lunedì 25 agosto 2025

Il report di Francesca Albanese

e le alleanze scientifico-accademiche complici del genocidio a Gaza

Stefano Bertoldi

La lista di connessioni illustrata nel report, “Dall’economia dell’occupazione all’economia del genocidio” da Francesca Albanese, relatrice speciale ONU per i diritti umani nei territori occupati da Israele, pubblicato con questo titolo per PaperFIRST-Fatto Quotidiano, è a dir poco sconcertante. C’è un legame strettissimo tra mondo imprenditoriale “occidentale” e dunque anche italiano, mondo accademico e centri di ricerca o agenzie europee, come APRE che gestisce, con sede in Italia, il programma europeo Horizon cui dal 2021 aderisce anche Israele e le analoghe istituzioni ed enti israeliani: questo si trascina fin dal ’48, nonostante le proteste crescenti a partire già dalle prime intifade e prosegue tuttora nonostante un genocidio trasmesso in mondovisione.

Solo un anno prima della tragedia si svolgeva in Italia l'”Israel and Italy Cooperation in Horizon Framework Programme”, promosso dall’Ambasciata d’Israele in Italia, l’Ambasciata d’Italia in Israele, l’Agenzia per la promozione della Ricerca Europea, appunto l’APRE e l’Israel-Europe R&I Directorate (ISERD).Tra gli ambiti che balzano agli occhi nell’ambito di questo accordo scientifico-accademico uno è quello dell’agrifood, uno di quelli sui cui si è basato il colonialismo di insediamento, con furti di terra e bestiame e soprattutto con una gestione dissennata e padronale di un bene essenziale come l’acqua. Anche il termine stesso “genocidio”, sul quale la senatrice Segre ha di fatto riaffermato recentemente una sorta di “copyright” della comunità ebraica internazionale, è stato evitato da buona parte del Parlamento italiano, anche tra le forze di opposizione, a cominciare da un’esperta della materia come Laura Boldrini, il cui cambiamento a 180 gradi, in termini lessicali, è avvenuto solo dopo quasi due anni dal 7 ottobre, in un’intervista incalzante durante la quale il termine veniva tirato in ballo ma condizionato ad una futuribile decisione terminologica giurisprudenziale della Corte di giustizia internazionale (https://www.radiondadurto.org/2025/05/13/palestina-solidarieta-senza-frontiere-delegazione-italiana-in-partenza-per-il-valico-di-rafah-e-la-striscia-di-gaza/).

Francesca Albanese, che invece non ha mai avuto dubbi sul termine genocidio sul piano giuridico, ci racconta di una forma di dominio da parte di imprese private, appoggiate dai rispettivi governi pubblici che in passato, in altre situazioni geopolitiche fu definita come “capitalismo razziale coloniale” ma che oggi ben si ritaglia anche al regime sionista. Nel caso di Israele, l’autrice usa un termine ampio per indicare le imprese coinvolte in queste connivenze complici del genocidio in corso: viene adottata la definizione di “entità aziendali” ricomprendendo in esso “imprese commerciali multinazionali, entità a scopo di lucro e senza scopo di lucro sia private che pubbliche o di proprietà dello Stato, in cui la responsabilità aziendale si applica indipendentemente dalle dimensioni, dal settore dal contesto operativo dalla proprietà e dalla struttura dell’entità”.

Dato per assodato che tutta la parte iniziale del rapporto può essere sintetizzato da un’affermazione che non dovrebbe lasciarci dormire la notte, in quanto complici indiretti – ovverosia che grazie a queste complicità “tutti ci guadagnano” – è però altrettanto cruciale analizzare il settore universitario della ricerca e accademico. In questo ambito, le nostre “entità aziendali” sono chiamate in causa pesantemente per le sue strette connessioni con quello israeliano, il quale, in modo ancora più stretto di quello nostro, è scandalosamente legato da sempre all’apparato bellico-industriale. Un Paese impostosi per quasi 80 anni con la violenza e con un sistema di apartheid che si è perfezionato lungo una storia costellata di deportazioni di massa, repressione, incarcerazioni e detenzioni amministrative di migliaia di palestinesi, non poteva non avere un apparato educativo, accademico e scientifico assoldato da quello bellico. Quest’ultimo, forte di una propaganda che parte dai libri di scuola, basata sulla narrazione di una democrazia assediata fin dal suo nascere da dittature sanguinarie arabe e la disumanizzazione della popolazione araba, ha trasformato la società in una caserma fatta di riservisti e reclute impegnate per tre anni nel servizio di leva obbligatorio e “refresh” annuali (vd. La Palestina nei testi scolastici di Israele – Ideologia e propaganda nell’istruzione di Nurit Peled-Elhanan).

Nella 59a sessione del Consiglio per i diritti umani dell’ONU – tenutasi tra il 16 giugno e l’11 luglio 2025 – Francesca Albanese inserisce l’ambito accademico, “facilitatore” del genocidio, accanto al sistema finanziario, dove non sfuggono nemmeno alcuni enti caritatevoli di ispirazione cristiana come i Christian Friends of israeli-communities o i Dutch Christians for Israel, impegnati a sostenere progetti per le colonie illegali, alcuni dei quali di addestramento di coloni estremisti.

In cima alla lista figurano le scuole di legge israeliane e dipartimenti di archeologia e di studi mediorientali. Il loro lavoro in molti casi è finalizzato a costruire l’impalcatura ideologica giustificatoria del colonialismo di insediamento, che a sua volta può appoggiare le proprie fondamenta su una presunta pre-esistenza millenaria delle popolazioni di religione ebraica in quei territori, minimizzando quella araba. Ma la collaborazione in campo archeologico, in questo caso tra università italiane e israeliane, spazia anche sul fronte delle radici cristiane (vd. Archeologi a Gerusalemme: uno scavo di pace in tempo di guerra https://www.iodonna.it/attualita/costume-e-societa/2025/04/12/uno-scavo-di-pace-in-tempo-di-guerra/) presenti in Palestina, che proseguono senza soluzione di continuità addirittura anche dopo il 7 ottobre. Ciò conferma sul piano ideologico quell’alleanza costruita nel corso dell’ultimo secolo, sulla base di indubbie radici comuni giudaico-cristiane a tutto svantaggio, appunto, di un’altrettanto millenaria presenza araba, portata avanti congiuntamente fin dalla metà dell’ 800.

Come da anni tenta di spiegare, sotto il fuoco incrociato dell’accademia israeliana e del movimento sionista internazionale, lo storico ebreo israeliano Ilan Pappé, che individua storicamente tale alleanza proprio nel comune interesse sionista e protestante-anglicano all’emigrazione ebrea di varie nazionalità verso la terra di Palestina: il motto giustificatorio era appunto “un popolo senza terra per una terra senza popolo”.

 

“Pressenza”, 17.08.25