L’UNICA SALVEZZA È IL DISSENSO
Tomaso MONTANARI*
«Complesso degli atteggiamenti di disaccordo e di critica nei contronti del sistema politico vigente in un determinato Paese, oppure verso specifiche istifuzioni e organizzazioni politiche, sociali, religiose», l’incipit della voce ‘dissenso’ della Treccani online, racchiude il mio augurio per il 2025: che sia un anno di radicale dissenso, espresso nel modo più pacifico e più fermo e incisivo.
Mai come oggi abbiamo bisogno di pensiero critico, divergente e scardinante; di rifiuto del consenso al pensiero unico dominante; di opposizione frontale e sistematica al fascismo di governo.
Nel 2025, centenario dell‘inizio delle ‘leggi fascistissime’, il Parlamento potrà approvare il disegno di legge sulla sicurezza (che è meglio chiamare con il suo nome: il ddl ‘Stato di polizia') e il premierato (cioè l’uscita dalla democrazia parlamentare, e anche da quella sostanziale).
Dovremo anche difendere la stessa ‘comunità del non consenso’: l'università, che è la nemica elettiva delle estreme destre oggi al governa in Occidente. Occorrerà mettersi di traverso, anche con il corpo (ripeto: pacificamente, ma irremovibilmente): fino alla disobbedienza civile, fino a farsi arrestare, se necessario.
Nel quotidiano franare delle nostre libertà democratiche (le cosiddette ‘zone rosse’ di capodanno sono qualcosa che fino a ieri non si sarebbe potuto nemmeno immaginare) quelle due leggi, con altre, rappresentano un salto dal quaie pofrebbe essere difficile, o impossibile, tornare indietro.
Associazioni, sindacati, comitati dovranno riuscire a mobilitare quei ciltadini e quelle cittadine che non votano più non perché ripudino la democrazia, ma perché (non a torto) non riescono a trovare qualcasa da votare. I referendum della Cgil e quello contro l’idea stessa dell’autonomia differenziata saranno accasioni fondamentali, ma ciò che occorre è la costruzione di una rete di dissenso a maglie strette. Un dissenso che riguardi i fondamenti stessi della nostra cìvìltà.
Nell’ultimo giorno del 2024 il giornale italiano che da sempre difende gli interessi delle classi dominanti ha pubblicato - terribile viatico per l’anno che inizia - un editoriale* mostruoso, che identifica nella disponibilità all'uso della violenza da parte del Gaverno di Israele un’identità culturale non compromessa con la modernità. Ne cito la conclusione:
«Il rapporto con la guerra significa sempre molto di più di quanto dica la semplice parola. Il rapporto con la guerra significa infatti il rapporto cen il nostro presente in generale, con ciò che esso è, e insieme indica ciò per cui pensiamo che valga la pena di morire. É per questo, sospetto, che alla fine non riusciamo ad accettare quasi nulla di quello che ha fatto Israele dal 7 ottobre in avanti. Infatti, alla nostra modernità, fondata sulla negazione di una rivelazione originaria, e quindi del sacro - e proprio per questo destinata ad alimentarsi di un'oscura disperazione - Israele e l’ebraismo contrappongono una diversa modernità: che mostra viceversa una sostanziale continuità con la dimensione religiosa e che forse non a caso, lungi dal conoscere la disperazione, si ostina a tenere accesa la fiaccola della speranza».
Non saprei immaginare una visione più atrocemente distopica: la possibilità di avere ancora speranza passerebbe attraverso una regressione alla civiltà della forza, quella dell’Antico Testamento (o dell'Iliade), ripudiando in blocco cristianesimo, illuminismo, diritti umani, costituzionalismo e democrazia.
A chi si chiede quale sia l'ideologia del nuovo fascismo, ecco l’autorevoale risposta del giornale del capitale, e dell’establishment: è la risposta di sempre, fatta di violenza, militarismo, amore per la guerra, volontà di potenza, colonialismo, dominio maschile.
Una terribile civiltà della morte, un futuro futuristicamente fondato sulla guerra come igiene dell’Occidente.
Non vedo oggi, né in Italia né in Occidente, una opposizione politica capace di opporre a questa una articolata visione alternativa: il pensiero unico della uerra contagia anche chi inorridisce di fronte a queste righe.
È da questo che si deve dissentire, fortemente e capillarmente: con le ragioni della mitezza, dell’accoglienza, della comprensione dell'altro e delle sue ragioni, della pace.
Le ragioni dell'’umanità: perché è qui, nel restare umani malgrado tutto, l’unica possibile speranza.
Non intesa come illusione consolatoria e paralizzante, ma come ribellione, rivolta, non rassegnazione ad accettare il mondo così com'è.
Che sia l'anno del dissenso, che sia un anno di liberazione.
* Rettore dell'Università per stranieri di Pisa
da QUALEVITA, aprile 2025