PER UNA
SOBRIETÀ FELICE
Esiste una fame insaziabile. Non sto, ovviamente, parlando degli esseri
umani che fino a questo 1990 muoiono di fame e che secondo i calcoli più
attendibili, sono ben 35.000 al giorno, 24 al minuto. Forse questi 15 milioni che ogni anno, in
media, muoiono di fame meritano qualcosa di più di un pensierino, in un
contesto in cui sta affiorando l'illusione che questi problemi siano
solo e sempre di altri tempi e di altri luoghi.
Qui, però, voglio alludere a quella fame che è appetito di tangenti,
avidità di possesso, ingordigia dell'accumulo e si manifesta spesso proprio in
coloro che, a ben vedere, dovrebbero dare evidenti segni di sazietà... È proprio il
caso di dire che l'appetito vien mangiando!
Le
stesse aree dell'appetito si estendono: si vuole sempre più denaro, piacere, sesso,
comodità, potere...
In una
serie decennale di documenti i vescovi canadesi arrivano ad alcune conclusioni: siamo alla fine
della fase relativamente benigna del capitalismo e stiamo entrando in un
periodo di nuova cultura dell'egoismo.
In
essa la preoccupazione di raggiungere il successo personale, mentre rende
invisibili
le vittime, diffonde il convincimento che non vive davvero
se
non chi vince, non corre davvero se non chi sorpassa. Va da
sè che questi atteggiamenti dei soggetti avvengono in sintonia con profonde
modificazioni delle strutture di una società.
La cultura della sobrietà
È certamente necessario
«inventare» strumenti adeguati ed efficaci per prevenire i guasti arrecati da
tanti individui che usano la loro posizione sociale e politica per scatenare la
loro fame di denaro e privilegi, ma forse non è meno urgente mettere in campo
una cultura ed una pratica della sobrietà. E qui entra in gioco la vita di
ciascuno di noi. Già Romano Guardini ci ricordava che un corretto rapporto con
le cose deve conoscere un andare verso di esse e la forte capacità di stare a
distanza. Sobrio etimologicamente significa «non ubriaco» cioè chi sa
apprezzare e usare il cibo (e tutte le cose) con misura, ricavandone piacere e
benessere. Mi sembra che la sobrietà non sia lo stile di vita più proposto e
diffuso in questo periodo. Uno stile di vita sobrio, a mio avviso, non può
nascere senza che esso si imponga razionalmente come fonte di benessere
personale e collettivo e senza che tutti noi crediamo nella educazione e
nella disciplina dei nostri desideri e dei nostri bisogni. Concordo
pienamente con Agnes Heller: «Dobbiamo escludere la soddisfazione di alcuni
bisogni, quelli puramente quantitativi e perciò riproducibili all'infinito...
Il bisogno di possesso, il bisogno di potere e il bisogno di ambizione: questi
tre bisogni non possono e non debbono mai essere soddisfatti completamente.
Infatti, se essi vengono soddisfatti, la grande maggioranza degli uomini non
potrà più soddisfare altri bisogni».
Molti studiosi, dopo Friedric
Cramer, parlano di «nuova ascesi», intendendo con essa non uno stile di vita
intessuto di digiuni o di regole monastiche castigate e dure, ma una crescita
della nostra libertà personale che ci renda capaci di ripensare e reimpostare
il nostro rapporto con l'ideologia del consumo. «L'ethos attuale della rinuncia
intende proprio questo, cioè che gli uomini si rendano disponibili a ripensare
le loro aspettative nei confronti della vita e il loro futuro in spirito di
solidarietà con tutta l'umanità» (A. Auer).
Le parole, forse, non riescono
ancora ad esprimere adeguatamente la profonda connessione che esiste tra
felicità, benessere e sobrietà.
Del resto l'ideologia del consumo
ad ogni costo si è talmente diffusa da imporsi come modello unico. Né si può
dire che abbia fatto un buon servizio alla sobrietà chi l'ha «predicata» come
fuga dal mondo, condanna di ogni progresso e rilancio di assurde astinenze.
L’immaginario dell'asceta triste e
macerato rende un cattivo servizio al delinearsi della figura dell'uomo sobrio
e felice. Il cristiano sa che su questa strada lo ha preceduto Gesù.
Uno strano sindacato
Sarebbe un grosso equivoco
tradurre la sobrietà in un progetto di austerità per coloro che già fanno
fatica a «sbarcare il lunario». Ma io mi ostino a credere che presto o tardi ci
sarà qualche bel tipo che, appartenendo alle corporazioni più forti della
nostra società, lancerà l'idea dell'autoriduzione dello stipendio. Mi ha molto
colpito il gesto di Enrico Peiretti, professore di filosofia in un liceo
torinese che, dichiarando di non aderire ad un eventuale blocco degli scrutini,
motivava il suo rifiuto verso una rivendicazione che rischiava di ridursi ad
una «questione soltanto monetaria». «Così facendo – aggiungeva - la nostra
categoria sta accodandosi al malcostume trionfante del particolarismo, del
«vale chi vince», del «ciascuno per sé...» (il foglio, giugno 1988). Si può
discutere sulla valutazione politica di Peiretti, ma emerge un messaggio: i
problemi della scuola sono ben aldilà di un aumento allo stipendio dei
professori e colleghi. Prima della quantità (di denaro) va posta la qualità
della riforma.
Non so se nascerà una qualche
forma organizzata di persone che, facendo proprio uno stile di sobrietà,
cominceranno a praticarla a partire dal proprio stipendio. Mi sembra però di
capire che la questione morale vada affrontata da più parti, non esclusa la
fantasia di chi traduce in solidarietà il proprio privilegio
don Franco Barbero
(da “La bestia che seduce”, ed. Comunecazione, 1980)