lunedì 12 maggio 2025

Israele-Palestina, “Oltre i nazionalismi”, di Bruno Montesano, Collana di Pensiero Radicale

L'UTOPIA MODESTA DI ALBERT CAMUS

Mario Ricciardi

 

Come “si fa l’amore per telefono e si lavora non più sulla materia ma sulla macchina, così oggi si uccide per procura. Ci si guadagna in pulizia, ma si perde in conoscenza”1. Sono parole di Albert Camus, scritte nel 1948, quando l’Europa e il mondo sembravano sospesi tra due guerre. Una che si era appena conclusa, e l’altra che correva il rischio di scoppiare, se non si fosse trovato un modo per convivere  pacificamente tra i due blocchi: la Nato e il Patto di Varsavia. Camus si rivolge a interlocutori che non identifica, ma che hanno il profilo riconoscibile dei difensori di un certo modo di intendere il realismo politico: “[a]vendo detto un giorno che non saprei più ammettere, dopo l’esperienza degli ultimi due anni, nessuna verità che potesse obbligarmi, direttamente o indirettamente, a far condannare un uomo a morte, alcune persone d’ingegno che talvolta ho avuto modo di stimare, mi hanno fatto rilevare che la mia era un’utopia, che non c’era nessuna verità politica che non ci conducesse, un giorno o l’altro, a tale estremo e che bisognava dunque correre il rischio o accettare il mondo com’è”2. Camus ammette di non essere così folle da volere un mondo in cui non si uccida più. La sua pretesa è più modesta, si accontenterebbe di un mondo che non legalizzi l’assassinio.

Cosa intenda Camus per “assassinio legalizzato” viene chiarito immediatamente. La sua “utopia modesta” consiste nell’auspicare un nuovo regime di democrazia internazionale in cui la pena di morte sia abolita e nel quale “la legge è al di sopra dei governanti, essendo questa legge l’espressione della volontà di tutti, rappresentata da un corpo legislativo”?. Camus ha in mente qualcosa di diverso rispetto al compromesso che aveva condotto, tre anni prima, alla costituzione dell’ONU: “Si sta approntando una legge internazionale. Ma tale legge è fatta o disfatta dai governi, cioè dal potere esecutivo. Siamo dunque in un regime di dittatura internazionale. Il solo modo di uscirne è di porre la legge internazionale al di sopra dei governi: di fare tale legge, disporre di un parlamento, e costituire tale parlamento mediante elezioni mondiali cui partecipino tutti i popoli. Ma non essendoci un tale parlamento, il solo mezzo è di resistere alla dittatura internazionale su un piano internazionale e con mezzi che non siano in contraddizione col fine perseguito”4.  La parola “resistenza” assume, per il Camus del dopoguerra, un senso diverso rispetto a quello che essa aveva durante l'opposizione al nazismo. La nuova resistenza che propone è disarmata - altrimenti sarebbe in contraddizione con il fine che si prefigge - e si combatte sul piano morale, quello di una nuova sensibilità che rifiuti lo schema dei blocchi contrapposti e metta al primo posto “la salvezza fisica perché l’avvenire resti possibile”5.

Nel prendere questa posizione, Camus rompe con quella parte della sinistra che sceglie di stare dalla parte  dell’Unione Sovietica, ma senza per questo approdare al “Cold War Liberalism” che interpreta il conflitto latente tra Nato e Patto di Varsavia come la lotta per la saopravvivenza tra due concezioni del mondo che non ammettono mediazione6. Rifiutare di essere vittima oppure carnefice è per lui un modo per “scegliere i compagni” nella lotta per l’umanità, e contro l’assassinio legalizzato come strumento di governo. Sarà questa la visione da cui trae ispirazione il suo impegno a favore di un movimento pacifista internazionale che tenga insieme intellettuali e lavoratori. L’obiettivo, solo abbozzato, è un “nuovo contratto sociale” che apra la strada a un diritto internazionale che sia strumento di pace e non di egemonia, sia cioè una legge basata sui diritti umani e non sulla forza.

