venerdì 17 agosto 2007

PER UN CONCILIO ALTRO

La generazione che visse la stagione conciliare operò per promuovere con urgenza alcune riforme ritenute essenziali per il bene della fede e della stessa chiesa.

Fu una scommessa consapevole, anche se contrassegnata da alcune ingenuità.

Era chiaro già allora che alcune posizioni e strutture, presentate dal magistero come perenni ed intangibili nella tradizione cattolica, erano invece costruzioni storiche (il papato, il sacerdozio, il celibato obbligatorio, l’esclusione delle donne dal ministero).

L’eresia ecclesiocentrica che trovò crescente spazio dal Dictatus Papae (1075) fino al Concilio Vaticano I ebbe un reale correttivo nel Concilio Vaticano II.

Ma se lo "spirito" del Concilio fu "liberale" ed evangelico, i testi conciliari rappresentarono già un "compromesso delle formule" che mise le basi per la susseguente lettura ed interpretazione "continuista" e tradizionalistica.

Andrebbero analizzate con maggiore coraggio le ambiguità che il Concilio non ha voluto o potuto risolvere sul terreno dell’ecclesiologia. Sono stati gettati dei semi, ma si è accuratamente "salvata" un’ecclesiologia piramidale che, a livello teologico, non è stata superata.

In questi anni troppo poco si è insistito sui limiti del Concilio, con il rischio di fare dei documenti conciliari la magna charta del rinnovamento evangelico della Chiesa. La citazione del Concilio, fatta e ripetuta in tutte le sedi ed in tutte le direzioni è diventata un rituale spesso privo di un significato realmente innovativo. Sia Giovanni Paolo II sia Benedetto XVI fanno della citazione del Concilio una vuota formalità. Se Paolo VI fu il primo imbrigliatore del Concilio, i pontefici successivi hanno contribuito a farne un monumento di pietra da visitare e riverire, una mummia da rispettare purchè resti imbalsamata.

Un’altra direzione

A livello ufficiale, di fatto la chiesa cattolica ha chiuso con il Concilio. Proprio per questo oggi ci troviamo a dover fare della difesa del Concilio uno dei punti di forza della nostra azione ecclesiale, teologica e pastorale.

"Purchè si sia consapevoli che occorre puntare molto più in là. Altrimenti la "squadra" corre il rischio di giocare troppo in difesa. Infatti siamo diventati consapevoli che "l’istituzione chiesa è sottomessa alla tentazione di qualsiasi istituzione: lavorare per sé stessa e non nella logica della propria vocazione" (Ch. Duquoc).

Del Concilio restano, in questi papati sterminatori della libertà di ricerca e oppressori delle coscienze, i pubblici pentimenti per i crimini del passato, ma queste denunce non si sono tradotte in conversione per cui l’istituzione ecclesiastica continua le sue pratiche di espulsione: "Così aumenta il numero di coloro che, privi della riammissione alla "cittadinanza" spirituale, diventano stranieri nella chiesa (Alberto Melloni, Chiesa madre, chiesa matrigna, Einaudi 2004, pag. 108). In Europa sono ormai la maggioranza dei battezzati.

La chiesa ufficiale continua sul doppio binario del potere e dell’immagine. I riti pagani che si sono verificati al funerale di papa Voytila e all’elezione del nuovo papa evidenziano questa duplice idolatria. Si tratta qui di esaminare le dinamiche strutturali dell’istituzione cattolica che è cosa diversa dal giudizio sulle persone che, in ultima analisi, non è di nostra competenza. Serve a poco (anzi è deviante rispetto all’analisi della realtà) disquisire sulle intenzioni profonde del cuore di Hitler. E’ essenziale conoscere i fatti, le decisioni, le manovre. Questo è il giudizio che ci compete. Infatti, le decisioni degli ultimi due papati parlano di papolatria e di dittatura vaticana, di eclisse dei vescovi e delle chiese locali.

Dal consultivo al deliberativo

Dunque…..un nuovo Concilio? Credo, in verità, che sarebbero maturi i tempi per un Concilio di tutte le chiese cristiane. Tali sono le "sfide" che il mondo di oggi rivolge al cristianesimo che a me sembrano non più procrastinabili una riflessione e un'azione comune tra tutte le chiese cristiane. In attesa che maturi questo "evento", penso che una nuova coscienza ecclesiale esiga non solo un altro Concilio, ma soprattutto un Concilio "altro".

