domenica 29 giugno 2025

L’enciclica di leone XIII non è un modello: Rerum Novarum è tutto tranne che progressista

di Gaetano Pecora

Il testo di Leone XIII di cui si è tornati a parlare molto dopo la scelta del nome papale di Robert Francis Prevost è stato presentato in maniera caricaturale. Dimenticando del tutto gli strali lanciati contro il socialismo e le associazioni dei lavoratori.
Quando la passione tiene dietro all’incompetenza, allora non c’è stravaganza che il giudizio umano si risparmi. Nel caldo dell’entusiasmo, è bastato che il nuovo pontefice si desse quel nome perché molti venissero portati di sbalzo ad accendersi di ammirazione per Leone XIII, decorato come il papa della questione sociale, il papa che con la Rerum Novarum (1891) avrebbe finalmente riconosciuto ai lavoratori il diritto di guadagnarsi un pane che non avesse più sapore di elemosina.
Che strazio di caricatura! E come soffre l’urto delle pagine lavorate con più serena equanimità! Fra tutte, quelle di Arturo Carlo Jemolo che, riconfitte nel vivo le punte della verità, lui cattolico, sgonfiava così i turgori dei troppi accalorati esegeti di papa Pecci: la Rerum Novarum non «è certo indicazione concreta di vie nuove; ma opportuno completamento delle nette posizioni antisocialiste del Sillabo».
Certo: netta, profonda la trincea del disaccordo tracciata da Pio IX. Ma nettissimo e forse ancora più profondo il solco scavato da Leone XIII per dire ai socialisti: da qui voi non passate!
Da Leone Magno alla Rerum Novarum di papa Leone XIII: il nome che ha segnato le tappe cruciali della chiesa
E da dove essi non sarebbero passati? Quale camminamento avrebbero trovato ostruito? Si tenga presente che papa Pecci tre anni prima della Rerum Novarum era venuto fuori con la Libertas, il documento che raggrumava gli umori più sanguigni del clericalismo ultrà e che nell’ultima esaltazione dell’ira fermava un principio dal quale non avrebbe decampato più: che cioè «solo le cose vere ed oneste hanno diritto (…) gli errori, peste della mente, i vizi contagio dei cuori e dei costumi, è giusto che dalla pubblica autorità siano diligentemente repressi». Ecco: precisamente questo è il mostruoso sofisma che spiega tante cose, a partire dai ceppi che trattengono il moto di emancipazione degli umili.
Sì dà il caso infatti che il diritto di associazione che pure fa così bella mostra di sé nella Rerum Novarum è, sì, annunciato con parole squillanti; per poco però che ci ficchiamo gli occhi dentro lo vediamo vaporare in una specie di mezz’ombra ambigua, costretto come esso è da una clausola restrittiva che ne vanifica del tutto la portata: associazione, sì, ma solo per i depositari del Bene e per i sodali del Giusto. Del Bene e del Giusto, va da sé, come custoditi dalla chiesa e quali insegnati dal papa.
Dunque? Dunque peste e vituperio alle associazioni socialiste che non a caso scapitano assai in questo monumento del «riscatto» operaio: «È opinione confermata da numerosi indizi – leggiamo – che esse sono ordinariamente governate da capi occulti e che obbediscono a una parola d’ordine contraria allo spirito cristiano e al bene pubblico»; per cui «i poteri pubblici hanno il diritto di impedirne la formazione».
E presa la carriera, le pagine che sanno di agro non si fermano lì: anche lo sciopero viene travolto da un aggettivo («sconcio») che gli rotola sopra come la pietra del sepolcro che quando cade non si rialza più. E veramente lo sciopero non si rialza nemmeno una volta nella considerazione del pontefice il quale, richiamati gli operai all’obbligo di «non mescolarsi con gli uomini malvagi» (i capibanda del socialismo), finisce poi ancora una volta per riparare sotto gli uffici dell’autorità pubblica che ha da «prevenire il male con l’autorità delle leggi». Niente scioperi, dunque.
Già: ma, si potrebbe domandare, senza scioperi e con un diritto di associazione così asfittico, gli ultimi come potranno mai risalire la gerarchia dei ruoli sociali? Tanto si potrebbe domandare. Ma sarebbe domanda fuor di posto, fuori cioè del posto dove va collocata che è quello delle encicliche sociali, ossia di un universo dove non c’è gente che sale e gente che scende, ma potenti che restano in alto e umili che ristagnano in basso.
Con questa particolarità: che, penetrati i cuori dalle verità cattolica, i primi perderanno la grinta da sopracciò e i secondi placheranno i rimescolamenti di un sangue messo in subbuglio dalle sofferenze patite. «Queste verità», leggiamo nella Rerum Novarum, «sono fatte senza dubbio per umiliare l’anima orgogliosa del ricco e per incoraggiare coloro che soffrono ispirando loro la rassegnazione». È dunque la rassegnazione che purifica il dolore; la rassegnazione e non una giustizia da perseguire con l’esercizio di diritti eguali per tutti
C’è ancora qualcuno che in queste parole tradisce l’ultimo spasimo di un genio innovatore?

 

da “Domani” del 20 maggio 2025