In coerenza con questo impegno, Camus difenderà i diritti degli algerini contro la feroce repressione francese, ma senza accettare il terrorismo praticato da una parte del movimento di liberazione. Una scelta che lo isolerà ulteriormente, al punto da spingerlo a imporsi il silenzio quando si renderà conto che la prospettiva di una soluzione pacifica del conflitto si stava allontanando. Quando muore, in un incidente automobilistico, nel 1960, nonostante il grande successo dei suoi scritti, e il riconoscimento che gli viene tributato nel 1957 con l’assegnazione del Nobel per la letteratura, Camus ha preso le distanze dall'impegno degli anni del dopoguerra”. Come il protagonista di uno dei suoi ultimi racconti, L’Héte (L’ospite): «In quel vasto paese che aveva tanto amato, era solo»8. Eppure, la visione che ha cercato di articolare nel dopoguerra non è sconfitta.

Negli anni Sessanta le idee di Camus verranno scoperte da una nuova generazione, e alimenteranno la cultura pacifista in Europa e negli Stati Uniti. In questo nuovo clima, la sua idea di un contratto sociale internazionale comincia a farsi strada anche nella comunità accademica. Alla fine del secolo, lo spirito dell’utopia modesta di Camus trova sostanza filosofica nell’utopia realistica di John Rawls, che si articola anche attraverso una nuova giustificazione normativa del diritto internazionale9. Ciò non vuol dire che le idee di Camus abbiano perso rilevanza. Dopo l’attacco alle torri gemelle nel 2001, la concezione di un ordine internazionale “rule based”, tendenzialmente democratico, e ispirato da un ideale normativo che si richiama a Kant e alle dichiarazioni dei diritti umani, viene progressivamente messa in discussione, ed erosa. Prima per via della guerra contro il terrorismo, e poi da una recrudescenza di tensioni che, in un mondo multipolare, degenerano spesso in veri e propri conflitti armati. In retrospettiva, le guerre seguite alla dissoluzione della Jugoslavia degli anni ‘90 oggi appaiono un annuncio del nuovo più che l’ultimo sussulto del “secolo breve”10.

Alla fine degli anni ‘40, Camus vedeva nel difetto di immaginazione il limite del realismo politico. Questo è anche il principale problema con cui abbiamo a che fare oggi, mentre assistiamo impotenti all’uccisione di  decine di migliaia di civili a Gaza. Come Camus, rifiutiamo la violenza di Hamas, ma non possiamo condonare quella del governo di Israele. Ancora una volta ci  poniamo il problema dei modi in cui una resistenza non violenta internazionale possa arrestare il conflitto, aprendo la strada a una tregua e a una risoluzione negoziale della “questione palestinese”. Questo obiettivo non sarà possibile, tuttavia, fino a quando non saremo in grado di dare una risposta efficace al difetto di immaginazione etica che impedisce a molti di noi di rendersi conto del “dolore degli altri”11. Come mobilitare le risorse psicologiche dell’umanità e dell’identità morale al servizio di un futuro di pace è la lotta che ci riguarda tutti, a Gaza come a Roma, a New York come  a Mosca”.

Milano, 19 gennaio 2024

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1 Albert Camus, Actuelles, trad. it. Giuseppe Guglielmi, Milano:  Bompiani 1961, p. 21.

2 Ivi, p. 21.

3 Ivi, p. 35.

4 Ivi, p. 35.

5 Ivi, p. 23.

6 Samuel Moyn, Liberalism Against Itself: Cold War Intellectuals   and the Making of Owr Tirtes, New Haven e Londra: Yale University

Press 2023,

7 Maurice Cranston, Casnus and Iustice, Id., The Mask of Polttics,  Londra: Allen Lane 1973, pp. 111-136.   

8 Albert Camus, L'esilio e il regno, trad. it. Yasmina Mélaouah,  Milano: Bompiani 2018, p. 89.

9 John Rawls, The Latw of Peaples, Cambridpe (Mass.): Hanvard  University Press 1999.

10 Andrea Ruggeri, “Conflitri da governare”, I Mrulino, 522 (3),  LxxII, 2023, pp. 10-25.

11 Susan Sontag, Regarding the Paùr of Others, Londra: Penguin  2019.

12 Jonathan Glover, Hunmanzity. A Moral History of the Twenticth  Century, Londra: Pimlico 2001.