domenica 3 agosto 2025

Antisemitismo e dintorni. Vietato pensare

 

Valentina Pazé

 

«La parola sacra non deve essere capita o interpretata. Va ripetuta liturgicamente e applicata alla lettera a tutti i contenuti e le circostanze che i nomoteti-legislatori hanno stabilito essere di sua pertinenza. La parola sacra è incomparabile». Lo scrive la semiologa Valentina Pisanty – una che di uso, e abuso, delle parole se ne intende – riferendosi al lemma “antisemitismo” (Antisemita. Una parola in ostaggio, Bompiani 2025, p. 119). Sequestrata dall’estrema destra israeliana, auto-proclamatasi protettrice ufficiale dell’ebraismo mondiale, la parola “antisemitismo” viene oggi isolata nella sua pretesa unicità, come se il fenomeno a cui si riferisce non fosse paragonabile ad altre forme, egualmente odiose e non meno diffuse, di razzismo, a partire dall’islamofobia. E da quello che Lorenzo Kamel ha chiamato “antipalestinianismo”.

Il divieto di fare comparazioni vale oggi anche quale criterio per stabilire che cosa può essere qualificato come atto antisemita, in base alla “nuova definizione” di antisemitismo adottata nel 2016 dall’IHRA (International Holocaust Remembrance Alliance), di cui Pisanty ricostruisce la genesi e le vicissitudini. Proposta inizialmente come strumento “operativo”, tra mille distinguo, per sollecitare una riflessione sulle nuove forme in cui può presentarsi il pregiudizio antiebraico, questa definizione viene oggi troppo spesso presa alla lettera e brandita come una clava contro qualsiasi critica nei confronti del sionismo o dell’operato dei governi israeliani, equiparate all’odio antiebraico. Tra i possibili esempi di antisemitismo menzionati in questa definizione (molto discussa e oggi respinta dalla maggior parte degli accademici che si occupano del tema) c’è: «fare paragoni tra la politica israeliana contemporanea e quella dei nazisti».

Se il piano ideato da Trump, ed entusiasticamente sposato da Netanyahu, di “ripulire” la striscia di Gaza di due milioni di palestinesi, uccidendoli o favorendone l’emigrazione “volontaria”, fa scattare in qualcuno l’associazione con la “soluzione finale”, ecco suonare l’allarme: antisemitismo! Se la “città umanitaria” annunciata dal ministro della difesa Katz, destinata a internare i gazawi refrattari a farsi deportare volontariamente, ricorda tanto, troppo, un campo di concentramento, se non di sterminio (dato il modo di operare della fondazione che sta gestendo la distribuzione del cibo a Gaza), bisognerà astenersi dal dirlo. Antisemitismo! Guai anche a chi, prima del 7 ottobre, abbia osato paragonare la prigione a cielo aperto di Gaza a un ghetto ebraico in un paese europeo occupato dai nazisti. Lo ha fatto, in termini problematici, la giornalista di origine ebrea Masha Gessenvenendo per questo esclusa dalla cerimonia di conferimento di un premio dedicato a Hannah Arendt. Lo ricorda Donatella Della Porta, elencando decine di altri incredibili casi di intellettuali, molti dei quali ebrei, bollati come antisemiti in Germania per avere espresso solidarietà nei confronti dei palestinesi (Guerra all’antisemitismo? Il panico morale come strumento di repressione politica, Altraeconomia, 2025). Parlare di “squadrismo fascista” per riferirsi ai crimini di coloni ed esercito israeliano in Cisgiordania, per lo meno, si può? Perché è davvero difficile trovare altre parole per descrivere ciò che lì sta accadendo, e non dal 7 ottobre (come ben documenta il film vincitore del premio Oscar No Other Land)…

«I fenomeni umani si qualificano innanzitutto per catene di fenomeni simili. Classificarli per genere significa […] mettere a nudo linee di forza di un’efficacia fondamentale». Nella sua Apologia della storia (Feltrinelli 2024, p. 245), Marc Bloch spiegava che per comprendere un fenomeno non si può fare a meno di confrontarlo con fenomeni simili, costruendo categorie generali applicabili a più enti. Ma quando si tratta di Israele e della Palestina le comparazioni storiche sono vietate. Si pensi alla parola più “sacra” e interdetta di tutte: genocidio. Che sia stato commesso un genocidio a Srebrenica si può dire: lo hanno ricordato i grandi mezzi di comunicazione, nell’anniversario della strage attuata trent’anni fa dall’esercito serbo nei confronti di più di 8000 civili, colpevoli solo di essere bosniaci. La mattanza di Gaza viene fatta rientrare, a priori, in tutt’altra categoria, se avanzare anche solo il dubbio che sia oggi in corso un genocidio suona come una bestemmia. Anche quando è la Corte Internazionale di Giustizia a farlo, stabilendo la “plausibilità” dell’accusa mossa dal Sud Africa nei confronti di Israele (non ora, ma nel gennaio del 2024). Anche quando la denuncia viene da un’organizzazione israeliana come B’tselem, sulla base di testimonianze rese da soldati dell’Idf, o dalla relatrice speciale dell’ONU Francesca Albanese, sanzionata dagli Usa dopo la pubblicazione del suo ultimo Rapporto dedicato, per l’appunto, all’“economia del genocidio”.

Eppure, genocidio è una categoria, non un nome proprio riferibile a un unico evento. Le categorie, i concetti, servono ad abbracciare fenomeni molteplici, diversi tra loro, sulla base dell’esistenza di qualche tratto in comune. In sede storica, il vocabolo “genocidio”, coniato nel 1944 dall’avvocato polacco Raphael Lemkin, viene comunemente usato per riferirsi allo sterminio dei popoli nativi americani e australiani da parte dei colonizzatori europei, o a quello degli Armeni durante la prima guerra mondiale, oltre che alla Shoah. Ciascuno di questi eventi rimane, naturalmente, unico nel suo genere, come tragicamente unico nel suo genere è ciò che sta avvenendo oggi a Gaza, sotto gli occhi del mondo. “Genocidio” è inoltre una categoria giuridica, da quando è stata adottata in sede ONU la Convenzione per la prevenzione e repressione del crimine di genocidio, nel 1948. È in base a quella definizione, che identifica come genocidio ogni atto «commesso con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso», che sono stati incriminati, tra gli altri, i responsabili dell’eccidio dei Tutsi in Rwanda. E sono oggi indagati i vertici del potere israeliano, accusati, tra l’altro, di servirsi intenzionalmente della fame come strumento di guerra e di pulizia etnica.

Ma sui principali giornali e trasmissioni televisive questo non si può dire. Come non si può dire che anche nella “guerra dei 12 giorni” (e delle oltre 1000 vittime iraniane, per lo più civili) c’erano «un aggredito e un aggressore». E che anche nella storia della Palestina ci sono “un occupante e un occupato” (si legga in merito il fondamentale Palestina. Cento anni di colonialismo, guerra e resistenza, di Rashid Khalidi, recentemente tradotto da Laterza).

Di nuovo: vietato comparare. Che poi significa: vietato pensare.

 

da “volerelaluna.it” del 25/7/25