Vivere la morte come conclusione di una vita che si è detta tutta…
Il vivere in questo modo è vera sapienza di vita; quella sapienza che, nella tradizione monastica, ha saputo guardare alla giornata dell’uomo come alla parabola della vita in miniatura. Cosa significa? Significa che ogni giorno è come se l'uomo tornasse a nascere alle cose, al dono del mondo e alla responsabilità nei confronti del mondo… sì quello che più conta e che ci permette nella fede di presentarci davanti a Dio con coraggio e franchezza… è l’accento ultimo che ha scavato addirittura sotto l'altro: l’altro era l'ultima parola dalla nostra vita; questo è diventato il ‘plus ultimo’, la dimensione che ha posto in secondo piano la stessa nostra non-verità.
Se ciò è vero, vuol dire allora che non dobbiamo caricare la morte di troppa emoltività, accentuando gli ultimi momenti come se in essi fosse in gioco tutta la nostra vita. Tale accentuazione mi sembra di dubbio gusto.
Mi sembra importante, a questo punto, chiederci se forse non sia il caso di riconsiderare come seria anche per noi oggi quella prospettiva di morte che troviamo nella concezione organica e nei patriarchi biblici. Essa non guarda alla morte come a un fatto che tronca la vita e quindi come a una violenza nei confronti del vivere, ma come a un evento che segna l’arrivare a compimento di un’esistenza. Per vivere positivamente la morte è necessario sapere che sul fondo della realtà c'è un senso delle cose in cui é custodita anche la morte. Altre civiltà hanno visto questo senso, leggendolo dentro il grembo della Madre Terra dove il cadavere ritorna e in qualche modo é conservato: invece della Madre Terra, il cristiano crede nel Padre di Gesù Cristo che è anche Padre suo: “Di che cosa vi preoccupate? Guardate gli uccelli dell’aria...”
La morte accettala così, come conclusione di una vita che si è detta ed espressa tutta, è un evento che chiude positivamente la finitezza dell’uomo, è un riconciliarsi con la propria finitezza.
Che cosa vuol dire questo più concretamente?
Vuol dire prima di tutto credere nel senso delle cose che noi facciamo anche se esse sono destinate a finire. Il finito ha un senso, non preoccuparti di trattenerlo e neanche di buttarlo via come cosa che non vale! Hai un incontro molto bello? Ebbene, vivilo nella misura finita in cui ti è dato; ciò che muore, lascialo morire, un po’ come la nota di una melodia: se non muore, non può venire l’altra, e la melodia é bloccata.
Se sappiamo comportarci in questo modo, facciamo nostro tutto uno stile diverso di vita e un diverso modo di guardare alla realtà: la sappiamo accettare in senso positivo... Non diciamo: «Tanto finisce e dunque non vale la pena!», ma: «La realtà che sto vivendo è ricca di senso perché mi è consegnata da Dio come un compito da svolgere e come un dono da godere. Perciò sono chiamato a viverla nelle mani di Dio.
Da Lui viene e a Lui torna, da Amore ad Amore questo è il nostro cammino.
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Alcuni tratti sono presi da Armido Rizzi, “L’Uomo di fronte alla morte”, PAZZINI Editore.