Apprendo che il vescovo di Locri, notoriamente avversario della mafia, è stato rimosso dal Vaticano, che ancora una volta si dimostra alleato di tutte le mafie.
Monsignor Bergantini, vescovo da 13 anni, comprometteva le solide amicizie tra vaticano e mafia. Il vaticano è troppo legato agli interessi mafiosi e quindi non poteva tollerare le sue posizioni.
Riferirò più ampiamente, ma è evidente che tutta la retorica vaticana contro la mafia è una solenne impostura. Si tratta di due mafie diverse, ma due mafie sono.
E' sperabile che qualcuno apra gli occhi.
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Monsignor Bergantini, vescovo da 13 anni, comprometteva le solide amicizie tra vaticano e mafia. Il vaticano è troppo legato agli interessi mafiosi e quindi non poteva tollerare le sue posizioni.
Riferirò più ampiamente, ma è evidente che tutta la retorica vaticana contro la mafia è una solenne impostura. Si tratta di due mafie diverse, ma due mafie sono.
E' sperabile che qualcuno apra gli occhi.
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da: www.corriere.it
Il vescovo anti-clan: «Lascio con dolore»
Mons. Bregantini saluta la «sua» diocesi di Locri: «Per obbiedienza sono venuto, per obbedienza parto»
Il paragone con Garibaldi potrebbe forse apparire un po' azzardato. Ma le stesse parole di mons. Giancarlo Maria Bregantini, per 13 anni vescovo di Locri, da poco promosso ad arcivescovo e destinato alla diocesi di Campobasso,lasciano intendere che la partenza dalla terra di frontiera dove ha sempre combattuto, con le parole della fede, l'egemonia criminale della 'ndrangheta, non sia stata vista come il raggiungimento di un nuovo ed importante traguardo nella propria missione pastorale. «Per obbedienza sono venuto e per obbedienza parto» ha detto oggi il prete-coraggio in un'intervista a Radio Vaticana.
«SOFFERENZA NEL CUORE» - Bregantini ha spigato di voler rispondere alla decisione del Papa «con questa disponibilità e, anche se con tanta sofferenza nel cuore, saluto la mia diocesi e mi avvio all'altra». Di fronte al dolore manifestato dalla gente di Locri per la sua partenza Bregantini dice che «è un reciproco dispiacere, perchè obbedire non è mai facile e sempre eroico».
«UNA VOCE SOLA» - «Voglio però cercare di rasserenare gli animi - aggiunge -, che molto di quello che ho insegnato loro è stato maturato insieme, con i giovani e con i collaboratori, cresciuti ormai fisicamente e spiritualmente. E, quindi, molte volte la mia voce era la loro voce, che io ho soltanto raccolto. Loro restano qui, ma hanno imparato un metodo, lo vivranno comunque e sempre intensamente e saranno quindi capaci, ne sono certo, di viverlo nella fede di Dio e con colui che verrà a sostituirmi».
LA NUOVA DIOCESI - Mons. Bregantini sa anche «di essere accolto a Campobasso con grande gioia, questo - spiega - me lo hanno assicurato i vescovi e gli amici, anche se io non conosco questa terra ed è, quindi, per me molto arduo affrontarla».
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Sono in tanti, in Calabria, a brindare alla «promozione » di Giancarlo Bregantini, tolto alla «sua» Locri per essere destinato come arcivescovo metropolita alla diocesi più importante di Campobasso. Tanti. E levano in alto i calici: «Buon viaggio!» Lui no, però. E intorno a lui cresce l'angoscia di quanti, improvvisamente, si sentono orfani di chi per anni è stato il massimo punto di riferimento morale nella resistenza dei calabresi per bene contro la 'ndrangheta. Ma certo, è probabile che lassù, le gerarchie ecclesiastiche abbiano scelto pensando che fosse arrivato il momento, dopo quasi tre lustri, di premiare quella quotidiana, coraggiosa, incessante opera di battagliero apostolato del monaco stimmatino.
Come è probabile abbiano immaginato che il promosso, all'idea di diventare con ogni probabilità, per una questione di alternanza tra le regioni, presidente della conferenza dei vescovi dell'Abruzzo e del Molise, avrebbe accettato con gratitudine. Ed è infine ovvio che lo stesso Bregantini, al di là del dolore all'idea di lasciare il suo tormentato gregge, possa obbedire con sollievo all'ordine di andare a fare il suo mestiere di prete in una terra meno difficile, meno pericolosa, meno lacerante della Locride, dove si è spesso battuto in solitudine come un paladino nella terra degli infedeli.
