Spoon River. Morti sul lavoro, mille lapidi all’anno con la scritta “profitto”
di Alessandro Robecchi
Più che un articolo
bisognerebbe scrivere un blues, una specie di Spoon River per tutti quelli che
vanno a lavorare alla mattina e non tornano più, che finiscono schiacciati, o
cadono, o restano fulminati. O annegano come la diciassettenne Anna Chiti,
caduta a Venezia durante una manovra d’attracco che non spettava a lei. Il
blues è ipnotico e ripetitivo, diventa una specie di salmo.
E c’è molta ripetizione anche nelle cronache delle morti sul lavoro, più di
mille all’anno, tre ogni giorno, quasi sempre le stesse parole. Non era in
regola. Non aveva le protezioni richieste dalla legge. Le procedure non sono
state rispettate. Bisognava fare in fretta per non rallentare la produzione.
Lavorava per arrotondare lo stipendio o la pensione insufficiente. Era il primo
giorno di lavoro. Le varianti sono sempre quelle, come gli accordi del blues.
Cambiano le sfumature. Il primo giorno di lavoro è una beffa, naturalmente, ma
spesso anche una scappatoia cinica e furba per cavarsi d’impiccio: non ti metto
in regola, non ti proteggo, e se succede qualcosa – disdetta – era il primo
giorno di lavoro. Anna Chiti, dicono, era al suo primo giorno. Era al suo primo
giorno, dicono, anche Massimo Mirabelli, di Livorno, che a 76 anni lavorava
come trasportatore per una lavanderia industriale: non gli bastava la pensione,
l’ha ammazzato un malore, “nel suo primo giorno di lavoro”, dicono le cronache.
Il primo giorno di lavoro. A 76 anni. A 17 anni.
Basta cercare, ci vuole poco, le cronache sono piene, uno stillicidio,
un’immensa Spoon River, appunto, più di mille lapidi all’anno con sopra
scritto: “Profitto”. Come sempre l’informazione procede per fiammate, impennate
dell’attenzione che durano lo spazio di voltare pagina. Qualche morto merita un
titolo, sennò si scende al trafiletto in cronaca, più spesso è silenzio totale.
Il disegno è chiaro: morire sul lavoro va considerato in qualche modo
“normale”, cioè succede, capita, e anche quella definizione standard di
“incidente” serve a coprire, troncare e sopire, nascondere che ci sono in
questo Paese ampie sacche di lavoro schiavistico, non protetto, esposto a ogni
sorta di rischi, che sia l’edile sull’impalcatura o il rider investito nella
notte mentre trasporta cibo per 2 euro a consegna.
Nella sua solita passerella video annuale del 1º Maggio – un siparietto trito e
ritrito che serve a prendersi un pezzettino della scena nel giorno della festa
dei lavoratori – la capa del governo ha fatto anche quest’anno le sue solite
promesse, tra cui un premio per le aziende che riescono a non ammazzare
nessuno. Chiacchiere e distintivo. La gente muore come e più di prima, e allo
studio sono invece leggi che permettono di farli morire prima, più giovani, più
freschi, più velocemente abituati al pensiero che morire di lavoro non è poi
così anormale.
Nei primi tre mesi del 2025 sono stati più di 600 gli incidenti per gli
studenti che svolgono la cosiddetta alternanza scuola-lavoro, cinque mortali.
Alternanza scuola-ospedale, quando va bene, sennò scuola-cimitero. Ora una
norma del decreto Pnrr-Scuola, all’esame della commissione Cultura del Senato,
minaccia di anticipare l’età dell’alternanza scuola-lavoro al primo biennio
degli istituti tecnici, cioè all’età di 15 anni, cioè bambini, cioè educarli da
piccoli che la scuola non forma cittadini, ma braccia, e che le braccia
rischiano ogni giorno, perché il profitto è più importante. Questo blues è
inutile, sia chiaro, è un salmo alla memoria per i caduti passati. E – temo –
per quelli futuri.
da “Il Fatto Quotidiano” del 21 maggio 2025