LA TRISTE VITA DI UN PAESE
DOVE NON SI
VOGLIONO PIÙ FARE FIGLI
In un articolo sul
Corriere della Sera (21.6) Maurizio Ferrera affronta un problema che sta
diventando dirompente nel mondo occidentale, quello della denatalità, che per
ciò che riguarda in particolare l’Italia, che ha il tasso di natalità più basso
del mondo in concorrenza col Giappone, potrebbe portare nel giro di venti o trent’anni
alla scomparsa della razza (si può ancora usare questo termine?) italiana nel
mondo.
Al centro del
problema c’è che molte donne, parliamo ovviamente dell’occidente, non vogliono
più fare figli. I motivi sono vari: “difficoltà economiche, mancanza di asili
nido” e altri del genere.
Secondo varie
stime, nella fascia di età 18-34, il 21% delle giovani dice di non volere figli
e un altro 29% si dichiara solo debolmente interessato. È singolare che le
donne rinuncino a quella che dal punto di vista antropologico è la loro
funzione. Molte ritardano il momento della figliazione perché la medicina
tecnologica le ha convinte che si possono fare figli a ogni età. Non è così.
Gli anni della massima fertilità della donna sono intorno al ventisettesimo compleanno,
poi va gradualmente a discendere e se tu vuoi avere il primo figlio a quarant’anni,
a parte il ricorso a qualche mostruosità
tecno-medica sono
cazzi acidi.
Io capisco che una
donna oggi, che ha quasi conquistato la parità col genere maschile nel mondo
del lavoro, voglia potersi muovere liberamente senza gli antichi handicap. Ma
sconsiglierei vivamente a una donna di rinunciare alla sua funzione
antropologica (in fondo il maschio, in questa storia, è solo un fuco
transeunte, un inseminatore più o meno casuale).
Negli ultimi anni
sono stato compagno di varie donne nel pieno dei loro quaranta. Una sola,
un’oncologa del seno, aveva un figlio: cosa che non le ha impedito di fare una
formidabile carriera e oggi ha posizioni apicali in università e ospedali negli
States dove la konkurrenzkampf è fortissima in tutti i settori, in particolare
in quello della Sanità. Sanità pubblica perché, come si sa, quella privata è
riservata ai magnati. Lo dico per inciso, nella disprezzatissima Cuba, paese
tuttora comunista, la Sanità e l’istruzione sono gratuite, anche se non esiste,
né può esistere, un diritto alla salute né alla felicità.
E infatti nella
Dichiarazione d’indipendenza americana del 1776 si parla di un diritto alla
ricerca della felicità, parola proibita che non dovrebbe essere mai pronunciata
come faccio dire a una mia attrice nel mio spettacolo teatrale Cyrano se vi
pare.
Nella Dichiarazione
d’indipendenza si parla del diritto ad avere cure adeguate, alla Sanità quindi,
non di un diritto alla salute che nessuno foss’anche Domineddio può garantire.
Ma l’edonismo straccione contemporaneo ha trasformato il diritto alla ricerca
della felicità in un vero e proprio diritto alla felicità e con ciò stesso rendendo
l’uomo ipso facto infelice. Perché, nella società attuale,
salito un gradino
bisogna immediatamente salirne un altro e non si può arrivare a un punto di
equilibrio e di soddisfazione.
Ebbene. Questa
giovane donna era più equilibrata di tutte le altre.
Perché? Perché il
figlio o i figli, per quanti sacrifici richiedano o forse proprio per quelli,
sono una ricchezza che ti costringe a confrontarti col principio di realtà. Le
altre rimangono sempre figlie e non sopportano l’abbandono. Una di queste,
chiamiamola convenzionalmente Sandra, aveva perso la madre che aveva 89 anni,
un’età ragionevole per andarsene. Io ho sempre insegnato a mio figlio, fin da
quando era bambino, che i genitori, perché questo vuole la Natura, devono morire:
il dolore più lancinante è la perdita di un figlio quali che siano stati i
rapporti con lui. Ma Sandra non si
rassegnava.
Passeggiavamo per le vie di Milano e lei piangeva.
“Perché piangi
Sandra?”, “Perché è un mese che è morta mamma”. “Perché piangi Sandra?”,
“Perché sono due mesi che è morta mamma”. “Perché piangi Sandra?”, “Perché in
questa strada sono passata con mamma”.
E il discorso
potrebbe allargarsi ai giovani attuali, molto diversi da chi, come me, ha
vissuto gli anni duri del Dopoguerra e che non hanno capito che la vita è innanzitutto
sofferenza e dolore e che tutto il resto che viene in più, per dirla in modo
molto volgare, “è grasso che cola”.
Massimo Fini (da “Il Fatto quotidiano” del 27 giugno 2025)