COLPO DURISSIMO - Però... Però il colpo, per la Calabria, è durissimo. Basti leggere, al di là delle parole forse un po' scontate e rituali di alcuni politici che certo non avrebbero potuto dire il contrario, la presa di posizione di tre intellettuali di spicco come l'economista Domenico Cersosimo, il sociologo Piero Fantozzi e l'antropologo Vito Teti. Che parlano d'«una notizia agghiacciante», denunciano un «provvedimento irresponsabile », contestano la «rimozione» di «un vescovo nella frontiera della Calabria più estrema, malata, degradata » che era diventato il «simbolo nobile della Calabria contemporanea civile, propositiva, fattiva. Un emblema dei brandelli residui di fiducia collettiva. Un'icona dei calabresi che lavorano quotidianamente per il cambiamento, per la risalita, per una società più equa, umana, inclusiva». Frasi che racchiudono lo sgomento collettivo di una comunità ammaccata.
Diranno che la Chiesa è una cosa assai più importante del destino di un singolo prete, per quanto carismatico. Che nella regione ci sono altri quattordici vescovi impegnati nella loro missione pastorale. Che qua e là, anche nelle zone più complicate, ci sono sacerdoti (ad esempio il parroco di Polistena, don Pino Demasi, legato a Libera, il cartello di associazioni che fa capo a don Luigi Ciotti, promotore della «Giornata della memoria e dell'impegno in ricordo delle vittime delle mafie») che non arretrano di un millimetro davanti alle prepotenze delle cosche. Tutto vero. Quanto è vero che, come Bertold Brecht fa dire a Galileo Galilei, è «felice il paese che non ha bisogno di eroi».
NON UN VESCOVO COME GLI ALTRI - Però... Però monsignor Bregantini, per quella che oggi è una delle terre più violente, povere e disperate d'Italia, non è stato un vescovo come altri, magari solo un po' meno afono di certi colleghi assai prudenti perfino nel pronunciare la parola «'ndrangheta». In queste terre dove una volta capitava addirittura che qualche sacerdote avesse in dono dai parrocchiani una pistola, fosse presentato all'insediamento da un padrino legato alla mafia o facesse figli su figli con la perpetua, questo monaco trentino sceso dalla valle dei Mocheni per fare l'operaio prima a Marghera e Verona e poi a Crotone, ha marcato fin dall'inizio la sua presenza a Locri come una svolta.
Intendiamoci: il suo stesso predecessore nella diocesi della Locride, Antonio Ciliberti, era stato netto nella sua opposizione alle cosche. L'innesto del vescovo trentino, salutato con una falsa bomba di «benvenuto », fu tuttavia clamoroso fin dall'inizio. Per prima cosa fece diffondere in tutte le parrocchie i nomi di tutte le 263 persone che erano state ammazzate negli ultimi dieci anni.
LA SFIDA DELLE PREGHIERE - Poi distribuì un durissimo libro di preghiere di «sfida alla mafia». Poi prese a battere a tappeto tutti paesi e le contrade martellando (soprattutto in luoghi come Motticella: poche centinaia di abitanti e una cinquantina di morti per una faida) contro «l'idea aberrante di un destino ineluttabile per cui in Calabria tutto è sempre stato e tutto sempre sarà così».
Quindi, appoggiandosi anche a collaboratori entusiasti quali Piero Schirripa, un medico «profugo del marxismo» che in questi giorni è il più addolorato per l'addio, cercò di spiegare alla gente di Platì, il paese incattivito da troppi tradimenti dello Stato fin dalla feroce conquista dei bersaglieri, il paese dei 68 sequestri in cui la mamma di Cesare Casella si era incatenata in piazza chiedendo la liberazione del figlio rapito, il paese in cui il nuovo parroco don Alessandro Di Tullio aveva trovato «registri parrocchiali dove non venivano annotati i morti da cinque anni e i battesimi da sette», che c'erano alternative ai posti di lavoro offerti dai boss.
E aiutò i giovani del posto a fondare la Cooperativa Valle del Buonamico che nel giro di pochi anni, vincendo pure l'ottusità idiota di uffici pubblici capaci di chiedere 24 passaggi burocratici e intralciare la concessione al vescovo del certificato antimafia, fece capire per la prima volta alla gente che si poteva vivere, dignitosamente, anche coltivando fragole, mirtilli e lamponi. Non c'è stato giorno, per anni, in cui monsignor Bregantini non abbia picchiato duro sulla mafia e la cultura mafiosa. Fino a suggerire «se necessario la militarizzazione della zona» perché «chi fa il male deve essere umiliato nel suo falso "onore" perché ritrovi la forza di cambiare». Ad attaccare frontalmente la politica «incapace di dare risposte adeguate ai problemi della gente».
