lunedì 18 agosto 2025

 

La pace smarrita in un mondo

governato dalla "legge del più forte"

 

PAOLO NASO

(Politologo, Centro Studi Confronti)

 

Angosciati dalla cronaca quotidiana di bombardamenti, avanzate e occupazioni militari che hanno raggiunto un'intensità e una frequenza sconosciute a chi è nato e cresciuto dopo la Seconda guerra mondiale, rischiamo di non cogliere una eccezionale novità geopolitica che si fa ogni giorno più concreta: la fine del multilateralismo e con esso di un ordine internazionale garantito e governato dalle Nazioni Unite. Il cambiamento è drammatico.

Per quanto a volte illusorio e carico di contraddizioni, il mandato che la comunità internazionale intendeva affidare alle Nazioni Unite è ben espresso nella Carta delle Nazioni Unite: «Salvare le future generazioni dal flagello della guerra, che per due volte nel corso di questa generazione ha portato indicibili afflizioni all'umanità, a riaffermare la fede nei diritti fondamentali dell'uomo, nella dignità e nel valore della persona umana, nella eguaglianza dei diritti degli uomini e delle donne e delle Nazioni grandi e piccole, a creare le condizioni in cui la giustizia e il rispetto degli obblighi derivanti dai trattati e dalle altri fonti del diritto internazionale possano essere mantenuti». Parole impegnative e forse anche poco realistiche che però non esprimevano soltanto un'utopia di pace ma anche un progetto politico, sia pure da costruire nel tempo e in un percorso pieno di ostacoli.

L'invasione russa dell'Ucraina, l'intervento militare israeliano nella Striscia di Gaza in reazione all'attentato terroristico di massa del 7 ottobre 2024 attuato da Hamas, i bombardamenti israeliani sui centri nucleari iraniani e l'azione di sostegno voluta da Trump sono esempi più che eloquenti del fatto che non c’è più alcun diritto internazionale e che gli Stati che dispongono di adeguati mezzi militari regolano in autonomia i loro conti geopolitici, ormai certi che non vi è autority sovranazionale che possa fermarli, condizionarli o sanzionarli. "Caoslandia", per dirla nella formula sintetica dei geopolitici di Limes, un mondo governato dalla "legge del più forte" o dell’"avventuriero" che osa di più e non teme gli effetti delle violazioni della sovranità altrui. Ed ecco servito il sovranismo nazionalista del XXI secolo: una filosofia politica e una logica militare indisponibili a cedere quote di sovranità agli organismi internazionali, dotandoli di poteri e strumenti utili ad attuare politiche di dissuasione, disarmo e mediazione dei conflitti.

Per chi credeva, se non nella kantiana "pace perpetua", almeno nella fine dell'equilibrio del terrore è una cocente e drammatica sconfitta politica e culturale. Ammetterlo sarebbe già un elemento di chiarezza e onestà intellettuale ma, purtroppo, chi oggi scende in piazza per la pace preferisce inveire contro Trump e Netanyahu e, sia pure con minore veemenza, lancia qualche slogan contro Hamas e i teocrati di Teheran.

Scendere in piazza per la pace è giusto e necessario ed anche senza troppi distinguo sulle formule, i promotori e gli slogan. Siamo sull'orlo di un abisso e l'unità della protesta è un bene troppo prezioso per sacrificarlo sul tavolo dei piccoli interessi partitici. Ma non basta. Trump, Netanyahu, Khamenei, Hamas, Putin e via elencando sono i "più cattivi" di un mondo che si è incattivito e ha incattivito anche i nostri sentimenti e il nostro sentire comune. La cultura della forza che oggi si impone e si autolegittima vince nel mondo perché prima ha vinto nei nostri Paesi e nelle nostre coscienze, schiacciando i famosi "valori" enunciati nelle Costituzioni nate dalle lotte antifasciste e dalla guerra di liberazione. Nel caso italiano, il famoso articolo 11 che esprime con parole solenni il ripudio della guerra come strumento di soluzione delle controversie internazionali. È chiaro che quella formulazione esprime una visione e un progetto ideale troppe volte tradito o ignorato. Né può essere bandita come la bandiera di un "pacifismo integrale" che mai è appartenuto alla cultura e al progetto politico di chi ha formulato e,

negli anni, interpretato l'articolo 11. Ma quella formulazione così netta e granitica non può ridursi a una giaculatoria buona per il 25 aprile o il 2 giugno. Deve stabilire una linea di confine non valicabile.

Oggi questo significa sottrarsi a un'alleanza soffocante con Trump e rivendicare l'autonomia del posizionamento italiano e persino la legittimità di un'azione positiva per la pace. Dovrebbe anche significare che l'Italia si può sottrarre ai diktat americani, della Nato e dell'Ue che impongono onerosi e controversi aumenti delle spese militari per avviare invece un processo globale di riduzione degli armamenti. Tutto questo non è "senso comune" e anzi ritornano come pensiero politico strategico banali citazioni latine degli anni del liceo: si vis pacem para bellum. È quello che l'umanità ha fatto per 2000 anni e abbiamo visto dove e con quali risultati. Se vogliamo la pace dobbiamo costruire e imparare la pace e, se vogliamo dare ascolto alla saggezza biblica, dobbiamo praticare la giustizia.

 

“Confronti”, luglio/agosto 2025