lunedì 6 agosto 2007

LA CONTRORIFORMA DI RATZINGER

Ospito Volentieri sul mio blog questa lucidissima analisi di Luigi Sandri, esperto vaticanista, comparsa su "La Rinascita della Sinistra" del 19 luglio. L’Autore ci invita a guardare con profondità, ben oltre l’introduzione della lingua latina, alla prospettiva in cui il pontificato di Benedetto XVI si è saldamente collocato. Egli ci lascia intravvedere quella che, a mio avviso, è la tragedia, cioè le patologie derivanti dall’obbedienza ecclesiastica.


La controriforma di Ratzinger

Non è certo l’uso del latino, o qualche sottigliezza teologica, ma l’interpretazione sostanziale del Concilio Vaticano (e perciò la strategia del pontificato) il problema di fondo dei recenti interventi di Benedetto XVI.

Con il motu proprio Summorum Pontificum, del 7 luglio, il papa ha liberalizzato al massimo quanto Giovanni Paolo II aveva ammesso come eccezione: ha reso in pratica equivalenti la liturgia stabilita nel 1570 da Pio V, per attuare il Concilio di Trento, e la riforma liturgica varata da Paolo VI nel 1970, in attuazione del mandato del Vaticano II.

La missa tridentina esalta il sacerdote che, anche da solo, può ben celebrare il “sacrificio” della messa; quella di papa Montini sottolinea la partecipazione del “popolo di Dio”.

L’ultima edizione del Missale post-tridentino, uscita nel 1962, con Giovanni XXIII, riproduceva il testo di Pio V, ma con un’importante variazione. Nel Venerdì santo, nella liturgia antica si pregava pro perfidis judaeis, per i perfidi giudei, e per la loro conversione; nel 1959 papa Roncalli aveva cancellato quel perfidis che, dunque, non appariva più nel messale; rimaneva però la conversione.

Adesso, riutilizzando il vecchio rito, i cattolici pregheranno perché gli ebrei si facciano cristiani. Auspicio – sulla scia del Vaticano II – assente dalla liturgia del 1970, ed ora reintrodotto.

La contraddizione è evidente; la manomissione dell’ultimo Concilio pure. Il francese mons. Marcel Lefebvre aveva definito protestante la “nuova messa”. La questione non era il latino, perché anche l’edizione tipica della riforma liturgica era in tale lingua; ma la teologia soggiacente.

Per conservare la “Chiesa di sempre”, nel 1988 il prelato consacrò quattro vescovi; e papa Wojtyla lo scomunicò. Più ancora che contro la nuova liturgia, asperrima l’opposizione di Lefebvre (morto nel 1991), e poi dei suoi seguaci, alla dichiarazione conciliare sulla libertà religiosa.

Secondo i “tradizionalisti”, riconoscendo il principio della libertà religiosa il Vaticano II aveva contraddetto frontalmente il magistero di quei papi e di quei Concili che per secoli avevano ammesso la liceità di mandare al rogo gli “eretici”.

Ratzinger ripete ora che il Vaticano II non ha voluto “rotture”, ma solo “sviluppi” con il passato: invece, almeno su due punti (il riconoscimento del principio della libertà religiosa, appunto, e l’affermazione che il popolo ebraico continua ad essere benedetto), il Concilio II ruppe sostanzialmente con la Tradizione.

Il “chi è” del Vaticano II è sotteso anche al documento della Congregazione per la dottrina della fede, del 10 luglio, intitolato "Risposte a questioni riguardanti alcuni aspetti circa la dottrina della Chiesa".

Citando la costituzione conciliare Lumen gentium, esso ripete che la Chiesa proclamata nel Credo “una, santa, cattolica e apostolica sussiste [in latino: subsistit in] nella Chiesa cattolica, governata dal successore di Pietro e dai vescovi in comunione con lui”. Con Pio XII si diceva che la Chiesa di Cristo è [est] la Chiesa cattolica romana.

Perché il Concilio usò un verbo differente? L’interpretazione “dinamica” è che esso volle dire che la Chiesa di Cristo “sussiste” certamente nella Chiesa cattolica; ma non solo in essa.

Nella dichiarazione Dominus Iesus del 2000, Ratzinger, allora guida dell’ex Sant’Uffizio, aveva contrastato tale tesi; e il nuovo testo riafferma quello di sette anni fa. Precisando: quelle ortodosse possano chiamarsi Chiese, perché hanno la successione apostolica; però, slegate dal papa, “risentono di una carenza”.

Invece, le Comunità nate dalla Riforma protestante, “non avendo la successione apostolica, non possono essere chiamate Chiese in senso proprio”.

Affermazione, quest’ultima, aspramente criticata da esponenti evangelici. Che si sono chiesti: visto che già la Dominus Iesus aveva detto che quelle nate dalla Riforma del Cinquecento non sono vere Chiese, perché ribadire ora tale tesi?

Già, perché? Forse per far sapere alla Chiesa romana che non è il Concilio di Trento che va interpretato alla luce del Vaticano II, ma viceversa, per cui quest’ultimo va letto riduttivamente.

E, poi, per lanciare un ponte alle Chiese ortodosse che, sulla Riforma, la pensano come Roma. In particolare, collimano con le sue le tesi ufficiali della Chiesa russa, la più forte nell’Ortodossia.

Da qui i preparativi – ormai a buon punto – per l’incontro tra il papa e il patriarca di Mosca Aleksij II. Ma la scorciatoia imboccata da Ratzinger potrebbe riservare sorprese: unanimi contro la modernità, i vertici della Chiesa romana e di quella russa sono infatti discordi sull’interpretazione dogmatica del primato papale (e dunque su chi sia la vera Chiesa), il muro tra cattolici e ortodossi.

Un’alleanza Roma-Mosca anti-modernista e anti-protestante, che sorvoli su tale contrasto, e sull’interpretazione dell’Evangelo in proposito, rinvia al domani nodi irrisolti che, prima o poi, verranno dolorosamente al pettine.

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