da Il Manifesto del 25/11/2025
La grande emigrazione da Israele
di Chiara Cruciati
Sono ovunque. Alle stazioni degli autobus e dei treni, appiccicati sui lampioni, sulle vetrine dei negozi e sui distributori automatici. Ricoprono anche le antichissime porte di ingresso alla Città Vecchia di Gerusalemme. Un mare di adesivi di ogni forma e misura: sono le foto di soldati israeliani morti nei vari fronti di guerra aperti da Israele negli ultimi due anni.
Qualcuno sorride, qualcuno imbraccia il fucile, quasi tutti sono ritratti con l’uniforme. Ogni adesivo è corredato da un messaggio, più o meno stringato. Il più comune recita: «Possa dio vendicare il suo sangue». Altri optano per versi della Torah, alcuni per l’incitamento all’unità di appartenenza del militare. C’è anche chi traveste la morte con l’ironia: «Non voglio un adesivo».
UN FENOMENO sorto spontaneamente che ha via via oscurato i poster con i volti degli ostaggi a Gaza e l’appello «Bring them home». Se l’iniziativa resta privata (gli adesivi sono autoprodotti da famiglie e amici), la differenza salta agli occhi: oltre l’espressione collettiva di lutto, c’è la spinta militarista che caratterizza la società israeliana e c’è, soprattutto, l’invito a proseguire. A non chiudere i fronti bellici spalancati nella regione, la guerra permanente che nel caso di Gaza si è fatta genocidio. «Non dobbiamo fermarci», recita uno degli slogan più comuni degli adesivi.
Sono sticker, eppure sono simbolo di un impulso sempre più acceso e radicale, lo stesso palesato dai proclami pubblici e le politiche del governo di ultradestra. E da cui una parte della società israeliana, silenziosamente, si sta allontanando. Letteralmente, fisicamente. «Negli ultimi mesi ho perso almeno quindici amici, sia israeliani che palestinesi, tutti attivisti. Se ne sono andati, sono emigrati all’estero – ci dice D., membro di un’ong per i diritti umani israeliana – Molti di loro hanno figli, non intendono crescerli qui, in questo tipo di società. Vanno via anche sostenitori del governo, in realtà: vivere in una zona di guerra permanente li spaventa».
A. È UN’ATTIVISTA di lungo corso, impegnata da anni al fianco dei palestinesi. Dichiarata antisionista, da mesi tenta di vendere la sua casa per potersi trasferire all’estero. Non ha ancora trovato acquirenti. Una sua amica, S., ci rimugina da mesi: non vede l’uscita dal tunnel, «temo sarà sempre peggio, che da razzismo e autoritarismo non si possa tornare indietro. Un unico pensiero mi frena: se noi ce ne andiamo, resteranno solo coloni, nazionalisti e religiosi».
Il fenomeno dell’emigrazione ebraica israeliana sta crescendo tanto da spaventare lo stesso governo. Gli ultimi dati li ha forniti la Commissione per l’immigrazione della Knesset il 20 ottobre scorso: se già nel 2022 avevano lasciato il paese 59.400 israeliani (+44% rispetto all’anno precedente), nel 2023 il numero è schizzato a 82.800 per mantenersi stabile nel 2024. Nello stesso periodo è calato drasticamente il numero di israeliani di ritorno: 24.200 nel 2023, 12.100 tra gennaio e agosto 2024. La percentuale di rientri è appena il 29% delle partenze, aggiunge la Commissione, per un totale di 130mila israeliani ebrei in meno da inizio 2022 a metà 2024, su sette milioni totali (comprensivi dei 700mila coloni illegali tra Gerusalemme est e Cisgiordania).
IL PRESIDENTE della Commissione, il deputato laburista Kariv, l’ha definita «non un’ondata, ma uno tsunami…oggi un milione di israeliani vive in paesi stranieri». Le ragioni, in sede di Commissione, non sono state affrontate, per lo meno non ufficialmente. E i numeri, secondo vari osservatori, sarebbero sottostimati: difficile tenerne traccia in tempi così stretti, ma fonti stampa – tra cui il quotidiano The Times of Israel citando nel 2024 la Population Authority – hanno parlato addirittura di mezzo milione di espatri. Certa è la tendenza, da tempo gli emigranti superano le nuove cittadinanze.
