Questo articolo è stato segnalato da Sergio Serafini
Celibato e solitudine nella Chiesa
di Maria Giovanna Titone
Di recente, la notizia della morte tragica di un giovane sacerdote ha scosso profondamente l’opinione pubblica e il mondo ecclesiale. Una scelta estrema, che interroga senza offrire risposte semplici. In molti, quasi istintivamente, hanno puntato il dito contro il celibato, come se fosse la causa immediata e unica di una sofferenza tanto profonda. Ma la realtà è più complessa, e merita rispetto. Il suicidio – lo sappiamo – attraversa ogni condizione di vita: colpisce celibi e sposati, credenti e non credenti, persone in ogni fase dell’esistenza. Ridurre tutto a una sola variabile non rende giustizia al dolore vissuto, né a chi resta.
da Il giornale di Rodafà, Home n. 831 - 17 agosto 2025
Eppure, ignorare il contesto in cui tanti sacerdoti vivono sarebbe altrettanto irresponsabile. Il tema del celibato torna così, inevitabilmente, al centro del dibattito. Ma più che come “causa” di un malessere, è il simbolo di un sistema che fatica a interrogarsi, che confonde la disciplina con l’identità, la fedeltà con l’immobilismo.
Il celibato, nella Chiesa cattolica di rito latino, non è un dogma ma una regola. Una regola che ha radici storiche profonde, ma non inscalfibili. Nei primi secoli del cristianesimo, i preti potevano sposarsi: Pietro stesso, il primo Papa, aveva una suocera. Fu solo a partire dal Medioevo, e in particolare con i Concili Lateranensi del 1123 e del 1139, che il celibato fu imposto come condizione per l’ordinazione. Una scelta maturata non tanto per ragioni spirituali, quanto per esigenze di controllo: evitare che i beni ecclesiastici fossero trasmessi ai figli dei sacerdoti e rafforzare il potere gerarchico della Chiesa.
Ma c’è di più. La scelta celibataria si inserisce all’interno di un processo più ampio: la monacalizzazione del clero. A partire dal IX secolo, il modello del monaco – casto, separato, dedito alla preghiera – si impone anche sul presbitero, che perde progressivamente la sua dimensione pastorale per assumere un’identità quasi sacrale. La liturgia prende il posto della relazione, il ruolo prende il posto della persona.
Nel frattempo, altre Chiese in piena comunione con Roma – come quelle di rito greco o bizantino – permettono da secoli l’ordinazione di uomini sposati. Solo i vescovi devono essere celibi. Il matrimonio, in queste comunità, non è visto come ostacolo alla vocazione, ma come una possibile forma di santità. Due modelli, due tradizioni, due visioni del ministero.
Ma oggi, più che mai, non è solo la questione affettiva ad essere in crisi. È l’intero modello di leadership clericale a dover essere ripensato. Il prete non è più solo il celebrante dei sacramenti: è chiamato a essere amministratore, gestore, facilitatore, formatore, responsabile di patrimoni ecclesiastici, animatore di comunità. Un carico enorme, per il quale spesso non ha ricevuto alcuna formazione. E in molti contesti – soprattutto in parrocchie isolate o vaste – è solo. Il modello ancora dominante è quello del singolo uomo a capo, incaricato di reggere tutto, senza una reale corresponsabilità comunitaria. Un modello gerarchico e unidirezionale che oggi mostra tutti i suoi limiti.
A questo si aggiunge il retaggio del sistema beneficiale, mai del tutto superato, che per secoli ha sovrapposto il patrimonio ecclesiale a quello personale del chierico, generando ambiguità, diseguaglianze e un’idea proprietaria del ministero. Una mentalità che sopravvive in alcuni contesti, spesso alimentando tensioni e isolamenti ancora più marcati.
È tempo allora di proporre un altro modello: una leadership più circolare, dove il prete non è un uomo solo al comando, ma parte di una rete di corresponsabilità, dove donne e uomini laici, famiglie, religiosi e religiose condividano la cura della comunità. Una Chiesa dove guidare non significhi più reggere da soli, ma camminare insieme.
Non si tratta di “scaricare” tutto sul celibato. Si tratta di chiedersi se una disciplina pensata mille anni fa possa ancora essere universale, obbligatoria, imposta. Si tratta di domandarsi se la figura del prete debba davvero essere plasmata sull’ideale monastico o se non sia tempo di recuperare il volto del prete uomo, fragile, imperfetto, immerso nella vita dei suoi fedeli, non sopra di essi.
La Chiesa ha già concesso eccezioni: basti pensare ai pastori anglicani sposati accolti nel sacerdozio cattolico. Ma le eccezioni non bastano. Occorre ripensare il modello, non rattopparlo. Il calo delle vocazioni, la crisi delle parrocchie, la sofferenza silenziosa di tanti sacerdoti non possono essere ignorati.
Il celibato può restare – per chi lo sceglie liberamente – una forma di testimonianza. Ma finché resta un’imposizione, rischia di essere una maschera, o peggio: una gabbia. E ogni gabbia, prima o poi, porta con sé dolore.
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