta, definizioni che rimandano a contenuti diversi, come illustrato tempo fa, su queste pagine, da Guido Ortona: «È chiaro che il “sovranismo” è ignobile se vuole dire “teniamo fuori tutti i potenziali migranti”; ma anche l’“europeismo” lo è, se vuole dire “l’Europa ha ragione sempre e comunque, anche quando uccide la Grecia”. Ma come dobbiamo valutare la posizione europeista di chi dice “Vogliamo che l’Europa riconosca a livello continentale il diritto/dovere alla solidarietà sancito dalle Costituzioni italiana e francese?” e quella sovranista di chi dice “Non vogliamo il MES, perché esso conferisce a un’istituzione non democratica e di diritto privato di controllare l’economia italiana?”. È evidente che i due termini contrapposti, presi da soli, sono sostanzialmente privi di significato o, meglio, è possibile assegnare ad essi qualsiasi significato (un po’ come avviene per altri termini abusati, come “libertà” o “riforme”). […] E quindi? E quindi se vogliamo essere di sinistra dobbiamo essere europeisti di sinistra, e al tempo stesso sovranisti di sinistra; e renderci conto che entrambi questi aspetti della nostra politica implicano un serio conflitto con l’Europa, e che questo conflitto va organizzato e gestito. Ciò richiede preparazione, analisi, impegno, e quindi tempo, tanto più tempo quanto più tardi si comincia» (https://volerelaluna.it/controcanto/2022/12/27/il-meccanismo-europeo-di-stabilita-e-la-miopia-della-sinistra/). Sì, forse è proprio questa la strada: cominciare a parlarne e a mettere in campo proposte impegnative, senza timore di aprire conflitti che sono, in realtà, auspicabili.
Livio Pepino - Volerelaluna, 31 dicembre 2024
Livio Pepino
Livio Pepino, già magistrato e presidente di Magistratura democratica, è attualmente presidente di Volere la Luna e del Controsservatorio Valsusa. E', inoltre, portavoce del Coordinamento antifascista torinese. Da tempo studia e cerca di sperimentare, pratiche di democrazia dal basso e in difesa dell’ambiente e della società dai guasti delle grandi opere. Ha scritto, tra l’altro, "Forti con i deboli" (Rizzoli, 2012), "Non solo un treno. La democrazia alla prova della Val Susa" (con Marco Revelli, Edizioni Gruppo Abele, 2012), "Prove di paura. Barbari, marginali, ribelli" (Edizioni Gruppo Abele, 2015) e "Il potere e la ribelle. Creonte o Antigone? Un dialogo" (con Nello Rossi, Edizioni Gruppo Abele, 2019).