domenica 27 luglio 2025

200 MILA AL CORTEO VIETATO. A VUOTO LE PROVOCAZIONI, AUTORIZZATE DALLA DESTRA

 

Lo schiaffo del Pride a Orbán

 

Uno schiaffo a Viktor Orbán nel nome dei diritti civili e del diritto d’assemblea. È quanto è andato in scena il 28 giugno per le strade di Budapest, dove circa 200 mila persone, secondo le stime degli organizzatori, hanno sfilato per la 30° edizione del Pride celebrata nella capitale ungherese. Dopo le minacce recapitate dal governo all’indirizzo di organizzatori, sindaco di Budapest e partecipanti, non si è verificato alcun incidente o momento di tensione. Eppure, le provocazioni ci sono state. Tre le, sparute, manifestazioni organizzate dall’estrema destra. Tre eventi creati da gruppi o partiti dalla destra nazionalista e omofoba con l’unico scopo di ostacolare il corteo arcobaleno. Tre raduni di estremisti che nell’Ungheria orbaniana è stato possibile organizzare legalmente con la debita autorizzazione dalla polizia, al contrario del Pride che, invece, è dovuto ricorrere all’escamotage dell’organizzazione municipale per svolgersi in luoghi pubblici.

Nelle strade della capitale ungherese si è ballato e ci si è baciati, abbracciati, tenuti per mano. E ovviamente non poteva mancare Bella ciao, accanto a canzoni di protesta magiare. Il tutto in un profluvio di bandiere arcobaleno, europee e ungheresi spesso combinate assieme a creare vessilli multicolori, e tanti striscioni, cartelli, oltre a popolarissime maschere di Orbán truccato da Joker.

Di tanto in tanto un boato dei manifestanti salutava qualcuno che, affacciato a una finestra lungo il percorso, applaudiva i manifestanti o sventolava drappi arcobaleno. A sostenere il corteo anche le navi da crociera in transito lungo il Danubio, con i loro corni da nebbia. Pressoché assenti i simboli di partito, anche se due movimenti d’opposizione ungherese, Momentum e il Partito del cane a due code, avevano propri carri al corteo, al pari di Tilos Radio, una delle poche emittenti non filo-orbaniane superstiti.

NEL CORTEO L’UNGHERESE si è mischiato all’inglese, all’italiano, al tedesco, al francese, al ceco e al polacco con persone di tutte le generazioni. Fra di loro, la ventenne magiara Zsófia era al suo terzo Budapest Pride. Quest’anno, però, l’evento ha un significato diverso per lei: «Il fatto che sia stato proibito dal nostro governo, rende emblematico quanto sta accadendo qui in Ungheria. Ed ecco che fare parte di un corteo così numeroso, oggi, mi fa sentire più forte». La tedesca Ann, invece, stringeva una bandiera arcobaleno con su scritto «For Maja», in riferimento all’antifascista non binaria incarcerata a Budapest: «Sono qui per lei, perché Maja T. sarebbe qui con noi, oggi, se non fosse in prigione. Voglio che cresca la consapevolezza della sua situazione e che si sappia dello sciopero della fame che ora sta facendo. È stata deportata in Ungheria dalla Germania illegalmente e questo mi fa rabbia, perché sta perdendo i suoi diritti in questo Paese».

Quanto alla polizia ungherese presente ieri lungo il corteo, è stata numerosa ma discreta, confinata alle strade d’accesso al corteo. L’unico momento di contatto verbale fra il corteo arcobaleno e i suoi oppositori si è avuto in piazza Gellert, accanto ai celebri bagni termali. Qui una ventina di estremisti nerovestiti, sorvegliati da un centinaio di agenti, ha esposto lo striscione «Fermare la pedofilia Lgbt», in sintonia con la retorica orbaniana sul tema.

LE FORZE DELL’ORDINE hanno polemizzato con gli organizzatori del Pride in un comunicato diffuso a corteo in corso, sostenendo di non essere stati informati sulle variazioni di percorso. Ma i cambiamenti sono stati cambiamenti obbligati, dovuti al blocco del ponte della Libertà messo in atto dagli oppositori al Pride. Gli organizzatori, fra cui 200 volontari sul campo, sono stati così costretti a dirottare il corteo sul vicino ponte Elisabetta. È stato questo l’unico ostacolo posto dai militanti anti-Pride, eccezion fatta per un terzetto di fanatici, che ha invitato i presenti a «Pentirsi! Finché siete in tempo» imbracciando una croce. Una predica accolta da sorrisi e ironici applausi di incoraggiamento.

DA BRUXELLES sono arrivati tanti politici, compresi i capigruppo di S&D, Greens e liberali. Intravista tra la folla l’ex sindaca di Barcellona Ada Colau avvolta nella kefiah. Eccetto per qualche adesivo e scritta sulla pelle, a Budapest la Palestina è uscita dai radar.

MOLTO VISIBILE per decibel e bandiere la presenza italiana, composta da un centinaio di persone in rappresentanza di tante associazioni Lgbtq+ del nostro Paese. A nome di tutti ha parlato Gabriele Piazzoni, segretario generale di Arcigay: «Siamo convintissimi che i diritti civili siano senza confini e nel momento in cui un Paese membro mette in discussione i principi fondamentali su cui è costruita l’Unione europea è dover ergersi a difesa e supporto del movimento Lgbtq+ ungherese».

A fargli eco, fra i presenti, la segretaria del Pd, Elly Schlein, secondo cui «il divieto del Pride è censura e discriminazione istituzionale. Non lo possiamo accettare e per questo abbiamo deciso di essere qui». Angelo Bonelli di Alleanza Verdi e Sinistra ha invece ribadito che il Pride «è una battaglia di libertà contro l’autoritarismo e siamo al fianco di chi lotta per l’uguaglianza contro ogni discriminazione». Sono venuti anche i rappresentanti del Movimento 5 Stelle e non è mancata la delegazione di +Europa. Non ha perso l’occasione neanche Carlo Calenda, a suo agio tra bandiere europee e slogan anti-Orbán in una giornata senza conflitti per il campo larghissimo.

ASSORDANTE SILENZIO, invece, dal premier Orbán, almeno nelle ore immediatamente successive al corteo del Pride. In compenso, ha postato sul proprio profilo social una foto che ritrae i suoi tre nipoti, intenti a raccogliere fiori nei prati, dichiarandosi: «Orgoglioso di loro». Di sicuro Orbán dovrà presto distogliere l’interesse dai prati e prestare attenzione alle strade di Budapest. Da come saprà ribattere a sua volta cogliendo i segnali ricevuti ieri, passeranno molte delle sue chance di restare in sella all’Ungheria.

 

Lorenzo Berardi (da “Il Manifesto” del 29/06/2025)