A proibire ai parroci di accettare come padrini ai battesimi uomini vicini alla malavita. A chiedere dopo la strage di Duisburg che il governo stesso elaborasse coi sindaci «una serie di provvedimenti straordinari». Una guerra frontale. Totale. Assoluta. Dichiarata giorno dopo giorno con una voce che pareva ancora più tonante tra i silenzi, le afonie, i sussurri di tanti altri vescovi, parroci, cappellani. Per questo anche la Chiesa oggi, e non solo lo Stato, ha una responsabilità grande. Perché, dopo l'addio di un uomo come Giancarlo Bregantini, i calabresi onesti e pieni di fede rischiano di sentirsi ancora una volta abbandonati dopo troppi abbandoni. E questo sarebbe davvero un delitto.
Il vescovo anti-clan: «Lascio con dolore»
Mons. Bregantini saluta la «sua» diocesi di Locri: «Per obbiedienza sono venuto, per obbedienza parto»
Il paragone con Garibaldi potrebbe forse apparire un po' azzardato. Ma le stesse parole di mons. Giancarlo Maria Bregantini, per 13 anni vescovo di Locri, da poco promosso ad arcivescovo e destinato alla diocesi di Campobasso,lasciano intendere che la partenza dalla terra di frontiera dove ha sempre combattuto, con le parole della fede, l'egemonia criminale della 'ndrangheta, non sia stata vista come il raggiungimento di un nuovo ed importante traguardo nella propria missione pastorale. «Per obbedienza sono venuto e per obbedienza parto» ha detto oggi il prete-coraggio in un'intervista a Radio Vaticana.
«SOFFERENZA NEL CUORE» - Bregantini ha spigato di voler rispondere alla decisione del Papa «con questa disponibilità e, anche se con tanta sofferenza nel cuore, saluto la mia diocesi e mi avvio all'altra». Di fronte al dolore manifestato dalla gente di Locri per la sua partenza Bregantini dice che «è un reciproco dispiacere, perchè obbedire non è mai facile e sempre eroico».
«UNA VOCE SOLA» - «Voglio però cercare di rasserenare gli animi - aggiunge -, che molto di quello che ho insegnato loro è stato maturato insieme, con i giovani e con i collaboratori, cresciuti ormai fisicamente e spiritualmente. E, quindi, molte volte la mia voce era la loro voce, che io ho soltanto raccolto. Loro restano qui, ma hanno imparato un metodo, lo vivranno comunque e sempre intensamente e saranno quindi capaci, ne sono certo, di viverlo nella fede di Dio e con colui che verrà a sostituirmi».
LA NUOVA DIOCESI - Mons. Bregantini sa anche «di essere accolto a Campobasso con grande gioia, questo - spiega - me lo hanno assicurato i vescovi e gli amici, anche se io non conosco questa terra ed è, quindi, per me molto arduo affrontarla».
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Sono in tanti, in Calabria, a brindare alla «promozione » di Giancarlo Bregantini, tolto alla «sua» Locri per essere destinato come arcivescovo metropolita alla diocesi più importante di Campobasso. Tanti. E levano in alto i calici: «Buon viaggio!» Lui no, però. E intorno a lui cresce l'angoscia di quanti, improvvisamente, si sentono orfani di chi per anni è stato il massimo punto di riferimento morale nella resistenza dei calabresi per bene contro la 'ndrangheta. Ma certo, è probabile che lassù, le gerarchie ecclesiastiche abbiano scelto pensando che fosse arrivato il momento, dopo quasi tre lustri, di premiare quella quotidiana, coraggiosa, incessante opera di battagliero apostolato del monaco stimmatino.
Come è probabile abbiano immaginato che il promosso, all'idea di diventare con ogni probabilità, per una questione di alternanza tra le regioni, presidente della conferenza dei vescovi dell'Abruzzo e del Molise, avrebbe accettato con gratitudine. Ed è infine ovvio che lo stesso Bregantini, al di là del dolore all'idea di lasciare il suo tormentato gregge, possa obbedire con sollievo all'ordine di andare a fare il suo mestiere di prete in una terra meno difficile, meno pericolosa, meno lacerante della Locride, dove si è spesso battuto in solitudine come un paladino nella terra degli infedeli.
COLPO DURISSIMO - Però... Però il colpo, per la Calabria, è durissimo. Basti leggere, al di là delle parole forse un po' scontate e rituali di alcuni politici che certo non avrebbero potuto dire il contrario, la presa di posizione di tre intellettuali di spicco come l'economista Domenico Cersosimo, il sociologo Piero Fantozzi e l'antropologo Vito Teti. Che parlano d'«una notizia agghiacciante», denunciano un «provvedimento irresponsabile », contestano la «rimozione» di «un vescovo nella frontiera della Calabria più estrema, malata, degradata » che era diventato il «simbolo nobile della Calabria contemporanea civile, propositiva, fattiva. Un emblema dei brandelli residui di fiducia collettiva. Un'icona dei calabresi che lavorano quotidianamente per il cambiamento, per la risalita, per una società più equa, umana, inclusiva». Frasi che racchiudono lo sgomento collettivo di una comunità ammaccata.
