Il report di Francesca
Albanese
e le alleanze scientifico-accademiche
complici del genocidio a Gaza
Stefano Bertoldi
La lista di
connessioni illustrata nel report, “Dall’economia dell’occupazione all’economia
del genocidio” da Francesca Albanese, relatrice speciale ONU per i diritti
umani nei territori occupati da Israele, pubblicato con questo titolo per
PaperFIRST-Fatto Quotidiano, è a dir poco sconcertante. C’è un legame
strettissimo tra mondo imprenditoriale “occidentale” e dunque anche italiano,
mondo accademico e centri di ricerca o agenzie europee, come APRE che gestisce,
con sede in Italia, il programma europeo Horizon cui dal 2021 aderisce anche
Israele e le analoghe istituzioni ed enti israeliani: questo si trascina fin
dal ’48, nonostante le proteste crescenti a partire già dalle prime intifade e
prosegue tuttora nonostante un genocidio trasmesso in mondovisione.
Solo un anno prima
della tragedia si svolgeva in Italia l'”Israel and Italy Cooperation in Horizon
Framework Programme”, promosso dall’Ambasciata d’Israele in Italia,
l’Ambasciata d’Italia in Israele, l’Agenzia per la promozione della Ricerca
Europea, appunto l’APRE e l’Israel-Europe R&I Directorate (ISERD).Tra gli
ambiti che balzano agli occhi nell’ambito di questo accordo
scientifico-accademico uno è quello dell’agrifood, uno di quelli sui cui si è
basato il colonialismo di insediamento, con furti di terra e bestiame e
soprattutto con una gestione dissennata e padronale di un bene essenziale come
l’acqua. Anche il termine stesso “genocidio”, sul quale la senatrice Segre ha
di fatto riaffermato recentemente una sorta di “copyright” della comunità
ebraica internazionale, è stato evitato da buona parte del Parlamento italiano,
anche tra le forze di opposizione, a cominciare da un’esperta della materia
come Laura Boldrini, il cui cambiamento a 180 gradi, in termini lessicali, è
avvenuto solo dopo quasi due anni dal 7 ottobre, in un’intervista incalzante
durante la quale il termine veniva tirato in ballo ma condizionato ad una
futuribile decisione terminologica giurisprudenziale della Corte di giustizia
internazionale (https://www.radiondadurto.org/2025/05/13/palestina-solidarieta-senza-frontiere-delegazione-italiana-in-partenza-per-il-valico-di-rafah-e-la-striscia-di-gaza/).
Francesca Albanese, che invece non ha mai avuto dubbi sul termine genocidio sul
piano giuridico, ci racconta di una forma di dominio da parte di imprese
private, appoggiate dai rispettivi governi pubblici che in passato, in altre
situazioni geopolitiche fu definita come “capitalismo razziale coloniale” ma
che oggi ben si ritaglia anche al regime sionista. Nel caso di Israele,
l’autrice usa un termine ampio per indicare le imprese coinvolte in queste
connivenze complici del genocidio in corso: viene adottata la definizione di
“entità aziendali” ricomprendendo in esso “imprese commerciali multinazionali,
entità a scopo di lucro e senza scopo di lucro sia private che pubbliche o di
proprietà dello Stato, in cui la responsabilità aziendale si applica indipendentemente
dalle dimensioni, dal settore dal contesto operativo dalla proprietà e dalla
struttura dell’entità”.
Dato per assodato
che tutta la parte iniziale del rapporto può essere sintetizzato da
un’affermazione che non dovrebbe lasciarci dormire la notte, in quanto complici
indiretti – ovverosia che grazie a queste complicità “tutti ci guadagnano” – è
però altrettanto cruciale analizzare il settore universitario della ricerca e
accademico. In questo ambito, le nostre “entità aziendali” sono chiamate in
causa pesantemente per le sue strette connessioni con quello israeliano, il
quale, in modo ancora più stretto di quello nostro, è scandalosamente legato da
sempre all’apparato bellico-industriale. Un Paese impostosi per quasi 80 anni
con la violenza e con un sistema di apartheid che si è perfezionato lungo una
storia costellata di deportazioni di massa, repressione, incarcerazioni e
detenzioni amministrative di migliaia di palestinesi, non poteva non avere un
apparato educativo, accademico e scientifico assoldato da quello bellico.
Quest’ultimo, forte di una propaganda che parte dai libri di scuola, basata
sulla narrazione di una democrazia assediata fin dal suo nascere da dittature
sanguinarie arabe e la disumanizzazione della popolazione araba, ha trasformato
la società in una caserma fatta di riservisti e reclute impegnate per tre anni
nel servizio di leva obbligatorio e “refresh” annuali (vd. La Palestina nei
testi scolastici di Israele – Ideologia e propaganda nell’istruzione di Nurit
Peled-Elhanan).
Nella 59a sessione
del Consiglio per i diritti umani dell’ONU – tenutasi tra il 16 giugno e l’11
luglio 2025 – Francesca Albanese inserisce l’ambito accademico, “facilitatore”
del genocidio, accanto al sistema finanziario, dove non sfuggono nemmeno alcuni
enti caritatevoli di ispirazione cristiana come i Christian Friends of
israeli-communities o i Dutch Christians for Israel, impegnati a sostenere
progetti per le colonie illegali, alcuni dei quali di addestramento di coloni
estremisti.
In cima alla lista
figurano le scuole di legge israeliane e dipartimenti di archeologia e di studi
mediorientali. Il loro lavoro in molti casi è finalizzato a costruire
l’impalcatura ideologica giustificatoria del colonialismo di insediamento, che
a sua volta può appoggiare le proprie fondamenta su una presunta pre-esistenza
millenaria delle popolazioni di religione ebraica in quei territori,
minimizzando quella araba. Ma la collaborazione in campo archeologico, in
questo caso tra università italiane e israeliane, spazia anche sul fronte delle
radici cristiane (vd. Archeologi a Gerusalemme: uno scavo di pace in tempo di
guerra https://www.iodonna.it/attualita/costume-e-societa/2025/04/12/uno-scavo-di-pace-in-tempo-di-guerra/) presenti in Palestina, che proseguono senza
soluzione di continuità addirittura anche dopo il 7 ottobre. Ciò conferma sul
piano ideologico quell’alleanza costruita nel corso dell’ultimo secolo, sulla
base di indubbie radici comuni giudaico-cristiane a tutto svantaggio, appunto,
di un’altrettanto millenaria presenza araba, portata avanti congiuntamente fin
dalla metà dell’ 800.
Come da anni tenta
di spiegare, sotto il fuoco incrociato dell’accademia israeliana e del
movimento sionista internazionale, lo storico ebreo israeliano Ilan Pappé, che
individua storicamente tale alleanza proprio nel comune interesse sionista e
protestante-anglicano all’emigrazione ebrea di varie nazionalità verso la terra
di Palestina: il motto giustificatorio era appunto “un popolo senza terra per
una terra senza popolo”.
“Pressenza”, 17.08.25