Chi la materia la studia da anni è Yinon Cohen, sociologo alla Columbia University. In una ricerca pubblicata a giugno a quattro mani con Kaiting Zhou, spiega che «l’aumento dell’emigrazione iniziato prima di ottobre 2023 potrebbe essere collegato alla riforma giudiziaria avviata a gennaio 2023. L’impatto a breve termine dell’attacco del 7 ottobre sull’emigrazione israeliana è ancora più pronunciato». Se il numero di israeliani che ha lasciato il paese nel 2024 è doppio rispetto al 2022, Cohen traccia un parallelo con la Seconda Intifada, altro periodo di fuga consistente: all’epoca i tassi di emigrazione che raggiunsero l’apice nel 2001 si erano dimezzati nell’arco di cinque anni.
STAVOLTA però potrebbe essere diverso, scrivono Cohen e Zhou: «I recenti sviluppi in Israele non contribuiscono a ridurre l’emigrazione… Il consenso sulla guerra ha già iniziato a erodersi e, alla fine del 2024, il livello di solidarietà tra gli ebrei è diminuito drasticamente rispetto a dicembre 2023… Ci sono poche ragioni per aspettarsi che possa mitigare l’emigrazione, come è accaduto in passato… Infine, la riforma giudiziaria sembra riprendere slancio, sollevando ulteriori dubbi sul futuro dell’Israele democratico tra gli israeliani laici e progressisti, che tendono ad avere un livello di istruzione elevato e rappresentano il gruppo più a rischio di emigrazione».
TRA DI LORO c’è C., professore emigrato in Europa dopo svariati tentativi di trovare un impiego nell’accademia israeliana. Nessun colloquio è andato a buon fine: «Non mi hanno mai detto esplicitamente la ragione del rifiuto, ma dopo l’inizio della guerra un rettore mi ha parlato dei miei post sui social media e che se volevo avere un futuro qui era meglio rimanere in silenzio e non esprimere le mie opinioni. La mia famiglia e la mia compagna vivono in Israele, sarei voluto restare, ma non è un luogo dove persone estranee al consenso genocidario possano avere una carriera. Insomma, non ti mettono in prigione ma ti impediscono di guadagnarti da vivere».
A pesare, dice C., non è solo il governo. Lo fa anche «la cosiddetta opposizione che non agisce per niente come un’opposizione né a Gaza né a difesa della libertà di espressione» e il silenzio complice dell’accademia. Non è l’unico ad averla lasciata: «Posso parlare per le persone intorno a me, una sottocategoria molto limitata della società israeliana. Ci sono motivazioni politiche per andarsene ma anche per restare e combattere. Ho amici palestinesi delusi perché si sentono abbandonati in una società fascista. Altre persone all’estero pensano invece che la cosa migliore che un israeliano di sinistra possa fare sia lasciare il paese. Non concordo: non credo che il mio contribuito alla lotta palestinese sia un israeliano in meno».
«Penso però che se non posso lavorare, non posso esprimermi senza essere brutalizzato, se vivo nella costante e malata venerazione della morte con adesivi di soldati ovunque… è orribile. Vogliamo dire che è una motivazione politica? È più complicato di così».
Accanto alla prospettiva della guerra permanente e all’assenza di una risoluzione dell’occupazione militare, pesa soprattutto la deriva verso la peggiore destra, resa plastica dai sondaggi che svelano maggioranze bulgare a favore dell’espulsione dei palestinesi, dalle violenze brutali dei coloni e dai dati sull’immigrazione: in Israele tendono a trasferirsi soprattutto ebrei religiosi e nazionalisti, per lo più da Francia e Stati uniti.
NON È UN CASO che a emigrare siano soprattutto persone con figli: non vogliono crescerli in Israele, chi perché la ritiene una società sempre più estremista, chi perché vede l’economia indebolirsi, chi perché non intende trasmettergli una normalità di guerra, di corse nei bunker sotto le scale: «Alla fine il luogo più pericoloso nel mondo per un ebreo è Israele – conclude C. – E lì invece pensano di rischiare a Londra o a Berlino perché leggono un libro in ebraico o parlano in ebraico. È ridicolo. È vero, a volte mi sento a disagio, mi vergogno di dire che sono israeliano. Ma penso sia giusto che io provi vergogna».