sabato 5 luglio 2025

Deportati dal capitale


Miguel Mellino

(da “Il Manifesto” del 30/1/25)

 

La politica delle deportazioni di massa di Trump sta scandalizzando parte della sfera pubblica globale: paradossalmente quella progressista. La “battaglia di Los Angeles” sta condensando il dibattito attorno a una sua presunta eccezionalità rispetto a un altrettanto presunta ontologia politica liberal-democratica della “terra dei liberi”. Un simile stupore ci appare come l’espressione di una certa innocenza bianca che diviene davvero perversa nel momento in cui forclude l’apparato di espulsione, detenzione e deportabilità su cui si fonda il regime migratorio europeo.

DICIAMOLO subito: la politica delle deportazioni di Trump ha poco di eccezionale. Nelle presidenze di Obama (2009-2017) le deportazioni hanno raggiunto un livello record: oltre 3milioni in otto anni, tanto che egli fu sopranominato deporter-in-chief da una parte dell’attivismo per i diritti dei migranti. Anche con Biden la “deportazione come metodo” è rimasta un dispositivo piuttosto attivo: dati ufficiali parlano di quasi 600mila deportati e di un triste record raggiunto nel 2024 con 272mila rimpatri, il massimo dell’ultimo decennio. Tuttavia sottolineare questa continuità tra Trump, Obama e Biden aggiunge poco a una riflessione sull’argomento. Il ricorso in modo esplicito ai raid a caccia di migranti deportabili nei centri urbani, così come il dispiegamento dell’esercito per fronteggiare i migranti in rivolta e la stessa scelta di Los Angeles come terreno dello scontro, città-regione multietnica e meticcia di uno stato Woke, rispecchiano un sembiante “epocale”. Un sembiante la cui “causa assente” va cercata nell’attuale congiuntura globale di guerra, nel declino dell’egemonia statunitense e della civiltà bianca occidentale, così come del razzismo strutturale – sempre più strutturalmente in crisi, anche a livello demografico – e del suprematismo bianco negli Usa.

AL DI LÀ della specificità congiunturale appare però altrettanto superficiale soffermarsi sulle differenze. Soffermiamoci, quindi, su qualcosa di più profondo: nella storia degli Usa la deportazione, anche di massa, non costituisce affatto un dispositivo di eccezione. Ce lo suggeriscono numerosi studi recenti, alimentati, non a caso, dal fenomeno Trump. Un dato appare assai sintomatico come «genealogia del presente»: in The Deportation Machine (2023) A. Goodman ci ricorda che dal 1882 ad oggi gli Stati uniti hanno deportato 57milioni di persone, più di qualsiasi altro paese al mondo. Dalla fine del 19esimo secolo è stato costruito un assemblaggio flessibile di leggi e pratiche volte a espellere soggetti considerati «indesiderabili». Basta menzionare qui il Chinese Exclusion Act del 1882, o l’Immigration Act del 1917 che, come ricordano J. R. Kraut in Threat of Dissent. A History of Ideological Exclusion and Deportation in the United States (2020) e l’oramai classico Immigrant Acts. On Asian Cultural Politics (1996) di L. Lowe, ampliò la categoria dei soggetti deportabili ad «asiatici», anarchici, militanti politici e sindacali, stranieri senza documenti e chiunque (criminali, malati mentali, ecc.) potesse essere considerato una minaccia alla sicurezza nazionale, come le migliaia di migranti arrestati e deportati con l’accusa di attività sovversiva negli anni della «grande paura rossa».

E tuttavia, ricorda Goodman, negli Usa il significante deportato resta sinonimo di «messicano». Negli anni ’30, in piena Grande Depressione, H. Hoover promosse una delle campagne di deportazioni più violente della storia: quasi 2 milioni di persone di origine messicana vennero espulse. Come documentano F. Balderrama e R. Rodriguez in Decade of Betrayal. Mexican Repatriation in the 1930s (1995), molti erano cittadini americani. Durante la Seconda guerra mondiale, la «macchina della deportazione» è stata attivata dalla logica della sicurezza nazionale: migliaia di cittadini nippo-americani vennero internati, con un provvedimento firmato dallo stesso Roosevelt, mentre le deportazioni colpirono anche tedeschi e italiani, in quanto stranieri «nemici». Negli anni ’50, infine, Einsenhower lanciò la cosiddetta Operation Wetback, un vasto programma di deportazione che colpì di nuovo centinaia di migliaia di lavoratori messicani e messicano-americani. Questa nuova “grande deportazione” avvenne, come oggi, attraverso retate, rastrellamenti, detenzioni arbitrarie e altre forme di violenza e sopraffazione fisica. Le bandiere del Messico apparse a Los Angeles non stanno per alcun semplice nazionalismo “latino”: esprimono la memoria e la resistenza delle comunità messicane negli Usa.

EPPURE, la deportazione come dispositivo di governo non è affatto la peculiarità di un’eccezione americana. Conosciamo la sua tragica storia in Europa: una storia che non è mero passato, come mostra non solo il nuovo delirio razziale “albanese” del post-fascismo italiano, ma anche il Nuovo Patto europeo sulla migrazione e l’asilo. Qui vogliamo soltanto aggiungere che sarà con l’espansione coloniale che la deportazione diventerà parte di una tecnologia biopolitica e necropolitica più ampia di produzione di territori e popolazioni nazionali. I diversi progetti di colonialismo d’insediamento, per non parlare poi del sionismo in Palestina, hanno avuto nella deportazione un dispositivo centrale di ingegneria sociale, razziale, culturale e territoriale.

DA UNA PARTE, lo sviluppo del modo di produzione schiavistico, prima della tratta di africani, così come il progetto di colonizzazione dei territori nativi, si è fondato sulla deportazione di massa dall’Europa nelle colonie di detenuti, dissidenti religiosi e politici, ma anche di poveri, servi e plebi resistenti alla disciplina del capitalismo nascente. Dall’altra, nei territori coloniali, l’esercizio ‘sovrano’ della deportazione appariva connessa all’espropriazione, all’annientamento, alla sostituzione, alla rilocalizzazione forzata delle popolazioni indigene, ma anche alle rivolte di schiavi, ribelli e nativi. Da sottolineare questo ultimo punto: tanto nell’Europa della transizione al capitalismo, quanto nelle colonie la deportazione è andata configurandosi come una risposta del potere sovrano alla crescente mobilità umana.

ANCHE SE la deportazione di ‘indesiderati’ esiste da millenni – essendo retrodatabile alle civiltà mesopotamiche, passando dall’antichità classica al medioevo europeo – il suo vero Reale come pratica di governo sta nella colonialità del comando capitalistico globale moderno: nella tragica combinazione di razza, capitale e sovranità come dispositivo di dominio. Ci piace ricordare una celebre enunciazione di Malcolm X nel centenario della sua nascita: You Can’t Have Capitalism Without Racism.

Vale a dire, You Can’t Have Capitalism Without  Deportations. È quanto ci trasmettono anche alcune delle mobilitazioni più significative dei nostri giorni: dalle insorgenze globali per la Palestina ai movimenti No Kings contro Trump, passando per le lotte contro la deriva securitaria-autoritaria nei nostri territori.