Voglio dire che ormai è teologicamente maturo il tempo per una rappresentanza diversa. Il solo episcopato non può rappresentare adeguatamente una chiesa. Oggi le donne, i preti sposati, i gay e le lesbiche credenti, i divorziati che vivono le seconde nozze, i teologi e le teologhe, le comunità cristiane di base, i cristiani attivi nel volontariato, o nell’impegno culturale, amministrativo e politico, nei movimenti della pace, nel femminismo, nelle lotte contro l’ecocidio e il patriarcato rappresentano un patrimonio di riflessione e azione la cui voce è indispensabile per ripensare il senso della presenza cristiana nel mondo.

Tutte queste "presenze" debbono avere voce attiva, deliberativa e non solo consultiva.

Oggi, insomma, un Concilio comporterebbe a livello teologico una presa d’atto della necessità di superare il modello precedente.

Con i "padri conciliari" dovrebbero sedere le madri, i fratelli e le sorelle "conciliari".

Senza questa rappresentanza reale del popolo di Dio, un Concilio clericale e patriarcale partirebbe con il piede sbagliato.

Un altro Concilio, se non sarà un Concilio "altro", sarà privo di vera autorevolezza evangelica.
Spero che questo "oltrepassamento" avvenga perché, senza questa coralità, la nostra chiesa potrebbe correre il rischio di imprigionarsi in un ghetto o di diventare un museo o un mausoleo. La mia fiducia sta nel fatto che il "vento soffia…..inarrestabile, irresistibile…..".

Sinodalità e conciliarità comportano la ripresa di contatto con le origini cristiane, quando non si era ancora costruita la gerarchia e vigeva la prassi dei ministeri e della collegialità.

Se non si riaccendono nelle comunità cristiane nuove prospettive e nuove pratiche di partecipazione attiva alle decisioni ecclesiali, sarà compromesso un eventuale prossimo Concilio perché, calato dall’alto, sarà prigioniero delle solite "gabbie dogmatiche". Senza un nuovo soffio di libertà, tradotto in percorsi teologici e pastorali veramente innovativi, un nuovo Concilio potrebbe risultare una operazione di vertici, un aggiornamento operato soprattutto per sopravvivere.

Per una spiritualità del dialogo

Sul terreno esegetico, ermeneutico e storico in questo periodo sono fioriti studi di estrema rilevanza, ma non possiamo non constatare che nelle istanze gerarchiche si è diffuso un sistematico sospetto verso la libertà di ricerca, di idee, di espressione.

Non credo che basti il cambio del timoniere romano per far crescere un clima nuovo nella nostra chiesa.

Occorre, oltre alla svolta ermeneutica della teologia, anche una spiritualità del dialogo che tenga in tensione libertà e unità della fede. A me sembra decisivo praticare insieme comunione essenziale e libertà reale. E’ fondamentale restare "dentro" questa gestazione evangelica, sia pure con le più audaci e umili forme di dissenso.

Certo, il regno di Dio non è limitato alle mappe ecclesiali e la chiesa non può intendersi solo come lo spazio riconosciuto dalle gerarchie. Non è più l’ortodossia il criterio di identificazione del cristiano, ma mai come oggi, anche dentro la chiesa, abbiamo bisogno di ascoltare umilmente, di resisterci a viso aperto, di parlarci anche con durezza, di praticare sentieri pastorali diversi, di analizzare lucidamente il ruolo di certe istituzioni: tutto questo senza spirito di scomunica, continuando a pregare gli uni per gli altri. Altrimenti si separa l’esercizio della libertà cristiana dallo spirito di comunione. Questo sarebbe un divorzio negativo destinato a impoverire la nostra fede.

Ho sempre pregato insistentemente Dio consapevole di quanto sia impresa difficile tenere insieme libertà evangelica e spirito-prassi di comunione. Esiste, infatti, il pericolo di enfatizzare talmente le esigenze della "comunione" ecclesiale da sopprimere del tutto o ridurre al minimo l’esercizio della libertà evangelica o da sottovalutare le esigenze della comunione cristiana "essenziale" nel nome della libertà evangelica.

Non penso che si tratti di usare il bilancino, ma di portare ben radicate in noi le due istanze, senza cercarne una composizione equilibrata, una formula valida per ogni tempo, ma piuttosto accettando un percorso mosso, conflittuale e accidentato, sempre imprevedibile, costantemente aperto all’azione trasformatrice di Dio. Dentro la nostra vita personale e comunitaria, sia la libertà evangelica, sia la comunione debbono sempre ripensarsi.

Oggi, mentre si invoca molto spesso a sproposito la comunione ecclesiale per mantenere lo status quo nell’istituzione ecclesiastica e per continuare a praticare la sottomissione delle coscienze e vietare delle pratiche pastorali innovative, occorre sottolineare vigorosamente che non si favorisce la comunione nella fede se si riduce la libertà dei figli e delle figlie di Dio.

