L’enciclica di leone XIII non è un modello:
Rerum Novarum è tutto tranne che progressista
di Gaetano Pecora
Il testo di Leone
XIII di cui si è tornati a parlare molto dopo la scelta del nome papale di
Robert Francis Prevost è stato presentato in maniera caricaturale. Dimenticando
del tutto gli strali lanciati contro il socialismo e le associazioni dei
lavoratori.
Quando la passione tiene dietro all’incompetenza, allora non c’è stravaganza
che il giudizio umano si risparmi. Nel caldo dell’entusiasmo, è bastato che il
nuovo pontefice si desse quel nome perché molti venissero portati di sbalzo ad
accendersi di ammirazione per Leone XIII, decorato come il papa della questione
sociale, il papa che con la Rerum Novarum (1891) avrebbe finalmente
riconosciuto ai lavoratori il diritto di guadagnarsi un pane che non avesse più
sapore di elemosina.
Che strazio di caricatura! E come soffre l’urto delle pagine lavorate con più
serena equanimità! Fra tutte, quelle di Arturo Carlo Jemolo che, riconfitte nel
vivo le punte della verità, lui cattolico, sgonfiava così i turgori dei troppi
accalorati esegeti di papa Pecci: la Rerum Novarum non «è certo indicazione
concreta di vie nuove; ma opportuno completamento delle nette posizioni
antisocialiste del Sillabo».
Certo: netta, profonda la trincea del disaccordo tracciata da Pio IX. Ma
nettissimo e forse ancora più profondo il solco scavato da Leone XIII per dire
ai socialisti: da qui voi non passate!
Da Leone Magno alla Rerum Novarum di papa Leone XIII: il nome che ha segnato le
tappe cruciali della chiesa
E da dove essi non sarebbero passati? Quale camminamento avrebbero trovato
ostruito? Si tenga presente che papa Pecci tre anni prima della Rerum Novarum
era venuto fuori con la Libertas, il documento che raggrumava gli umori più
sanguigni del clericalismo ultrà e che nell’ultima esaltazione dell’ira fermava
un principio dal quale non avrebbe decampato più: che cioè «solo le cose vere
ed oneste hanno diritto (…) gli errori, peste della mente, i vizi contagio dei
cuori e dei costumi, è giusto che dalla pubblica autorità siano diligentemente
repressi». Ecco: precisamente questo è il mostruoso sofisma che spiega tante
cose, a partire dai ceppi che trattengono il moto di emancipazione degli umili.
Sì dà il caso infatti che il diritto di associazione che pure fa così bella
mostra di sé nella Rerum Novarum è, sì, annunciato con parole squillanti; per
poco però che ci ficchiamo gli occhi dentro lo vediamo vaporare in una specie
di mezz’ombra ambigua, costretto come esso è da una clausola restrittiva che ne
vanifica del tutto la portata: associazione, sì, ma solo per i depositari del
Bene e per i sodali del Giusto. Del Bene e del Giusto, va da sé, come custoditi
dalla chiesa e quali insegnati dal papa.
Dunque? Dunque peste e vituperio alle associazioni socialiste che non a caso
scapitano assai in questo monumento del «riscatto» operaio: «È opinione
confermata da numerosi indizi – leggiamo – che esse sono ordinariamente
governate da capi occulti e che obbediscono a una parola d’ordine contraria
allo spirito cristiano e al bene pubblico»; per cui «i poteri pubblici hanno il
diritto di impedirne la formazione».
E presa la carriera, le pagine che sanno di agro non si fermano lì: anche lo
sciopero viene travolto da un aggettivo («sconcio») che gli rotola sopra come
la pietra del sepolcro che quando cade non si rialza più. E veramente lo
sciopero non si rialza nemmeno una volta nella considerazione del pontefice il
quale, richiamati gli operai all’obbligo di «non mescolarsi con gli uomini
malvagi» (i capibanda del socialismo), finisce poi ancora una volta per
riparare sotto gli uffici dell’autorità pubblica che ha da «prevenire il male
con l’autorità delle leggi». Niente scioperi, dunque.
Già: ma, si potrebbe domandare, senza scioperi e con un diritto di associazione
così asfittico, gli ultimi come potranno mai risalire la gerarchia dei ruoli
sociali? Tanto si potrebbe domandare. Ma sarebbe domanda fuor di posto, fuori
cioè del posto dove va collocata che è quello delle encicliche sociali, ossia
di un universo dove non c’è gente che sale e gente che scende, ma potenti che
restano in alto e umili che ristagnano in basso.
Con questa particolarità: che, penetrati i cuori dalle verità cattolica, i
primi perderanno la grinta da sopracciò e i secondi placheranno i
rimescolamenti di un sangue messo in subbuglio dalle sofferenze patite. «Queste
verità», leggiamo nella Rerum Novarum, «sono fatte senza dubbio per umiliare
l’anima orgogliosa del ricco e per incoraggiare coloro che soffrono ispirando
loro la rassegnazione». È dunque la rassegnazione che purifica il dolore; la
rassegnazione e non una giustizia da perseguire con l’esercizio di diritti
eguali per tutti
C’è ancora qualcuno che in queste parole tradisce l’ultimo spasimo di un genio
innovatore?
da “Domani” del 20 maggio 2025