Il silenzio che pesa
Le dichiarazioni di papa Leone XIV, rilasciate davanti a Villa Barberini a
Castel Gandolfo, hanno suscitato sorpresa e interrogativi. Rispondendo a una
domanda sul tema del riarmo, il pontefice ha riconosciuto che si tratta di
«questioni politiche anche per pressioni da fuori d’Europa» sulle quali è «meglio
non commentare». Una risposta che, per la sua prudenza e sospensione di
giudizio, si distingue nettamente dalle prese di posizione più esplicite del
suo predecessore Francesco, che non aveva esitato a denunciare con forza la
logica della guerra e l’idolatria delle armi.
Da un punto di vista sociologico, le parole di Leone evidenziano la tensione
costante che attraversa il ministero petrino: da una parte il papa come capo di
Stato, inserito in una rete di relazioni internazionali, sottoposto a pressioni
geopolitiche e vincoli diplomatici; dall’altra il papa come successore di
Pietro, pastore universale chiamato a dare voce a chi non ha voce, a difendere
la pace e la dignità umana anche controcorrente.
Questa ambivalenza è fisiologica: la Chiesa, nella sua dimensione
istituzionale, si muove nel terreno della realpolitik; nella sua dimensione
profetica, però, non può rinunciare a proclamare la verità del Vangelo anche
quando essa è scomoda. Quando la prima prevale sulla seconda, il rischio è che
la comunità dei credenti e l’opinione pubblica percepiscano un deficit di
coraggio.
Il messaggio evangelico, e la tradizione sociale della Chiesa, hanno sempre
collocato la pace al centro della missione cristiana. Intendo ribadire che papa
Francesco, nel corso del suo ministero petrino, ha ripetuto più volte che «la
guerra è una follia» e che «non ci sono guerre giuste».
In questo orizzonte, il silenzio o l’ambiguità sul tema del riarmo non appaiono
come una scelta neutra, bensì come un passo indietro rispetto a una linea
consolidata. La Chiesa, infatti, perde di senso quando rinuncia alla sua
funzione critica nei confronti delle logiche di potere e si adagia in un
linguaggio accomodante.
Dal punto di vista sociologico, la percezione del pontificato di Leone dipenderà
anche dalla capacità di tenere insieme diplomazia e profezia. In una società
globale attraversata da conflitti, da spinte populiste e da logiche di
contrapposizione, la parola del papa è attesa come orientamento etico
universale. La sua autorevolezza morale non si misura sulla neutralità
diplomatica, ma sul coraggio di dire ciò che gli altri non osano dire.
Il popolo di Dio, in particolare i giovani e le comunità più vulnerabili, si
attendono dalla Chiesa non tanto un commento politico, quanto una parola
evangelica che illumini le coscienze. Se questa parola manca, il rischio è che
la Chiesa venga percepita come una istituzione tra le altre, senza più quella
ragione d’essere che le deriva dall’annuncio profetico del Vangelo.
Arturo Formola (da “Adista”, 24/09/2025)