giovedì 13 febbraio 2025

 L’EGUAGLIANZA NON È UNA OPZIONE.

È UNA NECESSITÀ

Ritanna ARMENI

 

Mai l’eguaglianza è stata tanto bistrattata in nome del «merito» o addirittura dell'«eccellenza», come negli anni della globalizzazione dei mercati. Mai la diseguaglianza è stata tanto perseguita, praficata e raggiunta come nei recenti decenni del neoliberismo.

Oggi si cambia. O, almeno, si cambia nel dibattito culturale e politico. In molti, e non solo a sinistra, si sono accorti che le diseguaglianze sono diventate eccessive e dannose allo sviluppo complessivo della società; che il «merito» tanto osannato e contrapposto a esse - come la virtù al vizio - non produce, come si era incessantemente predicato, progresso sociale, distribuzione della ricchezza e del benessere. Esattamente il contrario: si è rivelato uno dei tanti falsi miti del liberismo. Un esempio viene proprio dalle università americane, quelle più importanti e prestigiose accolgono studenti ricchi e di buona famiglia. I figli dell'un per cento più ricco costituiscono l’assoluta maggioranza degli iscritti.

La meritocrazia tanto esaltata dai cantori del liberismo si rivela per quello che è: ricchezza e privilegio.

Altri - si è scoperto in anni più recenti - sono i meccanismi che regolano le società avanzate. A dimostrarlo i dati dell’Ocse: nei paesi del moderno e meritocratico occidente occorrono in media cinque o sei generazioni, cioè centoventicinque e centocinquanta anni perché una persona povera raggiunga il livello di reddito della classe media. Che è come dire che chi è povero adesso non ha alcuna possibilità di migliorare le proprie condizioni negli anni della propria vita. Né hanno questa possibilità i suoi figli e i suoi nipoti.

All'origine delle diseguaglianze - e non c'è bisogno di essere inveterati marxisti per denunciarlo - il moderno modo di produzione.

L'ha detto fra i primi Thomas Piketty nel suo Capitale del XXI secolo. Piketty ha confutato l'idea fondamentale del liberismo mondiale secondo la quale alla crescita  economica corrisponderebbe quasi meccanicamente un calo nelle disparità dei redditi. «Quando il tasso di rendimento del capitale supera regolarmente il tasso di crescita della produzione e del reddito - come accadde fino al XIX secolo e come rischia di accadere di nuovo nel XXI - il capitalismo produce automaticamente diseguaglianze insostenibili, arbitrarie, che rimettono in questione dalle fondamenta i valori meritocratici su cui si fondano le nostre società democratiche» ha scritto. E persino Bill Gates sì è dichiarato d'accordo.

Forse, ancora più chiari del fondamentale libro di Piketty, ci sono i dati sulla povertà, i crudi numeri diffusi dagli istituti di ricerca internazionale. Mostrano che negli ultimi anni il numero di miliardari nel mondo è cresciuto in modo esponenziale e con esso il numero dei poveri. I miliardari crescono in una media di due al giorno, adesso sono 2043 e nove su 10 sono uomini. Queste 2043 persone si sono divise tra il marzo 2016 e il marzo 2017 l'86% di tutta la nuova ricchezza prodotta nel mondo, lasciando il restante 14% alle cosiddette classi medie, e nulla - non un centesimo - a tre miliardi e settecento milioni di uomini, donne e bambini che costituiscono il 50% degli abitanti del pianeta.

Ed ecco un altro libro che parla chiaro.

Marco Revelli in Politica senza politica racconta, fra l’altro, che il quarto uomo più ricco del mondo, Amancio Ortega, ha ricevuto dalla casa madre della catena di abbigliamento Zara dividendi annui per un valore di circa 1,3 miliardi di euro.  ello stesso anno Anju, una lavoratrice di una delle tante aziende tessili del Bangladesh, che lavora fino a dodici ore al giorno e salta i pasti pur di racimolare qualche centesimo di dollaro in più, percepisce un salario annuo di soli 900 dollari, equivalenti a 730 euro: un milione settecentottantamila ottocentoventuno volte  meno di Ortega, che è uno degli uomini per i quali lavora.

È possibile dopo anni di politiche che hanno scavato abissi profondi di diseguaglianza cambiare prospettiva? La risposta di molti è sicuramente dominata dal pessimismo. Impossibile. Ed ecco invece una voce controcorrente. È quella di uno dei più autorevoli filosofi del diritto, Luigi Ferrajoli. Nel suo libro Il manifesto dell'eguaglianza afferma con assoluta radicalità che l’eguaglianza è il principio politico dal quale direttamente o indirettamente sono derivabili tutti gli altri. Il diritto, la democrazia, la difesa delle differenze, la dignità degli esseri umani, il multiculturalismo, la pace, la giustizia non possono esistere ed essere praticate se non si parte dalla eguaglianza. Persino lo sviluppo economico non è più concepibile senza di essa. Non a caso la diseguaglianza provocata dalla globalizzazione e perseguita dal neoliberismo sta uccidendo i diritti e la democrazia, il potere del mercato sta mettendo in crisi la sopravvivenza di tanti. Eppure... eppure anche oggi l’eguaglianza si può raggiungere, anzi ci sono tutti gli strumenti per farlo. Il fatto che sia difficile non significa che sia impossibile.

La forza dell'eguaglianza è nei fatti. Senza di essa cade la democrazia, crollano i diritti, quelli personali e quelli sociali. Si ferma inevitabilmente lo sviluppo. Il mondo è condannato a soccombere, a deflagrare e a esplodere. Non solo metaforicamente. Senza il potenziamento del principio di eguaglianza che alimenta la democrazia si potenzia inevitabilmente la proliferazione nucleare; la crescita economica senza i principi del diritto non terrebbe conto della finitezza e dei limiti del pianeta. Si arriverebbe alla distruzione dell’ecosistema. L’eguaglianza, insomma, non è un'opzione è una necessità. Prima ce ne accorgiamo meglio è per tutti.

in “Rocca” n. 24 del 15 dicembre 2019