sabato 8 novembre 2025

da Il Fatto Quotidiano del 02/11/2025

Il Vangelo della Domenica

Nessuno è perduto. Gesù lancia l’utopia dell’accoglienza universale

di Antonio Spadaro S.I.


Gesù parla alla folla: uno davanti a una moltitudine. Per parlare così è necessario fare uno show, trattenere l’attenzione. O, nel caso di Gesù, ci starebbe bene un miracolo: una moltiplicazione di pani e pesci, la resurrezione di un morto, un cieco guarito. E invece c’è solamente la sua parola sul desiderio umano più radicale: quello di non essere perduti. Non ci sentiamo persi, talvolta? Al fondo di ogni storia d’amore finita, di ogni guerra, di ogni addio, c’è la domanda: è tutto perduto? Gesù, nel racconto di Giovanni, risponde in modo categorico che esiste uno sguardo che non perde niente e nessuno. Non per bravura o forza, ma perché raccoglie nel tempo ciò che il tempo stesso sembra sbriciolare. È una promessa che non ha bisogno di dogmi, ma di ascolto profondo, di fiducia totale.

Tutto comincia con un’affermazione netta: “Tutto ciò che il Padre mi dà verrà a me; colui che viene a me, io non lo caccerò fuori”. C’è un senso di irrevocabilità in queste parole, una promessa che sa di accoglienza assoluta, che brucia di ospitalità senza condizioni. È la certezza del “non essere cacciati fuori” a colpire più di ogni altra la nostra sensibilità, perché è una nostra paura ancestrale, questa: l’essere esclusi, abbandonati, respinti. È l’archetipo dell’essere lasciati ai margini, della voce che bussa e non trova risposta. Quanti vivono in questa soglia? L’“uomo che dorme” di Georges Perec si dissolve lentamente nelle pieghe della sua stanza, per non dover più affrontare l’esterno. Gregor Samsa di Kafka vive la sua metamorfosi in insetto, escluso dalla vita domestica proprio perché non più riconoscibile. Nella scrittura di Giovanni, al contrario, la figura che parla – Gesù, certo, ma sembra di sentire in lui anche una voce narrante più profonda – garantisce che non esiste disumanità, trasformazione o abisso che possa giustificare l’espulsione finale. Chi viene non sarà respinto. È l’utopia dell’accoglienza universale. È la poesia dell’appartenenza che nulla ha a che fare col merito.

Le parole di Gesù, poche e dense, poi alzano ulteriormente la posta: “Sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato”. Appare una vertigine: il movimento non è solo orizzontale, ma verticale. “Disceso” implica un abbassamento, un movimento contrario alla logica del potere. Ma questa discesa non è tragica, come nelle cadute dell’eroe delle tragedie greche. È volontaria, ed è come fosse orientata verso l’altro, quasi come in certe tele di Marc Chagall dove le figure fluttuano lievi, al contrario della gravità.

E qual è la volontà del “Padre”, di questa figura che è “origine”, “fonte” di tutto? Che niente, nulla, nessuno vada perduto. Che ciò che è dato venga custodito e, alla fine, risollevato. “E questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma che lo risusciti nell’ultimo giorno”.

Giovanni, qui, scrive come un poeta metafisico: bisogna seguire il suo ritmo lasciandosi andare alle immagini. Non ci offre spiegazioni, ma vertigini. Ma il senso è semplice: nulla andrà perduto. Eppure, questa semplicità è una delle più difficili da credere, soprattutto in un’epoca come la nostra, che ha imparato a convivere con l’idea che ogni cosa sia destinata a disfarsi. Sembra che la vita ci sfugga di mano, giorno dopo giorno, e per questo la inseguiamo dimenticandoci perfino che la stiamo vivendo. Se solo sapessimo che nulla andrà perduto della bellezza della vita, e dell’esperienza contraddittoria e complicata che ne facciamo, potremmo trovare forse – finalmente – pace.