sabato 25 ottobre 2025

Da Il Manifesto del 22/10/2025

La teoria del pazzo e il ruolo del riarmo

Di Francesco Strazzari


La «teoria del pazzo», attribuita a Richard Nixon, prevede che il nemico venga spaventato rendendo credibile l’idea che le proprie scelte strategiche di fondo non siano compiutamente razionali. «Non è bene dare di noi stessi un’immagine troppo razionale o imperturbabile è utile che alcuni elementi possano sembrare fuori controllo» – recita un noto documento strategico risalente ai tempi della guerra in Vietnam. Oggi assistiamo a una nuova, paradossale svolta nella dottrina: invece di alimentare l’incertezza del nemico circa la propria mossa successiva, la versione fluttuante di Trump alimenta l’incertezza della propria parte: i propri alleati europei o la stessa Ucraina, alla cui difesa gli Usa danno un contributo sostanziale, cercando sempre più di trarre beneficio scaricando il costo.

«Non ho mai detto che avrebbero vinto, ho detto che avrebbero potuto farlo. Tutto può succedere. Sapete bene che la guerra è una cosa molto strana» ha commentato Trump lunedì, parlando degli ucraini in una delle sue consuete esternazioni alla stampa. Da uomo d’affari che, come ama ripetere, ha dedicato l’intera vita all’arte del deal, Trump sa che l’imprevedibilità è un asset negoziale, se si opera in un ambiente nel quale sono state demolite norme e istituzioni. Del resto, arrogarsi un potere di giudizio così instabile da risultare arbitrario è indubbiamente un tratto coerente con il disegno autoritario perseguito dai Maga al potere, tanto sul piano internazionale quanto su quello domestico, dove neo-maccartismo e criminalizzazione dell’opposizione insidiano le elezioni di mid-term.

Toccherà presumibilmente agli storici trovare una spiegazione per la particolare deferenza che Trump riserva al Cremlino. Secondo il Financial Times, durante il recente, burrascoso incontro con Volodymyr Zelensky, tale deferenza si sarebbe spinta a definire «operazione speciale» l’offensiva di guerra russa, intimando agli ucraini di cedere terra o essere distrutti. Zelensky è uscito dalla Casa bianca senza i Tomahawk, i missili capaci di colpire in profondità l’apparato militare russo proiettato sull’Ucraina. Deep strikes che l’inviato speciale Kellogg, a fine settembre, aveva dichiarato legittimi. Lo stesso Trump, a fine agosto, aveva criticato Biden per non aver consentito agli ucraini di rispondere al fuoco, paragonandoli a una squadra che entra in campo senza poter giocare in attacco. Una dinamica in apparenza bipolare nel senso più schiettamente psichiatrico che politologico: tappeto rosso e incensazione da un lato, delusione e minaccia dall’altro.

Zelensky ha descritto l’incontro con Trump come un successo che ha portato l’Ucraina all’acquisto di 25 sistemi di difesa aerea Patriot dagli Usa. Ha poi aggiunto che questa settimana sarà impegnato in molti incontri e negoziati in Europa, incluso un Consiglio europeo in programma domani a Bruxelles (mentre è adesso molto in forse il rendez-vous preliminare fra Rubio e Lavrov a Budapest). Emergerebbe un ampio sostegno tra gli Stati membri dell’Ue per un nuovo prestito di 140 miliardi di euro a Kyiv, il cui finanziamento sarebbe possibile superando le resistenze sull’impiego dei beni congelati di Mosca. Mentre i paesi volonterosi preparano a fornire «forze di stabilizzazione» a guida franco-britannica, la nostra Leonardo, assieme a Thales e Airbus cerca la via per una nuova joint-venture satellitare europea che possa competere con Musk.

In sostanza, dopo essersi dichiarato pronto a giocare al tavolo con Zelensky l’asso dei Tomahawk, a fronte alla telefonata in extremis di Putin e al rischio di escalation, Trump avrebbe rimesso nella manica la carta offensiva, per offrire invece un’opzione difensiva (i Patriot) che permetterebbe agli ucraini di rintuzzare gli attacchi con droni e missili sempre più numerosi su città e infrastrutture. Il risultato atteso sarebbe di logorare il potere di fuoco russo, verosimilmente chiedendo agli europei di passare alla cassa a saldare il conto. I leader Ue non si sono fatti pregare, allineandosi a Trump nella richiesta di un accordo basato sul congelamento delle linee del fronte attuali. Un compromesso che Mosca non è propensa ad accettare.

Sul terreno, dopo 1.337 giorni di guerra, i fatti si ripetono e si assomigliano. La meta-analisi recentemente pubblicata dall’Economist mostra che, considerando le risorse impiegate, l’offensiva estiva di Mosca ha ottenuto risultati piuttosto magri: solo lo 0,4% del territorio ucraino è stato conquistato, senza che nemmeno far cadere Pokrovsk (anche se iniziano ad affiorare cadaveri di civili per le strade). D’altro canto, l’economia di guerra costruita da Mosca sarebbe al limite, mentre nel solo 2025 si conterebbero sul lato russo circa 100mila morti. Insomma, grazie anche al sostegno degli alleati e degli Usa, l’Ucraina – pur ferita – si mostrerebbe oggi meglio in grado di gestire la guerra d’attrito, mentre crescerebbero i dubbi circa la capacità della Russia di continuare a combattere al ritmo attuale.

Certamente i leader che si sono dati appuntamento a Budapest vedrebbero con favore il disgregarsi dell’Unione europea, grazie alla conquista del potere delle destre nazionaliste. Davanti a una Russia ritenuta non in grado di vincere in Ucraina, sembra più difficile sostenere che gli europei debbano armarsi fino ai denti, snaturando il patto sociale e la democrazia a base della loro unione, nel nome di una concezione della deterrenza che si fonda sulla versione aggiornata della «teoria del pazzo».