Pride, fine vita e aborto:
gli Orbán d’Italia minano i diritti civili
STEFANO IANNACCONE
(da “Domani” del 29 giugno 2025)
La destra di Meloni
è rimasta in silenzio davanti all’onda arcobaleno. Il modello ungherese fa
breccia e sul fine vita non arrivano aperture. La cannabis light già colpita
Il gelo, nei confronti dei Pride prima quello di Roma e poi l’altro di
Budapest, è la fotografia del pensiero governo italiano nei confronti dei
diritti Lgbtiqa+. Giorgia Meloni, solitamente loquace, ha seguito in silenzio
la decisione dell’omologo ungherese, Viktor Orbán, di vietare il Pride.
Un’imposizione che non è passata inosservata, a più livelli, poi travolta
dall’onda arcobaleno nella capitale dell’Ungheria. La destra italiana vive la
mobilitazione arcobaleno con un certo fastidio. Basti pensare alle uscite di
Roberto Vannacci, vicesegretario della Lega.
Al netto delle
dichiarazioni, ci sono i fatti: nel 2023 l’esecutivo ha fatto emanare,
attraverso il Viminale, la circolare per vietare ai sindaci la registrazione
nei documenti comunali dei figli di coppie omogenitoriali. E ancora: c’è
l’assalto in corso della destra di Meloni al fine vita con una legge, ancora in
forma di bozza, che sembra andare in direzione opposta a un ampliamento dei
diritti civili.
Il progetto di restaurazione sui diritti è partito con riforme già varate, in
testa quelle sulla gestazione per altri e sulla cannabis light, colpita e
affondata dal decreto Sicurezza. Sullo sfondo l’antica tentazione di limitare
l’aborto con interventi mirati, senza toccare la legge.
Meno diritti: certo,
la strategia è quella di affidare ai parlamentari i temi eticamente sensibili
per non mettere il cappello governativo su iniziative molto delicate per
l’opinione pubblica. Ma la regia politica resta chiara. «Meloni toglie un
diritto alla volta e costruisce mattone per mattone un carcere invisibile dove
gli italiani hanno sempre meno libertà», dice a Domani il deputato di +Europa,
Riccardo Magi.
La storica giornata
di Budapest segna comunque uno spartiacque. Il premier ungherese, che ha
inizialmente subito in silenzio la marea arrivata nella capitale del suo paese,
ha definito la manifestazione «una vergogna, uno spettacolo ripugnante»,
scagliandosi contro la Commissione europea, rea di aver difeso il diritto a
manifestare e contrastare le discriminazioni.
«L’Europa è la patria dello stato di diritto, della libertà e della
democrazia», ha fatto però notare la deputata di Alleanza verdi-sinistra, Elisabetta
Piccolotti, lanciando una sfida: «Se a Orbán non piace raggiunga qualcuna tra
le sue democrature preferite».
Gli echi di Budapest si sono sentiti anche a Roma. I buoni uffici di Meloni con
Orbán sono storia nota. Frequentano famiglie politiche diverse in Ue, ma hanno
affinità note, oltre alla reciproca simpatia.
Dentro Fratelli
d’Italia è stato mandato in avanscoperta il ministro del Pnrr, Tommaso Foti, in
un’intervista alla Stampa, si è limitato a dire: «La libertà di manifestare va
sempre garantita». Agli atti resta un immobilismo nel contrasto all’omotransfobia.
Al Senato c’è il disegno di legge presentato da Ivan Scalfarotto, di Italia
viva, che di certo non ha trovato una corsia privilegiata nei calendari
parlamentari. Anzi.
Il tema dei diritti
tira in ballo il dibattito sul fine vita. Dopo le sollecitazioni della Corte
costituzionale, con due diverse sentenze, il parlamento ha iniziato a mettere
mano alla questione. Solo che la destra va verso un restringimento delle possibilità
di scelta.
«Dal concepimento
alla morte naturale»: la destra usa la legge sul fine vita per colpire l’aborto.
Al momento si tratta solo di una bozza, ma viene innanzitutto tagliato fuori il
sistema sanitario nazionale dalle prestazioni ed è allo studio un comitato ad
hoc che è il pivot di un meccanismo farraginoso: sembra una risposta pro-forma
alla richiesta della Consulta sulla legiferazione sul fine vita che una volontà
di dare risposte ai cittadini sul suicidio medicalmente assistito.
«Piuttosto che un comitato etico scelto da Palazzo Chigi e l’obbligo delle cure
palliative, meglio nessuna legge», osserva Magi.
La pietra angolare della battaglia della destra è stata quella
sull’interruzione volontaria della gravidanza. Lo scorso anno, al termine del
G7 in Italia, era sparito il riferimento al diritto all’aborto sicuro e legale.
La motivazione ufficiale non è mai stata resa nota, restano i sospetti su una
manina dei meloniani di palazzo Chigi. Una delle sicurezze è che in Italia
esiste il problema degli obiettori che complicano l’accesso all’aborto, mentre
la destra sostiene i gruppi cosiddetti pro-vita.
Fine vita e
procreazione assistita: il diritto come rimedio al fallimento della politica. E se sull’aborto, ci si muove in maniera
sotterranea, sulla gestazione per altri la sfida è stata condotta a viso
aperto. La destra ha approvato la legge che introduce il reato universale per
la maternità surrogata, che la destra etichetta come «utero in affitto».
Nessun confronto sul merito, nonostante sul tema ci fossero posizioni diverse
anche nel centrosinistra. L’importante era marcare il territorio, nel segno
della restaurazione.