venerdì 21 marzo 2025

Abitare la notte comune con Dio

da Gli anni dell’impotenza

Franco Barbero, 1971

 

Per secoli, almeno nella chiesa cattolica, abbiamo coltivato la pretesa di sedere a poppa, di guidare l'imbarcazione, di dirigere il cammino, di possedere le risposte sicure ad ogni problema. La chiesa sì è presentata come detentrice della verità e depositaria della promessa di Dio.

Questa presunzione le ha fatto imboccare la strada dell'arrogariza e del potere, Non ha lasciato spazio alla profezia, alla ricerca umile, alla povertà.

Su questo punto la conversione della chiesa e di ciascuno di noi deve ancora compiere grandi passi.

L'incerta migrazione del nostro tempo è l'unico luogo che la iesa può abitare. Essa non ha una sua strada o una sua città o una sua abitazione» (G. Ruggieri). Concretamente questo vuol dire che la chiesa non può ignorare i grandi problemi che agitano il mondo, ma deve «starci dentro » senza la pretesa di avere già le soluzioni in tasca. « Si tratta per la chiesa di accompagnare, nella fedeltà al siuo  Signore e nella speranza che le è stata posta dentro, un cammino che  essa non può e non deve guidare» (G. Ruggieri). Ma non è così semplice per chi è sempre stato abituato a dire l'ultima ed infallibile (2!) parola su tutto e su tutti.

Una chiesa che semplicemente accompagni, senza la pretesa di guidare, è ancora lontana fino a quando la gerarchia pretende di far discendere dall'evangelo una dottrina sociale cristiana, un particolare metodo di controllo delle nascite o di disegnarci un sistema politico come una terza via cristiana. Ancor più essa è lontana quando noi cristiani crediamo di possedere, in forza della nostra fede, qualche garanzia contro i rischi è le incertezze della ricerca umana. Certo, la bontà del Signore ci viene incontro con la parola alla quale noi «facciamo bene a volgere lo sguardo come a lampada che brilla in luogo oscuro finché non spunti il giorno e la stella del mattino si levi nei nostri cuori» (Il Pie. 1:19), ma noi restiamo discepoli di quel Nazareno che ha conosciuto tutte le nebbie umane. L’incarnazione non significa forse che il Dio di Gesù ci è venuto incontro nella fragilità della carne? L'infallibilità della parola di Dio brilla nella nostra sconcertante e vastissima fallibilità umana. Imparare ad abitare la notte comune è ancora virtù rara nella nostra esperienza di fede e troppe volte dalle chiese si alzano luci fasulle che si presentano come Parola di Dio mentre sarebbe più opportuno accettare spesso di non  sapere e di ricercare umilmente con tutti gli altri che non hanno alle spalle magiche ed infallibili centrali luminose.

Sì tratta di un atteggiamento che non rinuncia alla luce che proviene dalla Parola di Dio, ma accetta la realtà della incerta migrazione umana in cui la fede non ci risolve magicamente i problemi; piuttosto ci dà la forza di lottare e di cercare e ci svela il senso di questa fatica. Una ede che, quasi d’incanto, ci illuminasse sui problemi sociali, politici e culturali che travagliano l’umanità, saprebbe di magia e ci deresponsabilizzerebbe di fronte alla storia.

Troppe volte le ‘certezze eterne’ ci hanno resi estranei a coloro che vanno pellegrinando nell’incertezza quotidiana.

Una simile riflessione apre strade liberatorie anche sul terreno teologico, come scrive Georg Denzler: « A mio avviso la ammissione della storicità del dogma contiene in sé la ammissione della possibilità d'errore nelle decisioni di fede. Ed è immediatamente evidente che se sì è verificato un errore non ci si dovrebbe liberare della questione con una nuova interpretazione, ma si dovrebbe parlare onestamente di revisione » («Concilium» 9/1981). Come diventerebbe più affascinante questa fede e questa vicenda ecclesiale cristiana, sapendo di essere mantenuti nella verità dell’evangelo vissuto soltanto dall'azione di Dio che sollecita la nostra incessante ricerca e conversione.

Una malattia terribile dilaga in questi anni: noi siamo pronti ad inneggiare a tutte le cause giuste finché esse sono nella fase vincente per poi abbandonarle, con delusione, quando ci accorgiamo che non soddisfano più il nostro bisogno di miti. Quando occorre fare i conti con la difficile progettualità, con la tenuta nel tempo, con la trasformazione della realtà, con il venir meno della novità, troppo spesso ci rivolgiamo ad altri lidi, in cerca di altri miti che, infallibilmente, lasceremo dopo breve tempo, con accresciuta amarezza.

A volte, anziché alimentare il nostro impegno con confronti stimolanti, preferiamo la pigra scorciatoia di chi trasferisce meccanicamente in casa propria le esperienze altrui. Troppo spesso è successo anche nei confronti della teologia della liberazione che viene completamente travisata da chi, anziché arricchirsi nel confronto, la mitizza e la assume acriticamente. Si rincorrono dei miti, con ritmo incessante, e ci si dispensa dallo stare dentro la realtà, che è fatta di stagioni contraddittorie e alterne. Un impegno politico ed ecclesiale maturo non può prescindere dalla capacità di situarsi in un rapporto serio con la realtà. È infantile, quando è notte a casa nostra, prendere in mano il planisfero e volare con la fantasia là dove brilla il sole.