L’
AFRICA DI TRUMP
Ho visto troppa
gente e operatori dell’informazione che
non senza un tratto di superficialità
professionale o di inadeguatez.za critica, ha sorriso grossolanamente
sulla proposta avanzata da Netanyahu di
candidare Donald Trump al Nobel per la
pace. La proposta è tutt'altro
che una boutade. Di capi di Stato
chini e impauriti, supini e accondiscendenti
verso Trump il
mondo è pieno:
i saggi del comitato svedese non potranno sottrarsi
a prendere in seria considerazione la
proposta. La notizia non ha avuto grande eco ma per
ben tre giorni dal 9 all'11 luglio,
cinque capi di Stato di altrettanti Paesi africani sono stati ricevuti dal presidente a
stelle e strisce e hanno sottoscritto
l'appello di Netanyahu.
A molti
di noi potrebbero non voler dire
niente i
nomi di Bassirou Diomaye Faye (Senegal), Brice Oligui Nguema (Gabon), Umaro
Sissoco Embaló (GuineaBissau),
Joseph Boakai
(Liberia) e Mohamed Ould Ghazouani (Mauritania)
ma sono i presidenti di
Paesi-chiave di molti nodi mondiali il
cui capo del filo risiede in quel
continente sconfinato
quanto sconosciuto che è l'Africa. Russia, Cina e Usa da anni adoperano
tutti gli stratagemmi geopolitici,
diplomatici, militari, legali e non, per
estendere la propria influenza su
quei Paesi e
per potersi accaparrare le notevoli
risorse. Da anni, ad esempio, cercano di influenzare
le campagne elettorali sostenendo con le belle o con
le cattive maniere candidati
di per sé impresentabili ma del
tutto disponibili e accondiscendenti
a ogni
tipo di corruzione per favorire gli
interessi economici
di questa o di quella multinazionale
o di commercianti senza scrupoli di terre rare. E
più o meno così è avvenuto
anche nel teatrino (il titolo lo
rubo al settimanale Internazionale) svolgendosi a favore di
telecamere nello Studio ovale. Senza mistero alcuno, l'incontro si iscriveva
all'interno del programma commerciale trumpiano denominato "Trade, not
aid" (Commercio, non aiuti). Si rafforzano le relazioni bilaterali per il
tramite di investimenti e accordi per accedere a risorse strategiche come
petrolio, gas, oro, uranio, manganese. Il Gabon ad esempio, è il primo produttore
al mondo di manganese, e il suo partner commerciale attuale è la Cina. Se Trump
riuscisse ad accaparrarselo, raggiungerebbe un doppio risultato: arricchisce
l'economia Usa e crea qualche difficoltà al concorrente. Altro che guerra! E
poi c'è il nodo immigrazione. Senegal e Mauritania sono tra le nazionalità di
molti immigrati che cercano di entrare nel paradiso Usa attraverso la frontiera
messicana. E, ancora, il presidente del Gabon si è detto molto favorevole ad
ospitare una base statuni- tense lungo la costa sul Golfo di Guinea tanto
strategico per la sicurezza energetica mondiale eppure infestato di pirati.
La Liberia potrebbe diventare la meta di molti immigrati espulsi fuori dai
confini Usa e la Guinea Bissau supplica Trump di riaprire l'ambasciata
statunitense chiusa dal 1998. Peraltro la trovata della minaccia dell'aumento
dei dazi sta funzionando molto bene e, ancora di più nei confronti dei Paesi
africani che vedono scadere l'Agoa - African Growt and Opportunity Act, in
vigore da 25 anni che consentiva vantaggi commerciali alle merci africane verso
gli Usa. Insomma forse non ha poi sbagliato Tafi Mhaka, opinionista di Al Jazeera:
"Il vertice è stato imbarazzante. L'Africa non è stata presentata come un continente
di Stati sovrani ma come una distesa di risorse, con leader compiacenti che,
per evitare dazi e tagli agli aiuti, si sono esibiti per le telecamere"
Tonio Dell’Olio, “Rocca” del 15 agosto 2025