Un canto “impossibile”
Lo spirito del Signore, di Dio, è su di me, perché il Signore mi ha unto per recare una buona notizia agli umili; mi ha inviato per fasciare quelli che hanmo il cuore spezzato, per proclamare la libertà a quelli che sono schiavi, l’apertura del carcere ai prigionieri, per proclamare l’anno di grazia del Signore, il giorno di vendetta del nostro Dio; per consolare tutti quelli che sono afflitti; [...]. Io mi rallegrerò grandemente nel Signare, l’anima mia esulterà nel mio Dio; poiché egli mi ha rivestito delle vesti della salvezza, mi ha avvolto nel mantello della giustizia, come uno sposo che si adorna di un diadema, come una sposa che si adorna dei suoi gioielli. Sì, come la terra produce la sua vegetazione e come un giardino fa germogliare le sue semenze, così il Signore, Dio, farà germogliare la giustizia e la lode davanti a tutte le nazioni (Isaia 61,1-2.10-11).
Un’illusione?
In questi tempi amari a qualcuno di noi verrebbe voglia, alla lettura di questi versetti biblici, di accantonarli come poesia evasiva o, peggio ancora, come ingenua illusione.
Qualche altro potrebbe, invece. pensare che essi siano stati composti in un momento in cui c'era il vento in poppa e tutto lasciava intravvedere un futuro felice o addirittura radioso. Le cose in realtà non stanno affatto così.
Il contesto
L’anonimo profeta (che noi chiamiamo “Trito-Isaia” perché appartenente alla “scuola” di Isaia) scrive queste righe mentre si trova coinvolto in un contesto di estrema depressione comunitaria. Egli scrive all’indomani del rientro in patria degli esiliati.
Ritornati da Babilonia con la speranza di ritrovare una terra accogliente, si sentono raggelare il cuore. Non solo bisognerà ricostruire la città e il Tempio, ma occorrerà imparare a convivere con altre popolazioni, prendendo atto di essere più un “resto” che un popolo. Prevalgono lo scoraggiamento, lo smarrimento, la desolazione, l’abulia. In più non si intravvede un progetto in cui ci si possa rivolgere. Serpeggia e cresce il disimpegno e l'indifferenza sembra insediarsi nel cuore dei più. Il profeta osserva, riflette, ascolta, prega. Quale può essere si domanda, il mio compito in questo momento?
A differenza dei ciarlatani (sul modello dei nostri attuali governanti), che usano le parole ora arroganti ora accattivanti per nascondere i loro progetti disonesti e dei fanfaroni di mestiere, per i quali le parole non hanno un rapporto reale con i convincimenti personali, il profeta vuole capire che cosa la sua fiducia in Dio gli ispiri. Questo, non altro, annuncerà al popolo disorientato. Vuole capire che cosa gli suggerisca la sua fede; non vuole né agire né parlare sconsideratamente.
La gioia del suo cuore
Egli sente, ascolta il suo cuore. Scopre di essere, anche dentro questo “paesaggio” desolato, pieno di gioia. Quasi si stupisce di questa pace profonda, di questa voglia di vivere e di fare che si ritrova dentro. Da dove viene a lui tutto questo fiume di speranza e di fiducia? Non certo dalla sua faciloneria, dall’estraneità al dolore del suo popolo; non certo dalla sua incoscienza o dal suo semplice carattere portato all’ottimismo.
Nulla forse può spiegarcelo meglio delle stesse parole del profeta: “Io ho questa gioia, sono così fiducioso, perché il soffio, il calore, “lo spirito” del Signore mi ha investito e mi sospinge. Andrò dal mio popolo perché il Signore mi ha “unto”, mi ha preparato e nutrito con l’olio del Suo amore, mi ha inondato il cuore come fossi nel giorno delle nozze, mi ha ricoperto con il mantello della Sua tenerezza e della Sua vicinanza. Sì, io ho fiducia perché, come mille volte è successo in passato, il Signore farà sbocciare la giustizia è i semi germoglieranno...”.
No, il profeta non si illude di essere un eroe, un uomo “infrangibile”, una “fortezza inespugnabile” o una persona non esposta o soggetta alle angosce e alle stanchezze che possono raggiungere tutti i mortali. Per fortuna a quei tempi non esisteva ancora la brutta idea di “essere santi” o di “fare i santi”: una deviazione che arrivò molto più tardi, una illusione che trovò fin troppo spazio in certe forme di cristianesimo.
Il profeta sa che egli si ritrova in cuore questa pace solo ed esclusivamente perché fonda la sua vita sulla fedeltà di Dio. Questa fiducia è per lui un dono di Dio: viene da Lui.
Che fare allora?
Anziché incrociare le braccia, piangersi addosso, pensare solo a sé o recitare la parte del gufo tra le macerie, il nostro profeta si mette in azione. Mentre tutto invita alla paralisi, all’inattività, al coltivare esclusivamente il proprio orticello, egli guarda al suo popolo, continua a occuparsi appassionatamente della vita del suo popolo.
La fiducia in Dio, che ha riposto nella parte più profonda di sé, ora lo spinge a sognare “altro”, a gettare nel triste solco del presente manciate di amore e di solidarietà.
Egli dice e agisce perché gli “umili del paese” non si sentano chiusi in un destino di miseria perché chi ha il cuore spezzato dalla delusione riprenda fiducia, perché chi si è imprigionato in qualche idolatria possa costruire sentieri verso la libertà. Egli cerca di riaprire dei solchi là dove la terra sembra essersi chiusa nella secchezza.
Avvento – attesa
Certo, davvero i tempi migliori si fanno attendere troppo... La vita, per chi è dalla parte dei deboli, è, potremmo dire, tutto un avvento, un'eterna attesa... E l’attesa ha i suoi rischi... Nell'attesa ci si può addormentare, distrarre, o peggio.
Questo è il richiamo frequente del Vangelo. Ma l’attesa, se il cuore è ben radicato nella fiducia in Dio, può diventare il tempo in cui si mantiene vivo il sogno di Dio, in cui si costruiscono reti e spezzoni di amore, di giustizia, di solidarietà. Certo (pensavo durante la fiaccolata per la pace di martedi scorso nella mia città), che cosa sono duemila fiammelle contro i missili di tanti guerrafondai?...
Eppure la speranza nel regno, il sogno di Dio che Isaia enuncia e grida, passa anche attraverso le mille città che accendono fiammelle, attraverso le piccole reti che uniscono nomi e cuori, attraverso le bandiere che abbiamo appeso ai nostri balconi.
In qualche modo il testo di Isaia si collega al Vangelo in cui Giovanni Battista è definito semplicemente “testimone”, “venuto per rendere testimonianza alla luce” (1,6-8).
Ecco: continuiamo con gioia a gettare fiammelle nelle tenebre, a spargere semi nella terra, a pensare in grande mentre agiamo nel piccolo. Se prima di tutto la fiamma è accesa dentro di noi, se essa scalda la nostra vita... un po' di calore e di incendio si diffonderanno da qualche parte.
Il sogno ed il canto “impossibile” possono così prendere dimora stabile nella nostra vita quotidiana.
Franco Barbero, Modena 1971