da Il dono dello smarrimento
di don Franco Barbero - 2000
Sulle tracce di Abramo
“Il Signore disse ad Abram: "Vàttene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò. Farò di te un grande popolo e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e diventerai una benedizione. Benedirò coloro che ti benediranno e coloro che ti malediranno maledirò e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra".
Allora Abram partì, come gli aveva ordinato il Signore, e con lui partì Lot. Abram aveva settantacinque anni quando lasciò Carran. Abram dunque prese la moglie Sarai e Lot, figlio di suo fratello, e tutti i beni che avevano acquistati in Carran e tutte le persone che lì si erano procurate e si incamminarono verso il paese di Canaan. Arrivarono al paese di Canaan…” (Genesi 12,1-5)
Tre rotture
Su questa memorabile e scultorea pagina gli studiosi della Bibbia hanno scritto volumi e intere biblioteche. Altre, giustamente, saranno scritte.
Si tratta, infatti, di una pagina dalla quale “sprizzano mille scintille", mille significati. Ma io mi soffermerò brevemente soltanto su questo "vattene" così impegnativo, così netto, così radicale.
“Il discorso di Dio incomincia con la richiesta di una radicale rottura con tutti i legami naturali. Viene anzitutto ricordato il legame più generale, quello con il ‘paese’; poi, con una limitazione progressiva, viene il legame della “razza”, cioè della parentela più ampia, infine quello della famiglia” (G. Von Rad). Questi tre vocaboli fanno intendere che Dio, il soggetto di queste ingiunzioni, è consapevole della serietà e della gravità di questa richiesta. Abramo è sollecitato ad affidarsi completamente alla guida di Dio.
"Si deve sempre tener conto del fatto che abbandonare la patria e rompere i vincoli ancestrali per l'uomo antico rappresenta un'impresa quasi assurda" (G. Von Rad), una proposta assolutamente improponibile e impraticabile, quasi crudele.
Alcuni commentatori, sulla scorta di una deliziosa storia rabbinica, hanno aperto uno spiraglio per esplorare, tra romanzo e realtà, il cuore di Abramo, il suo travaglio interiore.
Il travaglio di Abramo
La storiella rabbinica inizia con questo breve dialogo perché già da tempo Terach era preoccupato: "Vero, Abramo, che tu credi ancora nei nostri dei?”. “Mi dispiace, padre, ma penso proprio di no”. Terach è uno scultore di statuette di divinità e Abramo, suo figlio, deve venderle al mercato. Ma Abramo è un pessimo venditore perché non crede più nel suo commercio.
La gente si accalca davanti alla sua bancarella, con la fame nel cuore. Abramo potrebbe diventare straricco se solo volesse speculare sul loro dolore e sulle loro aspettative. Invece proclama a gran voce che la sua merce è inutile. Strano venditore: allontana la gente dalla sua bancarella. “E' tutta robaccia", dice Abramo agli acquirenti. Anzi, si mette a distruggere le statuette con le proprie mani.
“Non sono affatto delle divinità… Le ha fabbricate mio padre… Io, invece, da un pò di tempo sto cercando quel Dio che ha fatto, ha creato mio padre”.
Questa storiella rabbinica vuole restituirci Abramo alla sua umanità, al suo itinerario spirituale, al suo progressivo prendere coscienza. C'è in essa una apprezzabile attenzione, una squisita sottolineatura dei nostri tratti umani.
“Espulso e cacciato”
Ma il tono “perentorio” nella pagina biblica dice piuttosto una violenta ed improvvisa intromissioni di Dio nella vita di Abramo: un dire che sembra piuttosto un ordine, un "vattene fuori", una “cacciata".
Forse Abramo, proprio come noi, non aveva tutta questa voglia di aprirsi al nuovo, agli orizzonti di Dio: egli era assai ben “inserito” e sistemato nella sua cultura, nelle sue comodità, nel suo ben conosciuto perimetro. Ci piace fin troppo stare con chi ha le nostre idee, il nostro censo, la nostra religione, la nostra cultura, la nostra identità sessuale, il nostro calendario…
Quel “vattene fuori”, ripetuto e precisato in riferimento al paese, alla patria, alla famiglia è certamente un pressante invito, ma soprattutto ha il sapore di una scrollata, di un ordine secco, di una cacciata, di una espulsione dal suo nido accogliente. Secondo alcuni autorevoli interpreti, Dio è stato “costretto” a sradicare Abramo, a “schiodarlo”, ha dovuto passare alle maniere forti.
Siamo talmente chiusi nelle nostre “terre”, nei nostri "territori" conosciuti che per smuoverci Dio deve passare ai toni alti, forti, perentori. I muri delle nostre torri, le finestre socchiuse delle nostre “case” esistenziali e culturali, il tepore dei nostri nidi a volte diventano delle autentiche prigioni.
Abramo, ci testimonia il libro della Genesi al capitolo 15, avrà bisogno di altri stimoli per continuare il cammino, ma qui mi premeva cogliere questa dimensione dell'amore sollecito di Dio per Abramo e per noi. A volte senza uno scossone, senza qualche “voce” audace e forte che Dio ci fa giungere attraverso le Scritture, i fatti della vita e le relazioni quotidiane, noi saremmo tentati di addormentarci nel già conosciuto e di vivere i nostri anni chiusi dentro la terra delle nostre abitudini.
Dio continua a dirci che il "paese delle benedizioni" sta oltre, che si diventa benedizione rompendo l'accerchiamento del proprio comodo e guardando “oltre”.
Aiutami, o Dio di Abramo, a vivere il pellegrinaggio della vita e della fede sapendo che Tu sei l'unica compagnia che non viene meno dentro tutte le inquietudini, le volubilità, le incertezze della mia e della nostra vita: Tu, pellegrino con noi, verso una terra nuova in cui abiti la giustizia.