Deportati dal capitale
Miguel Mellino
(da “Il Manifesto” del 30/1/25)
La politica delle
deportazioni di massa di Trump sta scandalizzando parte della sfera pubblica
globale: paradossalmente quella progressista. La “battaglia di Los Angeles” sta
condensando il dibattito attorno a una sua presunta eccezionalità rispetto a un
altrettanto presunta ontologia politica liberal-democratica della “terra dei
liberi”. Un simile stupore ci appare come l’espressione di una certa innocenza
bianca che diviene davvero perversa nel momento in cui forclude l’apparato di
espulsione, detenzione e deportabilità su cui si fonda il regime migratorio
europeo.
DICIAMOLO subito:
la politica delle deportazioni di Trump ha poco di eccezionale. Nelle
presidenze di Obama (2009-2017) le deportazioni hanno raggiunto un livello
record: oltre 3milioni in otto anni, tanto che egli fu sopranominato
deporter-in-chief da una parte dell’attivismo per i diritti dei migranti. Anche
con Biden la “deportazione come metodo” è rimasta un dispositivo piuttosto
attivo: dati ufficiali parlano di quasi 600mila deportati e di un triste record
raggiunto nel 2024 con 272mila rimpatri, il massimo dell’ultimo decennio.
Tuttavia sottolineare questa continuità tra Trump, Obama e Biden aggiunge poco
a una riflessione sull’argomento. Il ricorso in modo esplicito ai raid a caccia
di migranti deportabili nei centri urbani, così come il dispiegamento
dell’esercito per fronteggiare i migranti in rivolta e la stessa scelta di Los
Angeles come terreno dello scontro, città-regione multietnica e meticcia di uno
stato Woke, rispecchiano un sembiante “epocale”. Un sembiante la cui “causa
assente” va cercata nell’attuale congiuntura globale di guerra, nel declino
dell’egemonia statunitense e della civiltà bianca occidentale, così come del
razzismo strutturale – sempre più strutturalmente in crisi, anche a livello
demografico – e del suprematismo bianco negli Usa.
AL DI LÀ della
specificità congiunturale appare però altrettanto superficiale soffermarsi
sulle differenze. Soffermiamoci, quindi, su qualcosa di più profondo: nella
storia degli Usa la deportazione, anche di massa, non costituisce affatto un
dispositivo di eccezione. Ce lo suggeriscono numerosi studi recenti,
alimentati, non a caso, dal fenomeno Trump. Un dato appare assai sintomatico
come «genealogia del presente»: in The Deportation Machine (2023) A. Goodman ci
ricorda che dal 1882 ad oggi gli Stati uniti hanno deportato 57milioni di
persone, più di qualsiasi altro paese al mondo. Dalla fine del 19esimo secolo è
stato costruito un assemblaggio flessibile di leggi e pratiche volte a
espellere soggetti considerati «indesiderabili». Basta menzionare qui il
Chinese Exclusion Act del 1882, o l’Immigration Act del 1917 che, come
ricordano J. R. Kraut in Threat of Dissent. A History of Ideological
Exclusion and Deportation in the United States (2020) e l’oramai classico
Immigrant Acts. On Asian Cultural
Politics (1996) di L. Lowe, ampliò la categoria dei soggetti deportabili ad
«asiatici», anarchici, militanti politici e sindacali, stranieri senza
documenti e chiunque (criminali, malati mentali, ecc.) potesse essere
considerato una minaccia alla sicurezza nazionale, come le migliaia di migranti
arrestati e deportati con l’accusa di attività sovversiva negli anni della
«grande paura rossa».
E tuttavia, ricorda
Goodman, negli Usa il significante deportato resta sinonimo di «messicano».
Negli anni ’30, in piena Grande Depressione, H. Hoover promosse una delle
campagne di deportazioni più violente della storia: quasi 2 milioni di persone
di origine messicana vennero espulse. Come documentano F. Balderrama e R.
Rodriguez in Decade of Betrayal. Mexican Repatriation in the 1930s (1995),
molti erano cittadini americani. Durante la Seconda guerra mondiale, la
«macchina della deportazione» è stata attivata dalla logica della sicurezza
nazionale: migliaia di cittadini nippo-americani vennero internati, con un
provvedimento firmato dallo stesso Roosevelt, mentre le deportazioni colpirono
anche tedeschi e italiani, in quanto stranieri «nemici». Negli anni ’50,
infine, Einsenhower lanciò la cosiddetta Operation Wetback, un vasto programma
di deportazione che colpì di nuovo centinaia di migliaia di lavoratori
messicani e messicano-americani. Questa nuova “grande deportazione” avvenne,
come oggi, attraverso retate, rastrellamenti, detenzioni arbitrarie e altre
forme di violenza e sopraffazione fisica. Le bandiere del Messico apparse a Los
Angeles non stanno per alcun semplice nazionalismo “latino”: esprimono la
memoria e la resistenza delle comunità messicane negli Usa.
EPPURE, la
deportazione come dispositivo di governo non è affatto la peculiarità di
un’eccezione americana. Conosciamo la sua tragica storia in Europa: una storia
che non è mero passato, come mostra non solo il nuovo delirio razziale
“albanese” del post-fascismo italiano, ma anche il Nuovo Patto europeo sulla
migrazione e l’asilo. Qui vogliamo soltanto aggiungere che sarà con
l’espansione coloniale che la deportazione diventerà parte di una tecnologia
biopolitica e necropolitica più ampia di produzione di territori e popolazioni
nazionali. I diversi progetti di colonialismo d’insediamento, per non parlare
poi del sionismo in Palestina, hanno avuto nella deportazione un dispositivo
centrale di ingegneria sociale, razziale, culturale e territoriale.
DA UNA PARTE, lo
sviluppo del modo di produzione schiavistico, prima della tratta di africani,
così come il progetto di colonizzazione dei territori nativi, si è fondato
sulla deportazione di massa dall’Europa nelle colonie di detenuti, dissidenti
religiosi e politici, ma anche di poveri, servi e plebi resistenti alla
disciplina del capitalismo nascente. Dall’altra, nei territori coloniali,
l’esercizio ‘sovrano’ della deportazione appariva connessa all’espropriazione,
all’annientamento, alla sostituzione, alla rilocalizzazione forzata delle
popolazioni indigene, ma anche alle rivolte di schiavi, ribelli e nativi. Da
sottolineare questo ultimo punto: tanto nell’Europa della transizione al
capitalismo, quanto nelle colonie la deportazione è andata configurandosi come
una risposta del potere sovrano alla crescente mobilità umana.
ANCHE SE la
deportazione di ‘indesiderati’ esiste da millenni – essendo retrodatabile alle
civiltà mesopotamiche, passando dall’antichità classica al medioevo europeo –
il suo vero Reale come pratica di governo sta nella colonialità del comando
capitalistico globale moderno: nella tragica combinazione di razza, capitale e
sovranità come dispositivo di dominio. Ci piace ricordare una celebre
enunciazione di Malcolm X nel centenario della sua nascita: You Can’t Have
Capitalism Without Racism.
Vale a dire, You Can’t Have Capitalism Without Deportations. È quanto ci trasmettono anche alcune delle mobilitazioni più significative dei nostri giorni: dalle insorgenze globali per la Palestina ai movimenti No Kings contro Trump, passando per le lotte contro la deriva securitaria-autoritaria nei nostri territori.