La pace smarrita in un
mondo
governato
dalla "legge del più forte"
PAOLO NASO
(Politologo,
Centro Studi Confronti)
Angosciati dalla cronaca quotidiana
di bombardamenti, avanzate e occupazioni militari che hanno
raggiunto un'intensità e una frequenza
sconosciute a chi è nato e cresciuto dopo la Seconda guerra mondiale,
rischiamo di non cogliere una eccezionale novità
geopolitica che si fa ogni giorno più
concreta: la fine del multilateralismo e con esso di un ordine
internazionale garantito e governato dalle Nazioni Unite. Il
cambiamento è
drammatico.
Per quanto a volte illusorio e carico di contraddizioni,
il
mandato che la comunità internazionale intendeva affidare alle Nazioni Unite è ben espresso nella Carta delle
Nazioni Unite: «Salvare le future generazioni dal flagello
della
guerra, che per due volte nel corso di questa generazione ha
portato indicibili
afflizioni all'umanità, a riaffermare la fede nei diritti fondamentali dell'uomo,
nella dignità e nel valore della persona
umana,
nella eguaglianza dei diritti degli
uomini e delle donne e delle Nazioni grandi e piccole, a creare le condizioni
in cui la giustizia e il rispetto degli obblighi derivanti dai
trattati e dalle altri fonti del diritto internazionale possano
essere mantenuti». Parole impegnative e forse
anche poco realistiche che però non esprimevano soltanto un'utopia di pace ma anche un progetto
politico,
sia pure da costruire nel tempo e in un
percorso pieno di ostacoli.
L'invasione russa dell'Ucraina, l'intervento
militare israeliano nella Striscia di Gaza in reazione
all'attentato terroristico
di massa del 7 ottobre 2024 attuato da
Hamas, i bombardamenti israeliani sui centri nucleari iraniani
e l'azione di sostegno voluta da Trump sono esempi più che
eloquenti del fatto
che non c’è più alcun diritto internazionale e che gli Stati che
dispongono di adeguati mezzi militari regolano in autonomia i loro conti
geopolitici, ormai certi che non vi è autority sovranazionale che possa
fermarli, condizionarli o sanzionarli. "Caoslandia", per dirla nella
formula sintetica dei geopolitici di Limes, un mondo governato dalla
"legge del più forte" o dell’"avventuriero" che osa di più
e non teme gli effetti delle violazioni della sovranità altrui. Ed ecco servito
il sovranismo nazionalista del XXI secolo: una filosofia politica e una logica
militare indisponibili a cedere quote di sovranità agli organismi
internazionali, dotandoli di poteri e strumenti utili ad attuare politiche di
dissuasione, disarmo e mediazione dei conflitti.
Per chi credeva, se non nella kantiana "pace perpetua", almeno
nella fine dell'equilibrio del terrore è una cocente e drammatica sconfitta
politica e culturale. Ammetterlo sarebbe già un elemento di chiarezza e onestà
intellettuale ma, purtroppo, chi oggi scende in piazza per la pace preferisce
inveire contro Trump e Netanyahu e, sia pure con minore veemenza, lancia
qualche slogan contro Hamas e i teocrati di Teheran.
Scendere in piazza per la pace è giusto e necessario ed anche senza troppi
distinguo sulle formule, i promotori e gli slogan. Siamo sull'orlo di un
abisso e l'unità della protesta è un bene troppo prezioso per sacrificarlo sul
tavolo dei piccoli interessi partitici. Ma non basta. Trump, Netanyahu,
Khamenei, Hamas, Putin e via elencando sono i "più cattivi" di un mondo
che si è incattivito e ha incattivito anche i nostri sentimenti e il nostro
sentire comune. La cultura della forza che oggi si impone e si autolegittima
vince nel mondo perché prima ha vinto nei nostri Paesi e nelle nostre
coscienze, schiacciando i famosi "valori" enunciati nelle
Costituzioni nate dalle lotte antifasciste e dalla guerra di liberazione. Nel
caso italiano, il famoso articolo 11 che esprime con parole solenni il
ripudio della guerra come strumento di soluzione delle controversie
internazionali. È chiaro che quella formulazione esprime una visione e un
progetto ideale troppe volte tradito o ignorato. Né può essere bandita come la
bandiera di un "pacifismo integrale" che mai è appartenuto alla
cultura e al progetto politico di chi ha formulato e,
negli anni, interpretato l'articolo 11. Ma quella formulazione così
netta e granitica non può ridursi a una giaculatoria buona per il 25 aprile o
il 2 giugno. Deve stabilire una linea di confine non valicabile.
Oggi questo significa sottrarsi a un'alleanza soffocante con Trump e
rivendicare l'autonomia del posizionamento italiano e persino la legittimità di
un'azione positiva per la pace. Dovrebbe anche significare che l'Italia si può
sottrarre ai diktat americani, della Nato e dell'Ue che impongono
onerosi e controversi aumenti delle spese militari per avviare invece un
processo globale di riduzione degli armamenti. Tutto questo non è "senso
comune" e anzi ritornano come pensiero politico strategico banali citazioni
latine degli anni del liceo: si vis pacem para bellum. È quello che
l'umanità ha fatto per 2000 anni e abbiamo visto dove e con quali risultati. Se
vogliamo la pace dobbiamo costruire e imparare la pace e, se vogliamo dare
ascolto alla saggezza biblica, dobbiamo praticare la giustizia.
“Confronti”, luglio/agosto 2025