A questa spiritualità non dovrebbe mancare l’audacia di esperimentare, il coraggio di vivere la comunità come experimentum, come luogo dove si parlano nuovi linguaggi, si celebrano nuove liturgie, si dà spazio a nuovi soggetti nella consapevolezza che "attualizzare la tradizione significa proporre nuove interpretazioni della Scrittura, dei simboli di fede, delle formule dogmatiche". Come la fede e la vita esigono a gran voce.

Sentieri possibili verso il futuro

Un primo passo decisivo consiste,a mio avviso,nella attenta e positiva considerazione del dimagrimento dell’esperienza cristiana, evidente oggi almeno a livello istituzionale.Questo fatto,massiccio e ben visibile,dello svuotamento di molte chiese rappresenta l’occasione per aprire gli occhi sulla qualità del nostro vissuto personale e comunitario.

Noi siamo diventati, come chiesa cattolica ufficiale, una provincia dell’impero occidentale, anzi parte integrante di esso e l’esperienza cristiana si trova "in una situazione di cattività istituzionale"(Tissa Balasuriya).Gli uomini "di chiesa" sono "uomini del sistema". Le eccezioni sono rarissime.

Fuori dalla dipendenza

La conciliarità non si limita solo a rifiutare la dittatura vaticana. La "comunione di fede" si traduce in comunione ecclesiale non perché una gerarchia ci legittima, ma perché una comunità ci riconosce e ci accoglie. Si tratta, per esempio, di capire che la legittimità di un ministero non dipende dal riconoscimento del potere gerarchico, ma dal fatto che una o più comunità riconoscano in questa donna o in questo uomo il dono di Dio. Per quanto mi riguarda,non ho mai pensato di interrompere l’esercizio del ministero dopo il provvedimento vaticano nei miei confronti . Esso, infatti, essendo stato deciso senza ascoltare né me né le comunità in cui svolgo il mio servizio, è completamente invalido per la stessa legge ecclesiastica,che pure è interna ad un codice ampiamente disumano.

Occorre quindi un profondo ripensamento della teologia della comunione, in una prospettiva di liberazione delle persone dall’ideologia della dipendenza dall’istanza gerarchica, peraltro totalmente assente nella prassi di Gesù di Nazareth. Senza questa elaborazione ci troviamo in piena eclisse del popolo di Dio e tutti i ministri sono ridotti a caporali di giornata. Il teologo cattolico Yves Congar scriveva che questo sistema è "totalitario, poliziesco e cretino". E non era né un estremista né un eretico.

Un grande biblista e teologo cattolico parla di alcuni processi che, già nel III secolo, hanno determinato la relegazione dei laici in un ruolo sempre più passivo: "Un’immagine eloquente, che esprime tale situazione, la troviamo nelle Pseudo-Clementine, un romanzo cristiano - il primo romanzo cristiano in assoluto – risalente alla prima metà del III secolo. In quest’opera Pietro dà a Clemente, suo successore (!), indicazioni sull’esercizio del proprio ministero e sui doveri dei presbiteri, dei diaconi, dei catechisti e dei fedeli. La chiesa è paragonata ad una barca in cui il timoniere è Cristo. Il vescovo è il secondo timoniere, i presbiteri sono i marinai, i diaconi i capi della ciurma, i catechisti sono gli ufficiali contabili. La "massa dei fratelli", cioè i fedeli sono i passeggeri. Essi non conducono la nave, ma sono trasportati e affidati, in tutto e per tutto, alle capacità o incapacità dell’equipaggio: questa è l’immagine della chiesa clericale mantenutasi, attraverso i secoli, fino ad oggi. L’immagine è completata dalla seguente raccomandazione: "I passeggeri siano seduti ai loro posti e non si muovano, affinché non provochino, con i loro spostamenti disordinati, pericolosi movimenti e sbandamenti della nave (H. HAAG, Da Gesù al sacerdozio, Edizioni Claudiana, Torino 2001, pag. 121).

Ora è successo che nei secoli il secondo timoniere ha preso il posto del primo che occorre ricollocare al suo posto. Si noti che io non intendo un appiattimento ecclesiologico, una concezione facilona del sacerdozio universale con l’eliminazione del ministero ordinato; intendo piuttosto affermare la fondamentale "laicità " di tutto il popolo di Dio e, quindi, la declericalizzazione di ogni ministero ecclesiale. Ho elaborato più compiutamente il mio pensiero su questo punto nel mio scritto "Perché resto" (Viottoli 2004).

