Antisemitismo e dintorni. Vietato pensare
Valentina Pazé
«La parola sacra
non deve essere capita o interpretata. Va ripetuta liturgicamente e applicata
alla lettera a tutti i contenuti e le circostanze che i nomoteti-legislatori
hanno stabilito essere di sua pertinenza. La parola sacra è incomparabile». Lo
scrive la semiologa Valentina Pisanty – una che di uso, e abuso, delle parole
se ne intende – riferendosi al lemma “antisemitismo” (Antisemita. Una parola
in ostaggio, Bompiani 2025, p. 119). Sequestrata dall’estrema
destra israeliana, auto-proclamatasi protettrice ufficiale dell’ebraismo
mondiale, la parola “antisemitismo” viene oggi isolata nella sua pretesa
unicità, come se il fenomeno a cui si riferisce non fosse paragonabile ad altre
forme, egualmente odiose e non meno diffuse, di razzismo, a partire dall’islamofobia.
E da quello che Lorenzo Kamel ha chiamato “antipalestinianismo”.
Il divieto di fare
comparazioni vale oggi anche quale criterio per stabilire che cosa può essere
qualificato come atto antisemita, in base alla “nuova definizione” di
antisemitismo adottata nel 2016 dall’IHRA (International Holocaust Remembrance Alliance), di cui Pisanty
ricostruisce la genesi e le vicissitudini. Proposta inizialmente come strumento
“operativo”, tra mille distinguo, per sollecitare una riflessione sulle nuove
forme in cui può presentarsi il pregiudizio antiebraico, questa
definizione viene oggi troppo spesso presa alla lettera e brandita come una
clava contro qualsiasi critica nei confronti del sionismo o dell’operato dei
governi israeliani, equiparate all’odio antiebraico. Tra i possibili esempi
di antisemitismo menzionati in questa definizione (molto discussa e oggi
respinta dalla maggior parte degli accademici che si occupano del tema) c’è:
«fare paragoni tra la politica israeliana contemporanea e quella dei nazisti».
Se il piano ideato
da Trump, ed entusiasticamente sposato da Netanyahu, di “ripulire” la striscia
di Gaza di due milioni di palestinesi, uccidendoli o favorendone l’emigrazione
“volontaria”, fa scattare in qualcuno l’associazione con la “soluzione finale”,
ecco suonare l’allarme: antisemitismo! Se la “città umanitaria” annunciata dal
ministro della difesa Katz, destinata a internare i gazawi refrattari a farsi
deportare volontariamente, ricorda tanto, troppo, un campo di concentramento,
se non di sterminio (dato il modo di operare della fondazione che sta gestendo
la distribuzione del cibo a Gaza), bisognerà astenersi dal dirlo.
Antisemitismo! Guai anche a chi, prima del 7 ottobre, abbia osato paragonare la
prigione a cielo aperto di Gaza a un ghetto ebraico in un paese europeo
occupato dai nazisti. Lo ha fatto, in termini problematici, la giornalista di
origine ebrea Masha Gessen, venendo per questo esclusa dalla
cerimonia di conferimento di un premio dedicato a Hannah Arendt. Lo
ricorda Donatella Della Porta, elencando decine di altri incredibili casi di
intellettuali, molti dei quali ebrei, bollati come antisemiti in Germania per
avere espresso solidarietà nei confronti dei palestinesi (Guerra
all’antisemitismo? Il panico morale come strumento di repressione politica,
Altraeconomia, 2025). Parlare di “squadrismo fascista” per riferirsi ai
crimini di coloni ed esercito israeliano in Cisgiordania, per lo meno, si può? Perché
è davvero difficile trovare altre parole per descrivere ciò che lì sta
accadendo, e non dal 7 ottobre (come ben documenta il film vincitore del premio
Oscar No Other Land)…
«I fenomeni umani
si qualificano innanzitutto per catene di fenomeni simili. Classificarli per
genere significa […] mettere a nudo linee di forza di un’efficacia
fondamentale». Nella sua Apologia della storia (Feltrinelli
2024, p. 245), Marc Bloch spiegava che per comprendere un fenomeno non
si può fare a meno di confrontarlo con fenomeni simili, costruendo
categorie generali applicabili a più enti. Ma quando si tratta di
Israele e della Palestina le comparazioni storiche sono vietate. Si pensi
alla parola più “sacra” e interdetta di tutte: genocidio. Che sia stato
commesso un genocidio a Srebrenica si può dire: lo hanno ricordato i grandi
mezzi di comunicazione, nell’anniversario della strage attuata trent’anni fa
dall’esercito serbo nei confronti di più di 8000 civili, colpevoli solo di
essere bosniaci. La mattanza di Gaza viene fatta rientrare, a priori, in
tutt’altra categoria, se avanzare anche solo il dubbio che sia oggi in corso un
genocidio suona come una bestemmia. Anche quando è la Corte Internazionale
di Giustizia a farlo, stabilendo la “plausibilità” dell’accusa mossa dal Sud
Africa nei confronti di Israele (non ora, ma nel gennaio del 2024).
Anche quando la denuncia viene da un’organizzazione israeliana come B’tselem,
sulla base di testimonianze rese da soldati dell’Idf, o dalla relatrice
speciale dell’ONU Francesca Albanese, sanzionata dagli Usa dopo la
pubblicazione del suo ultimo Rapporto dedicato, per l’appunto, all’“economia
del genocidio”.
Eppure, genocidio è
una categoria, non un nome proprio riferibile a un unico evento. Le categorie, i concetti, servono ad
abbracciare fenomeni molteplici, diversi tra loro, sulla base dell’esistenza di
qualche tratto in comune. In sede storica, il vocabolo “genocidio”, coniato nel
1944 dall’avvocato polacco Raphael Lemkin, viene comunemente usato per
riferirsi allo sterminio dei popoli nativi americani e australiani da parte dei
colonizzatori europei, o a quello degli Armeni durante la prima guerra
mondiale, oltre che alla Shoah. Ciascuno di questi eventi rimane, naturalmente,
unico nel suo genere, come tragicamente unico nel suo genere è ciò che sta
avvenendo oggi a Gaza, sotto gli occhi del mondo. “Genocidio” è inoltre
una categoria giuridica, da quando è stata adottata in sede ONU la Convenzione
per la prevenzione e repressione del crimine di genocidio, nel 1948. È
in base a quella definizione, che identifica come genocidio ogni atto «commesso
con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale,
etnico, razziale o religioso», che sono stati incriminati, tra gli altri, i
responsabili dell’eccidio dei Tutsi in Rwanda. E sono oggi indagati i vertici
del potere israeliano, accusati, tra l’altro, di servirsi intenzionalmente
della fame come strumento di guerra e di pulizia etnica.
Ma sui principali
giornali e trasmissioni televisive questo non si può dire. Come non si può dire che anche nella “guerra
dei 12 giorni” (e delle oltre 1000 vittime iraniane, per lo più civili) c’erano
«un aggredito e un aggressore». E che anche nella storia della Palestina ci
sono “un occupante e un occupato” (si legga in merito il fondamentale Palestina.
Cento anni di colonialismo, guerra e resistenza, di Rashid Khalidi,
recentemente tradotto da Laterza).
Di nuovo: vietato
comparare. Che poi significa: vietato pensare.
da “volerelaluna.it” del 25/7/25