Diranno che la Chiesa è una cosa assai più importante del destino di un singolo prete, per quanto carismatico. Che nella regione ci sono altri quattordici vescovi impegnati nella loro missione pastorale. Che qua e là, anche nelle zone più complicate, ci sono sacerdoti (ad esempio il parroco di Polistena, don Pino Demasi, legato a Libera, il cartello di associazioni che fa capo a don Luigi Ciotti, promotore della «Giornata della memoria e dell'impegno in ricordo delle vittime delle mafie») che non arretrano di un millimetro davanti alle prepotenze delle cosche. Tutto vero. Quanto è vero che, come Bertold Brecht fa dire a Galileo Galilei, è «felice il paese che non ha bisogno di eroi».
NON UN VESCOVO COME GLI ALTRI - Però... Però monsignor Bregantini, per quella che oggi è una delle terre più violente, povere e disperate d'Italia, non è stato un vescovo come altri, magari solo un po' meno afono di certi colleghi assai prudenti perfino nel pronunciare la parola «'ndrangheta». In queste terre dove una volta capitava addirittura che qualche sacerdote avesse in dono dai parrocchiani una pistola, fosse presentato all'insediamento da un padrino legato alla mafia o facesse figli su figli con la perpetua, questo monaco trentino sceso dalla valle dei Mocheni per fare l'operaio prima a Marghera e Verona e poi a Crotone, ha marcato fin dall'inizio la sua presenza a Locri come una svolta.
Intendiamoci: il suo stesso predecessore nella diocesi della Locride, Antonio Ciliberti, era stato netto nella sua opposizione alle cosche. L'innesto del vescovo trentino, salutato con una falsa bomba di «benvenuto », fu tuttavia clamoroso fin dall'inizio. Per prima cosa fece diffondere in tutte le parrocchie i nomi di tutte le 263 persone che erano state ammazzate negli ultimi dieci anni.
LA SFIDA DELLE PREGHIERE - Poi distribuì un durissimo libro di preghiere di «sfida alla mafia». Poi prese a battere a tappeto tutti paesi e le contrade martellando (soprattutto in luoghi come Motticella: poche centinaia di abitanti e una cinquantina di morti per una faida) contro «l'idea aberrante di un destino ineluttabile per cui in Calabria tutto è sempre stato e tutto sempre sarà così».
Quindi, appoggiandosi anche a collaboratori entusiasti quali Piero Schirripa, un medico «profugo del marxismo» che in questi giorni è il più addolorato per l'addio, cercò di spiegare alla gente di Platì, il paese incattivito da troppi tradimenti dello Stato fin dalla feroce conquista dei bersaglieri, il paese dei 68 sequestri in cui la mamma di Cesare Casella si era incatenata in piazza chiedendo la liberazione del figlio rapito, il paese in cui il nuovo parroco don Alessandro Di Tullio aveva trovato «registri parrocchiali dove non venivano annotati i morti da cinque anni e i battesimi da sette», che c'erano alternative ai posti di lavoro offerti dai boss.
E aiutò i giovani del posto a fondare la Cooperativa Valle del Buonamico che nel giro di pochi anni, vincendo pure l'ottusità idiota di uffici pubblici capaci di chiedere 24 passaggi burocratici e intralciare la concessione al vescovo del certificato antimafia, fece capire per la prima volta alla gente che si poteva vivere, dignitosamente, anche coltivando fragole, mirtilli e lamponi. Non c'è stato giorno, per anni, in cui monsignor Bregantini non abbia picchiato duro sulla mafia e la cultura mafiosa. Fino a suggerire «se necessario la militarizzazione della zona» perché «chi fa il male deve essere umiliato nel suo falso "onore" perché ritrovi la forza di cambiare». Ad attaccare frontalmente la politica «incapace di dare risposte adeguate ai problemi della gente».
A proibire ai parroci di accettare come padrini ai battesimi uomini vicini alla malavita. A chiedere dopo la strage di Duisburg che il governo stesso elaborasse coi sindaci «una serie di provvedimenti straordinari». Una guerra frontale. Totale. Assoluta. Dichiarata giorno dopo giorno con una voce che pareva ancora più tonante tra i silenzi, le afonie, i sussurri di tanti altri vescovi, parroci, cappellani. Per questo anche la Chiesa oggi, e non solo lo Stato, ha una responsabilità grande. Perché, dopo l'addio di un uomo come Giancarlo Bregantini, i calabresi onesti e pieni di fede rischiano di sentirsi ancora una volta abbandonati dopo troppi abbandoni. E questo sarebbe davvero un delitto.
Gian Antonio Stella
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