martedì 1 maggio 2007

UNA PROVOCAZIONE MATEMATICA

PIERGIORGIO ODIFREDDI, Perché non possiamo non essere cristiani (e meno che mai cattolici), Longanesi, Milano 2007, pagg. 266, € 14,60.

Ho letto con un misto di piacere e di sconcerto le pagine di questo libro, opera di un insigne studioso e di un brillante divulgatore che ha l’onestà di vivee e difendere il suo ateismo.

Gli appunti critici sul fenomeno storico del cristianesimo, il capitolo sul cattolicesimo e molte pagine dedicata alla ricostruzione delle vicende che portarono alla dogmatica trinitaria rappresentano, a mio avviso, una sistemazione logica apprezzabile, anche se troppo veloce e lineare.

Ma dove l’Autore entra sul terreno dell’interpretazione dei libri e dei passi biblici, suscita spesso un’incontenibile ilarità.

Manca all’Autore, che si improvvisa esegeta ed ermeneuta, gli strumenti di accesso al testo che, talvolta, con toni simpaticamente disinvolti e pesantemente sprezzanti, liquida con quattro battute che evidenziano le sue idee più che quelle espresse nel testo.

A volte la matematica non basta e un po’ di esegesi non guasta… Soprattutto non basta riportare delle etimologie ed elencare dei fatti per un buon utilizzo dei metodi letterari, storici e critici.

Il libro ha una tesi e la persegue senza mai perdere il filo: “non c’è bisogno di essere moderni per sapere che l’esperienza del soprannaturale è solo uno dei nomi della malattia mentale, così come non è necessario essere antichi per credere che nell’estasi gli squilibrati comunichino con Dio” (pag. 146).

La lettura a me è risultata utile e divertente. Mi ha aiutato a riscoprire la bellezza della mia fede cristiana oltre il “cristianesimo criminale” e ad apprezzare sempre di più la ricchezza della ricerche bibliche e teologiche, così lontane dalle affermazioni perentorie e così estranee alla “dottrina ufficiale”.

Libri come questo, purtroppo, non arrivano alla profondità delle domande di Giobbe e di Jonas, ma si leggono con simpatia. Resta tuttavia molto probabile che Odifreddi non sia stato in grado o non abbia voluto assumere il peso e la serietà del discorso religioso.

Forse semplicemente lo scienziato si è un po’ dimenticato che anche il suo mestiere non è onnipotente e onnisciente. Il mondo e la vita non si tagliano come il parmigiano: da una parte “lo profondità logiche” e dall’altra “le superficialità teologiche” (pag. 227).

Mi sembra che le conclusioni del nostro Autore siano troppo perentorie, secche, sicure, assolute: “Dunque, finché ci saranno religioni ci saranno guerre di religioni, come ci sono sempre state e ci sono … Diversamente dalla religioni, la scienza non ha dunque bisogno di rivendicare nessun monopolio della serietà: semplicemente, ce l’ha” (pag. 227). Forse è un po’ troppo.

Che ne pensate? La verità della vita non ce l’ha probabilmente nemmeno la scienza. In ogni caso, il credente non matura se non fa i conti con le “provocazioni”. Per questo motivo ne raccomando la lettura.

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