sabato 10 maggio 2025

L'AUTORITÀ DELLE VITTIME

Luigi Manconi

 

È possibile disertare? Non intendo dire restare indifferenti o assumere una posizione equidistante, bensì sottrarsi alla logica bellica degli opposti schieramenti in campo - filopalestinese, filoisraeliano - e adottare un punto di vista che vada oltre questa tragica spirale di morte.

Quando sento anche persone a me care (politicamente e affettivamente) ammonire che i bambini palestinesi uccisi dai bombardamenti di Israele sono «tre, quattro volte» quelli uccisi da Hamas provo un leggero disgusto. Le cifre sono quelle e quella è la loro ripartizione «etnica». Ma questo calcolo selettivo aiuta a porre rimedio alla catastrofe in corso?

Accade che quotidianamente venga stilata una sorta di gerarchia del dolore, esito torvo di una triste contabilità dei morti, dei feriti, dei rapiti e della loro aritmetica attribuzione all’una o all’altra parte in guerra. E provo altrettanto disgusto per l’ossessione di trarre un  saldo definitivo nel bilancio delle responsabilità e delle cause, delle radici remote e delle dinamiche storiche che hanno determinato l’attuale tragedia. Non che queste non esistano o non siano trattabili e discutibili, ma mi sembra che non possano più essere utilizzate secondo l’elementare e micidiale meccanismo di causa-effetto.

Per capirci, resto convinto che tra le antiche ragioni di quella tragedia vi sia la mancata fondazione di uno Stato palestinese all’epoca della formazione di quello di Israele; e che tra quelle recenti pesi assai significativamente l’occupazione dei territori palestinesi e la politica di colonizzazione messa in atto dai governi israeliani. Ma non mi basta. Limitarsi a questo rischia di alimentare il giustificazionismo morale che inevitabilmente porta a ritenere Hamas come l’espressione - magari deformata e impazzita - di una  causa giusta. Così non è. Per questo bisogna tornare al 7 ottobre del 2023 e alla carneficina, a opera di Hamas, nel deserto del Negev e nei kibbutz di Kfar Aza, Be'eri, Re'im e Urim.

Condivido l’opinione di quanti hanno definito quel pogrom come l’azione più efferata dopo i crimini della Shoah. E la condanna sarà tanto più forte quanto più saremo capaci di considerare il comportamento di Hamas non come la manifestazione estrema ed estremista della condizione di oppressione del popolo palestinese, bensì come una scelta tutta politico-militare e tutta da attribuirsi alla strategia dell’Iran e dei “partiti armati” da esso formati e finanziati.

Da qui una ulteriore conseguenza: le vittime civili della reazione di Israele mai potranno essere considerate - come tanti fanno - una forma di risarcimento o di riequilibrio per le vittime ebree. Anche in questo caso ci si deve sottrarre al meccanismo di causa-effetto. Anche in questo caso le morti dei civili palestinesi non sono l’esito collaterale di una giusta reazione di Israele ai crimini di Hamas, ma l’espressione di una strategia politico-militare del governo Netanyahu.

Se consideriamo ciò, ci si potrà sottrarre a una formula retorica assai diffusa e già sperimentata in altre circostanze (anche a sinistra, ahinoi). Ossia: quello di Hamas è stato un atto di barbarie, ma... E qui si elencano le colpe di Israele che riequilibrerebbero le colpe dei terroristi.

Si tratta di quella che il grande linguista Luca Serianni definiva come coordinazione avversativa incardinata sulla congiunzione «ma». Una classica procedura dialettica che i latini chiamavano occupatio e che, più prosaicamente, potremmo indicare con  l’espressione «mettere le mani avanti». La prima asserzione conferma la condanna del terrorismo, mentre il successivo «ma» introduce un discorso che rischia via via di ridimensionare, fino ad attenuare o addirittura cancellare, la prima affermazione (il ripudio di Hamas).

È una grave insidia che produce un ulteriore pericolo: che nel diradarsi della memoria del primo avvenimento (la strage del 7 ottobre) e nella focalizzazione unilaterale sul secondo (le bombe su Gaza) si insinui e cresca il pregiudizio antisemita del quale si avvertono numerosi segnali. È una questione delicatissima che va affrontata con la massima cura. Se tutto questo è vero, il tentativo faticoso e doloroso di scegliere di stare dalla parte delle vittime, e solo dalla parte di tutte le vittime, risulta, più che una manifestazione di insicurezza o di ignavia, un imperativo morale ma anche politico. Politico perché indica una direzione, seppur impervia e sdrucciolevole, capace di disinnescare questa terribile spirale di morte, nella prospettiva di una futura soluzione fondata sulla pari dignità e sulla pari tutela dei diritti dei due soggetti oggi in armi.

Per questo quello che vorrei riuscire a dire e a motivare è una posizione che non si schieri con una zione o con l’altra, bensì - ripeto - esclusivame:  dalla parte delle vittime quando come tali si presentano a noi con tutto il loro carico di dolore. Non è una scelta di neutralità, bensì il suo contrario: vuol dire optare per un impegno più grande e più gravoso rispetto alla decisione di scegliere una parte e lì rincantucciarsi e adagiarsi. Sono d’accordo quindi con quei cinquecento ebrei statunitensi - tra loro una ventina di rabbini - che già in quei giorni di ottobre hanno manifestato all’interno del Congresso degli Stati Uniti chiedendo il “cessate il fuoco”.

Insomma, non ne posso più di questa interpretazione competitiva e tifosa dell’orrore e penso che sia nostro compito - tanto più perché siamo privilegiati e viviamo in una comfort zone dove non arrivano né bombe di Isracle né i parapendio di Hamas - farci carico del dolore di tutti, cercando di porvi rimedio nei limiti delle possibilità e delle responsabilità di ognuno  e tentando di disinnescare il dispositivo infernale della vendetta che chiama vendetta.

Voglio dire, molto semplicemente, che, mentre mi auguro con tutta l’anima che Israele interrompa i suoi bombardamenti indiscriminati e l’assedio a Gaza, non  voglio dimenticare nemmeno per un attimo gli ebrei sgozzati nei kibbutz e quelle ragazze e quei ragazzi uccisi mentre ballavano.

Solo se pensiamo a loro, ai loro nomi e cognomi, alle  aspettative distrutte, alle speranze spazzate via e alla dignità mortificata, solo allora potremo essere all’altezza del dolore altrettanto irreparabile dei loro coetanei palestinesi. Ciò che davvero conta è «l’autorità dei sofferenti», di cui scriveva Johann Baptist Metz. Non la sofferenza come astrazione o categoria ideologica, come fattore statistico o contabilità funebre. Ma la sofferenza dei corpi straziati di esseri umani che sono solo ed esclusivamente esseri umani.

Questo non significa ignorare la storia e la geografia e le dinamniche politico-diplomatiche: si tratta piuttosto di constatare che siamo precipitati in una dimensione che eccede tutto questo e che si presenta come disumana, dove serve qualcosa di più dei consueti strumenti di analisi e di intervento. E dove tutti dovremmo essere capaci di andare oltre la miseria degli schieramenti convenzionali e della logica marziale, o di qua o di là: quella che sempre impone di sacrificare un pezzo di umanità a vantaggio di un altro pezzo di umanità.

Dunque, il dolore degli esseri umani come principio e fine di ogni pensiero politico.

Roma, 15 gennaio 2024.. da Israele Palestina Edizioni O/E