sabato 6 settembre 2025

Questo articolo ci è stato segnalato da Lorenzo Tommaselli.

Nella Chiesa non abbiamo bisogno di martiri dell’«ego», né di «professionisti» della sofferenza

María Noel Firpo

Voglio iniziare chiarendo che non sono una teologa, ma una psicologa e, soprattutto, una cristiana, seguace di una persona: Gesù. Oggi, leggendo un articolo che mette in guardia da una triste realtà nella chiesa indiana – dove un prete si suicida ogni sei mesi – leggo che sono vittime di un sistema che «spiritualizza la sofferenza invece di affrontarla» – e penso che questo problema non sia esclusivo dell’India.

Per secoli nella spiritualità cristiana si è radicata la potente convinzione che più soffriamo, più sacrifici facciamo e più ci umiliamo, più ci avviciniamo a Dio. Questa idea ha l’inconveniente di trasformarsi in un terreno fertile per vari tipi di abusi, e credo che sia stato così. Il pericolo è che la croce venga interpretata come una «scuola della resistenza», dove il dolore è quasi un merito in sé stesso.

Questa visione può essere legata a certi tipi di personalità come, per esempio, una personalità narcisistica che cerca nel sacrificio visibile un modo per nutrire la propria immagine e autoaffermazione, o una personalità masochista che nelle rinunce perpetua ferite non guarite e sensi di colpa interiori, ecc.
Pertanto questo modo di vedere e di vivere può essere un rifugio, anche patologico. Credo che sia urgente offrire la croce, non come un simbolo di dolore o di vuote rinunce, ma come un programma per la vita di relazione; direi, come il modello perfetto per le relazioni tra noi.

Viviamo in una società in cui i legami sono fragili, liquidi. L’impegno profondo è sottovalutato e c’è una cultura che dà priorità a noi stessi, con conseguenti modalità di connessione così che, se non ci «chiudono», applichiamo la «legge del gelo» o un «contatto zero» al primo conflitto o disagio che proviamo nelle nostre relazioni con gli altri. Parliamo di «persone tossiche» e optiamo per lo scarto facile. Ma la proposta della vera croce è un'altra: amare veramente. Questo significa superare me stesso, rimanere in silenzio quando voglio rispondere duramente; chiedere perdono quando l’orgoglio mi urla di non farlo; ascoltare attivamente senza pianificare la mia risposta, per superare l’altro; rimanere in un legame scomodo per amore della persona, ecc.

Gesù ha abbracciato la croce non per amore del dolore, ma per amore e fedeltà a noi e a Dio; e in questo ci ha insegnato un profondo impegno relazionale: la croce come segno di chi osa amare, permettendo a quest’amore di trasformare le proprie relazioni interpersonali e comunitarie. È espressione di un amore che dura, nonostante tutto. L’amore è un programma di vita esigente; attraversa disagi, opera per la riconciliazione e serve anche quando non riceve nulla in cambio. Tutto ciò che non promuove l’amore per l’altro dovrebbe essere scartato, e questa è la rinuncia difficile ma con un significato. Non so se oggi, come società, come chiesa ci stiamo muovendo lungo questo cammino.

Lo ha compreso bene Santa Teresa di Gesù: «Non si tratta di fare molto, ma di amare molto». La misura non sta in quanti sacrifici faccio, che possono essere confusi con questa «spiritualizzazione della sofferenza», ma in quanto supero me stesso nella relazione con il fratello, perché ho nel mio orizzonte il desiderio di amarlo di più e meglio. E questo è un processo graduale che avviene anche in una relazione.
Perciò formare, educare, soprattutto nelle comunità cristiane, non significa cercare «eroi del sacrificio», ma uomini e donne che possano donarsi senza schiacciare, accompagnare senza dominare, servire senza scomparire. Perché nella Chiesa non abbiamo bisogno di martiri dell’«ego», né di «professionisti» della sofferenza», ma di discepoli che sappiano superare se stessi e che, guardando a questo Mistero d’amore, possano trasformare il loro modo di amare e di relazionarsi, facendo dell’incontro con l’altro un’occasione per vivere l’amore che Gesù ci ha insegnato con la sua vita, morte e risurrezione.
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Articolo pubblicato il 16 agosto 2025 nel sito Religión Digital (www.religiondigital.org).
Traduzione a cura di Lorenzo Tommaselli