Siamo sempre esposti al rischio di rimuovere il Gesù della storia per fabbricarcene uno dogmatico, funzionale agli interessi dell’istituzione o ai compromessi personali. L’allontanamento da Gesù è avvenuto sia divinizzandolo sia sacerdotalizzandolo. Ma Gesù "si distingueva per il suo ruolo di mediatore storico della definitiva regalità divina di Dio Padre e per uno specifico rapporto funzionale con lui. Comunque è certo che non ha mai detto di essere il figlio di Dio trascendente; è la chiesa delle origini che ha tematizzato e sviluppato tale titolo glorioso fino ad arricchirlo di contenuti sorprendenti".

Né ha mai fatto di sé un sacerdote. Questo profeta della Galilea che per noi cristiani è l’icona di Dio, la sua epifania nella nostra carne, tanto che lo chiamiamo "figlio di Dio" per designare la sua intimità con Dio e la missione particolare che il Signore gli ha affidato, ha chiaramente distinto tra apparato religioso e fede.

Quest’uomo, che ha fatto sua la causa di Dio con tutto il cuore, che ha cercato ogni giorno di convertirsi alla volontà del Padre, che ha pregato per non indietreggiare di fronte alle prove della vita, è stato un laico: "Gesù nacque come ebreo laico, condusse il suo ministero come ebreo laico e morì come ebreo laico…Egli era un laico religiosamente impegnato che sembrava minacciare il potere di un gruppo ristretto di sacerdoti. Questo contribuì allo scontro finale in Gerusalemme…Ho intenzionalmente sottolineato la condizione laicale di Gesù perché i cristiani sono molto assuefatti all’immagine di Gesù sacerdote o grande sommo sacerdote". Sarebbe bene che non lo dimenticassimo mai.

Il nodo economico

Resta, per non rifugiarsi nell'astrettezza ma operare in vista di un percorso realmente possibile, un nodo che occorre affrontare.

Finchè i preti, i teologi, le teologhe e molti altri operatori pastorali legheranno il loro sostentamento economico alla chiesa con la necessaria approvazione della gerarchia, le libertà di pensiero, di ricerca teologica e di prassi pastorale saranno una illusione o un sogno destinato a rimanere tale. La paura di perdere lo stipendio (e quindi il sostentamento) costringe molti preti e teologi ad una tragica "prudenza", all’autocensura, alla sostanziale rinuncia, alla libertà umana ed evangelica.

Per molti non c’è altra minestra per tutta la vita, se non hanno potuto, voluto e saputo trovarsi una autonomia economica dall’istituzione ufficiale che, specialmente in questi ultimi decenni, non tollera voci dissonanti. Si tratta di un impegno difficile che per me, con l’aiuto della mia comunità cristiana di base e con parecchia fatica ed altrettanta gioia, è stato possibile. Invito a non dipendere economicamente dal riconoscimento gerarchico che, il più delle volte, costringe a vivere come altoparlanti, come diffusori della "voce del padrone" ecclesiastico.

Per non concludere

I giochi non sono chiusi perché Dio è vivo ed ha operato in Gesù la resurrezione.

Ritorniamo a Gesù di Nazareth, testimone di Dio. Egli ci guida verso Dio, verso i poveri, verso la speranza: "è il rumore di fondo delle chiese che testimonia che Gesù è il nervo scoperto. Limitando ancora una volta l’osservazione alla chiesa cattolica, più di un indizio sembra dire che la persona di Gesù e la sua storia hanno un significato relativo…". La chiesa spesso è una realtà che "lascia da parte la vita di Gesù, il suo incedere. Gesù diventa una premessa essenziale, facilmente scontata e sulla quale nessuno…sembra avere da dire granchè. Invece è proprio su Gesù, mi pare, che si gioca l’essenziale, sia per capire il cristianesimo nella sua storia e nel suo assetto, che per viverlo" (Alberto Melloni, Chiesa madre, chiesa matrigna, pag. 144).

Gesù continuerà ad essere per noi colui che ci annuncia un Dio più grande del nostro cuore, un cammino di liberazione e di radicale fiducia nella misteriosa presenza della sorgente della vita che non ha ceduto a nessuna religione, a nessuna istituzione il monopolio della salvezza. Liberare Gesù, anzi liberare Dio dal cristianesimo imperialista, significa credere che "il problema non è del cristianesimo tout court, ma della religione" (Josè Maria Vigil), cioè della sua versione storica occidentale che si è posta come egemone. Gli "aggiornamenti" e i ritocchi non fanno che verniciare l’esistente e prolungare l’agonia.
Da: Viottoli n°14, 2005, pag. 46-49

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